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Leopardi e il coraggio di ridere

La filosofia leopardiana indagò la facoltà del ridere, attribuendo ad essa un compito morale di monito, ancora utile per la società del nostro tempo.

«Se volessimo tener conto di tutte le risposte che si son date a questa domanda, di tutte le definizioni che autori e critici han tentato, potremmo riempire parecchie e parecchie pagine, e probabilmente alla fine, confusi tra tanti pareri e dispareri, non riusciremmo ad altro che a ripetere la domanda: – Ma, insomma, che cos’è l’umorismo?». Anche Pirandello, nel celebre saggio L’Umorismo (R. Carabba Editore, Lanciano 1908), ammette che «è difficilissimo dire cosa esso sia veramente, perché ha tante varietà e infinite caratteristiche», per cui o «si finisce per dare tante definizioni di umorismo quante sono le caratteristiche riscontrate», o si generalizza: «L’umorismo non c’è, tutt’al più ci sono scrittori umoristi». Se è difficile risalire all’essenza dell’umorismo, l’effetto dovrebbe essere a tutti evidente: l’umorismo fa ridere. E siamo al punto di partenza: -E il riso, allora, che cos’è? Si parta dagli effetti o dalle cause, insomma, la facoltà dell’uomo di ridere e far ridere resta sempre un gran bel mistero da indagare.

Nell’Elogio degli Uccelli, testo rappresentativo della filosofia delle Operette morali, Leopardi-Amelio, paragonando il canto degli uccelli al riso umano, considera quest’ultimo un privilegio esclusivo dell’uomo, definito unico «animale risibile», «parendo il riso non fosse meno proprio e particolare dell’uomo, che la ragione»; poi ipotizza addirittura di «fare una storia del riso: nella quale – scrive l’Autore – cercato che avrò del nascimento di quello, seguiterò narrando i suoi fatti e i suoi casi e le sue fortune, da indi in poi, fino a questo tempo presente». Leopardi, non solo considera la facoltà del riso come un privilegio dell’uomo, una facoltà quindi in sé positiva, ma si spinge oltre attribuendo al riso un preciso compito morale, sul quale vorremmo riflettere. Sempre nell’Elogio agli uccelli, infatti, è espressa la ferma convinzione che quanto più una nazione sia moderna tanto più il riso supplisca «alle parti esercitate in tempi antichi dalla virtù, dalla giustizia, dall’onore, e simili; e in molte cose raffrenando e spaventando gli uomini dalle male opere». Al riso è attribuito dunque un compito morale di monito importante, cioè frenare gli uomini dal compiere «male opere», al punto che anche nello Zibaldone Leopardi scrive: «Grande tra gli uomini e di gran terrore è la potenza del riso: chi ha il coraggio di ridere è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire» (LXXVIII). E come riuscirebbe, il riso, a trattenere dalle «male opere» spaventando gli uomini? In realtà, ridere e far ridere è un’arte complessa sempre in bilico tra il disvelamento e il velamento dell’«arido vero»: consola e distrae l’uomo dal male ma allo stesso tempo glielo mostra; denuncia vizi ed errori della società, senza per questo deprimere ed inasprire gli animi. Nell’Operetta Dialogo di Timandro ed Eleandro, Leopardi-Eleandro asserisce: «Se mi dolessi piangendo […] darei noia non piccola agli altri, e a me stesso, senza alcun frutto. Ridendo dei nostri mali trovo qualche conforto; e procuro di recarne altrui allo stesso modo. Se questo non mi viene fatto, tengo pure per fermo che il ridere dei nostri mali sia l’unico profitto che se ne possa ricavare, e l’unico rimedio che vi si trovi. […] Non dovete pensare che io non compatisca all’infelicità umana. Ma non potendovisi riparare con nessuna forza, nessuna arte, nessuna industria, nessun patto; assai più degno dell’uomo, e di una disperazione magnanima, è il ridere dei mali comuni; che il mettersene a sospirare, lagrimare e stridere insieme cogli altri, o incitandoli a fare altrettanto». Il compito del riso è una sorta di «smascheramento etico» della verità: permette all’uomo di andare nel profondo dell’infelicità e del male senza farlo sprofondare. Ridere e far ridere è una virtù eroica quando è associata alla franchezza di spirito, e disdegna l’ipocrisia; il male e la miseria della condizione umana non sono nascosti ma trasfigurati dal sorriso: «come dicono i poeti che la disperazione ha sempre nella bocca un sorriso».

Senza andare oltre nell’indagare la “filosofia sul riso” di Leopardi, quanto detto sembra sufficiente per fare nostra la convinzione leopardiana che quanto più una nazione sia moderna tanto più avrà bisogno della facoltà del riso, come di una virtù che irrobustisce e invigorisce gli animi. Nel nostro tempo, infatti, si respira spesso un clima cupo e opprimente; dai nostri discorsi, pensieri, previsioni spesso emana un senso di pesantezza, di paura di “non ritorno”; c’è quasi una corsa a chi mostri per primo il male e i suoi turpi effetti: il male genera male, il risentimento altro risentimento, la paura moltiplica mostri. Ridere e far ridere attraverso buone letture, la visione di un film o di uno spettacolo teatrale, anche attraverso una conversazione brillante o un momento di auto-ironia, significa invece dilatare lo spirito, alleggerire e alleggerirsi, sentire un benessere anche fisico. Se il far ridere ha un obiettivo serio, cioè se svela una qualche verità, esso non provoca solo distrazione e consolazione, è più un lievitare, cambiare orizzonte, guardare il tutto con doveroso distacco, per poi tornare a planare sulla verità, per quanto cruda, senza inasprirsi o vendicarsi. Per questo e molto altro, si dovrebbe provare gratitudine per la facoltà ricevuta in dono e benedire quanti sanno accenderla in noi o quanti, come Leopardi, hanno indagato sul quel mistero che è la capacità di ridere e far ridere ; del resto, come scrisse Palazzeschi in Controdolore (29 dicembre 1913), chiaramente alludendo a Leopardi in quella che è, forse, la sua immagine più vulgata: «Un poeta gobbo che continuasse per tutta la vita a cantare dolorosamente non potrebbe essere mai e poi mai un uomo profondo, ma il più superficiale di questa terra».