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L. Sciascia: la politica inizia dalle parole.

Poco dopo l'elezione come deputato al Parlamento, nel 1979, Sciascia pubblica un articolo sul «Corriere della Sera» dal titolo «Dizionario: Montecitorio». Perché la politica inizia dall'educazione culturale e, questa, dall'intelligenza delle parole.

Un mese dopo l’elezione a deputato per il Partito Radicale, Leonardo Sciascia, il 23 luglio 1979, pubblica sul Corriere della Sera un articolo intitolato «Dizionario: Montecitorio» che possiamo considerare prefigurazione della linea politica di chi avverserà sempre la strategia della violenza e del terrore senza rinunciare alla critica del potere costituito.

Sciascia aveva pensato il Dizionario come uno «schedario della memoria»: una raccolta eterogenea di “voci” da scrivere e aggiornare di anno in anno, di mese in mese, perché la memoria si fa più acuta sulle cose del passato e più ottusa su quelle del presente con il passare del tempo; un libro da «non finire se non con la fine della vita», in modo che ogni “voce” fosse la sedimentazione vitale di ricordi e significati raccolti con «totale concentrazione e ferma pazienza». I significati delle parole mutano con l’esperienza, e noi con loro, se sappiamo serbarne memoria.

Leonardo Sciascia (in piedi da destra) con i genitori, il fratello Giuseppe e la sorella Anna.

Leonardo Sciascia (in piedi da destra) con i genitori, il fratello Giuseppe e la sorella Anna.

Per la voce «Camera dei Deputati» o «Montecitorio», andando a ritroso con i ricordi, Sciascia pesca nella memoria come prima immagine quella di lui bambino, tre anni o poco più, che guarda curioso, tra i ghirigori in ferro battuto della ringhiera del balconcino, la scuola elementare davanti casa sua, dove gente festosa affluiva dicendo di andare a votare per la Camera dei Deputati, nel mentre un manipolo di uomini vestiti in camicia nera, pantaloni grigioverdi, stivali, stanziava davanti ai seggi, suscitando nel bambino una certa apprensione per via di quelle camicie nere che gli ricordavano le donne perennemente a lutto della sua famiglia. Solo molti anni dopo quel bambino avrebbe appreso che il suo ricordo non era altro che una personale istantanea dell’ultima votazione per la Camera dei Deputati sotto il fascismo. Per quella volta e per l’ultima volta. In quell’occasione, nel personale Dizionario di Sciascia, alla voce «Camera dei Deputati», era confluita l’amara consapevolezza che il voto, l’atto democratico per eccellenza, può anche essere ridotto a parodia, come la sovranità popolare a finzione, e il potere violento perfino consolidato attraverso la «normalizzazione».

Qualche anno dopo, Sciascia – come ricorda nell’articolo – aveva ascoltato il proprio maestro di scuola paragonare la Camera dei Deputati addirittura ad una «pescheria»: un luogo chiassoso e pure maleodorante, dove si mercanteggia e «si raggiungono accordi per una parola all’orecchio, un ammicco». Un giudizio assai greve, quello del maestro, tanto da insinuare nel bambino il dubbio che Montecitorio non fosse poi un gran bel posto occupato da bella gente. Nonostante quel giudizio caustico, guardando la fotografia dei banchi vuoti della Camera sul sussidiario di scuola, Sciascia preferiva abbandonarsi all’innocenza della fantasia e immaginare Montecitorio come «un grande e strano pianoforte: falcato, con tastiera a gradinata»; mentre l’Aula, così vuota, più della pescheria gli ricordava un discorso di Mussolini che facevano imparare a memoria nelle scuole: «Potevo di quest’aula sorda e grigia, fare un bivacco per i miei manipoli…». Quale fosse il significato preciso delle parole «sorda e grigia», allora, Sciascia non lo capiva bene; solo col tempo comprese come quelle parole, su più di due generazioni, avessero agito come «definizione di una realtà morale»: l’Aula era «sorda in quel che vi si diceva; grigia in quel che si muoveva». Così, nella voce «Camera dei Deputati», era entrato prepotente il giudizio morale.

parlamento okLe parole hanno ovviamente un significato convenzionale e universalmente condiviso, al quale però si aggiunge un significato esistenziale personale, risultato delle nostre esperienze dirette e indirette, custodite e rielaborate nell’archivio della memoria fino alla fine della vita, e con le quali ognuno interpreta la propria realtà. Quando Sciascia approderà in Parlamento nel 1979 come deputato Radicale, fuoriuscito dal PCI, molti anni dopo la caduta del fascismo sentirà ancora riecheggiare in sé le parole udite nell’infanzia: «Sorda e grigia». Nell’articolo del Corriere della sera confessa di averle ritrovate, di «esserne stato per un momento come aduggiato» – inseguito da ombre, quando, il 20 giugno, nel primo giorno da parlamentare, guardando quelle «centinaia di facce confitte nei gironi degli scanni», sentendo le voci «salire indistinte, gonfiarsi, ribollire come una nuvola», aveva pensato di essere proprio davanti a «Una sorda e grigia umanità: di condannati che si considerano eletti. Solo che si sentissero condannati: e sarebbero meno sordi, meno grigi. Al contrario che nel regno di Dio, in una repubblica democratica molti sono gli eletti, pochi i chiamati».

Sciascia siederà in Parlamento fino al 1983, combattendo in modo particolare il terrorismo e la mafia, pur restando critico nei confronti dello Stato e di certe sue connivenze inique. Non sappiamo se alla fine dell’esperienza politica reputasse ancora l’Aula come «sorda e grigia»; sicuramente, in occasione della sua prima volta a Montecitorio, Sciascia pensò così: «Al contrario che nel regno di Dio, in una repubblica democratica molti sono gli eletti, pochi i chiamati».

 

*L’articolo citato è pubblicato in versione integrale, in, L. Sciascia, Fine del carabiniere a cavallo. Saggi letterari (1955-1989), a.c. d. Paolo Squillacioti, Adelphi, Milano 2016, pp. 91-93; 229.