Ultime notizie

Lingue morte…vive o X

Il greco e il latino sono un patrimonio culturale, ma ripensare i metodi didattici darebbe nuova linfa agli studi classici. Dalla Scozia dell'800 la proposta didattica di John Stuart Blackie.

Nel tentativo di dare nuova linfa agli studi classici, persone competenti avanzano spesso sagge spiegazioni sull’utilità dello studio di una “lingua morta”. Molti sarebbero i vantaggi derivanti dalla lettura dei testi antichi nella lingua originale: conoscere le radici della nostra cultura occidentale e cristiana; sviluppare competenze linguistiche applicabili anche nell’apprendimento delle lingue moderne; potenziare il “vocabolario”; affinare abilità logico-deduttive; acquisire basi per una futura formazione professionale. Queste argomentazioni sono fondate, ma sembrano poggiare su una specie di paradosso: giustificare la vitalità di una lingua morta; la lingua è morta ma è anche viva! E se invece di giustificare una lingua morta, si rendesse la suddetta talmente viva da non doversi più giustificare?

john_stuart_blackiePer proiettarci in un futuro possibile facciamo un salto nel passato. Siamo ad Edimburgo, nel 1871. John Stuart Blackie (1809-1895), titolare della cattedra di Greco presso l’Università, da vent’anni, è un eccentrico e brillante professore, assai apprezzato dagli studenti e dall’ambiente accademico, quando decide di dare alle stampe un volume dal titolo Greek and English Dialogues, for Use in Schools and Colleges. Il libro è una raccolta di XXV brevi dialoghi in greco antico, affiancati dalla traduzione in inglese; una sorta di manuale didattico ad uso di docenti e discenti, pensato e scritto ex novo da Blackie per introdurre una pratica attiva dello studio del greco, quel metodo dialogico (colloquial method) con cui egli stesso aveva imparato le lingue classiche, come tanti intellettuali dei secoli XVI e XVII in Europa. Blackie, una di quelle menti rare in cui il buon senso si associa a rigore e acume, rilevava alcune assurdità nelle metodologie di insegnamento e di apprendimento delle lingue classiche; ogniqualvolta si rivolgeva agli studenti in latino, anche con una breve frase colloquiale, questi restavano ammutoliti. Gli studenti avevano sì, nella memoria e nei quaderni, un bel numero di frasi tradotte, ma se Blackie provava a dire in latino o greco: “il sole splende” o “la porta va chiusa”, nessuno era in grado di capire o replicare. Per quanto gli studenti traducessero, memorizzassero, applicassero regole, tutti gli oggetti intorno a loro e posti sotto i loro stessi occhi non esistevano poiché nessuno era capace di dare ad essi un nome. Insomma: il modo di insegnare e apprendere le lingue classiche nella città di Edimburgo dell’Ottocento non era molto difforme da quello adottato nelle nostre classi liceali e universitarie.

Insegnare le lingue classiche senza parlare in latino e greco è un’assurdità, secondo Blackie, perché gli studenti non imparano a pensare nella lingua che stanno studiando. Studiare una lingua senza pensare in quella lingua è un processo innaturale; non può darsi alcuna differenza tra una lingua viva e una lingua morta, perché «nell’acquisizione di qualunque linguaggio, sia vivo sia morto, si deve cominciare con un approccio vivo dalla lingua del docente all’orecchio del discente, e ciò con riferimento diretto ad oggetti verso cui il discente prova interesse naturale e familiare» (p. X). E allora resta da chiedersi se anche per gli studenti dei nostri giorni non sarebbe più naturale imparare il latino e greco conversando, acquisendo un vocabolario semantico atto a connotare gli oggetti e i significati della vita che scorre sotto i loro occhi.

j7d3yrs494wBlackie aveva pensato al metodo dialogico perchè «i dialoghi tuffano gli studenti nell’elemento vivo del greco, in cui essi devono imparare a sguazzare gioiosamente come giovani foche in un mare pieno di sole» (p. XII). I temi scelti per i XXV dialoghi vertono su argomenti “attuali”, “curiosi”, di “interesse generale”, come: Il tempo atmosferico; La casa e il suo arredamento; Gli animali; Una mostra di quadri; Salute e malattia; La musica; Il vestiario; Un dinner party. Blackie propone un metodo didattico che non richiederebbe più di venti minuti a lezione, senza sottrarre tempo alla lettura e allo studio dei classici. Il docente annuncia il tema che tratterà in greco il giorno seguente (Un dinner party); gli studenti dovranno esercitarsi sul lessico relativo, ricavandolo dal dialogo dedicato al tema. Il giorno dopo, il professore descriverà un dinner party; saranno gli studenti a parlare sullo stesso tema nella lezione successiva; infine, una composizione scritta sul tema consoliderà le competenze lessicali e sintattiche. Il metodo proposto era inteso da Blackie non come un fine, ma come un mezzo; egli aveva sperimentato come la conversazione in greco «non solo non pregiudica le attività di lettura e scrittura, ma le facilita immensamente e le migliora entrambe»; è l’unica via veramente efficace per far sì che le lingue insegnate «si trasformino in sangue e ossa del discente nel più breve tempo possibile, e con il maggior profitto» (p. XX).

Per quanti ritenessero tale proposta didattica come un impegno supplementare per gli insegnanti, già malpagati e oberati di lavoro, Blackie ha una risposta valida: nessun docente di materie classiche può trovare più difficile dire “il sole splende” in greco che nella propria lingua madre; «se egli avverte la minima difficoltà nel mettere insieme in modo appropriato queste semplici parole, allora è chiaramente inadatto per l’insegnamento più elementare» (p. XIII).

Dalla Scozia dell’800 arriva una proposta didattica anticonvenzionale, ieri come oggi, che interpreta la crisi delle discipline classiche come uno sprone a rendere più vivi i metodi didattici, invece di limitarsi a giustificare le lingue mortevive o X. È tanto che aspetta.