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Covid-19: “Tempo opportuno per cambiare, essere attrattivi e comunicare la fede dove c’è paura”

"Noi abbiamo bisogno proprio di questo - sottolinea il cardinale Zuppi -, di trovarci con la nostra sedia, con la nostra individualità, in relazione agli altri. È uno sforzo che bisogna fare per accogliere gli altri, noi dobbiamo pensare che le nostre comunità coinvolgono le persone. Dobbiamo ricostruire un legame di comunità che coinvolga ciascuno, senza darlo per scontato. Con il pieno coinvolgimento, quando lo troviamo, ecco che capiamo la bellezza della Chiesa, la bellezza di essere una comunità-famiglia. La sedia e il banco come la nostra sedia di casa"

Lo ha affermato sabato 29 agosto il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna, intervenendo al convegno pastorale diocesano 2020

Il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna, al Convegno diocesano 2020
Corrado De Dominicis e Roberta Fioravanti

«Non perdiamo l’opportunità per fare di questo tempo un tempo opportuno per cambiare». È stata l’esortazione rivolta ieri ai fedeli pescaresi dall’arcivescovo di Bologna, il cardinale Matteo Maria Zuppi che sabato 29 agosto nella Cattedrale di San Cetteo è stato il relatore di punta del convegno pastorale dell’arcidiocesi di Pescara-Penne dal tema “Il banco e la sedia. Per una pastorale che si posiziona sempre nel tempo”. Una metafora che, prendendo spunto dalle misure di distanziamento fisico usate nelle parrocchie in questo tempo di pandemia da Covid-19, è voluta essere un monito per spingere la Chiesa locale ad essere più attraente ed accogliente verso i lontani dalla fede: «L’immagine della sedia – premettono Roberta Fioravanti e Corrado De Dominicis, i conduttori dell’evento – contrapposta a quella più stabile, più fisica del banco. Una riflessione sulla qualità della pastorale di dover essere mobile, duttile, al passo e in ascolto dei tempi, il più facilmente possibile in adattamento alle circostanze per favorire un continuo posizionamento nel tempo. Dunque la sedia non come supporto per sedersi, ma come modalità di collocarsi nel tempo e nello spazio. La sedia è il nostro modo di volgere il cuore alla storia e alle storie che ci circondano».

Padre Roberto Di Paolo, biblista e direttore dell‘Issr Toniolo

E a proposito di segni dei tempi è stato Padre Roberto Di Paolo, direttore dell’Istituto superiore di Scienze religiose Giuseppe Toniolo di Pescara, ad approfondire il concetto tenendo una lectio brevis su di un passo specifico del Vangelo di Luca (12, 54-59): «Al versetto 56 – spiega il biblista – l’evangelista pone la domanda “Perché non sapete valutare questo kairos, questo tempo?”. Luca ama lasciare i racconti aperti perché il lettore possa rispondere. Nella seconda parte dell’episodio c’è un contenzioso per una somma di denaro che appartiene all’uno, ma che è stata presa dall’altro che deve restituirla ma non si mettono d’accordo. Qui si parla di rapporti sociali toccati dall’interesse e Gesù usa delle parole di fuoco “Quando stai con il tuo avversario, datti da fare per essere lasciato libero da lui”. Ovvero impegnati a prendere le distanze da quella persona. C’è un tempo per mettersi d’accordo, c’è un tempo per valutare e c’è un tempo per riflettere. Ed è un kairos. Poi ce n’è un altro per gestire le conseguenze di quello che sta avvenendo, anche per causa mia. La domanda posta alla folla è “Perché non siete in grado?”».

Simonetta Di Giorgio e Sandro Padula

Una domanda che risuona anche al tempo della pandemia e a cui hanno cercato di rispondere tre testimonianze a partire da quella di Simonetta Di Giorgio e Sandro Padula, una famiglia della parrocchia di Sant’Andrea apostolo a Collecorvino che ha raccontato la propria esperienza di fede vissuta durante il lockdown: «Piano piano – raccontano – abbiamo pensato di ricavarci un’altra normalità, pregando insieme al mattino o quando si poteva, ma soprattutto la sera – dopo cena – con il rosario. Zoom, Facebook, Whatsapp erano gli strumenti mediante i quali noi ci continuavamo a sentire ancora comunità parrocchiale, gruppo di famiglie e persone in cammino. La messa del parroco trasmessa dalla chiesa è stata davvero una gioia, perché ci dava la possibilità di sentire la nostra sedia di casa come il nostro banco. La Pasqua che abbiamo vissuto quest’anno è stata veramente bella, forse la più bella in assoluto. Il Signore era davvero in mezzo a noi, a casa nostra, condivideva i ritmi della famiglia e, nella messa in Coena domini ci siamo lavati le mani a vicenda, l’uno con l’altro. In questo periodo abbiamo sentito il gusto della chiesa domestica, del condividere i pensieri tra di noi anche sulla Parola. Questo era tutto bello, tutto vero, ma a volte ci sentivamo come ospiti di un banchetto tanto desiderato, con dei cibi tanto buoni, tanto belli da vedere, ma noi non potevamo mangiarli perché non potevamo fare la comunione e non potevamo ricevere materialmente Gesù. Dobbiamo dire che questo ci è mancato tantissimo in questo periodo e immaginate la gioia quando, finalmente, siamo potuti rientrare in Chiesa e partecipare alla messa con i canti, anche con le mascherine. Fare la comunione, quel giorno, per noi è stata una gioia immensa, ma soprattutto mi tremavano le gambe – confida Simonetta -. Mi sembrava come se fosse la mia prima comunione. Tornare lì ci è sembrato quasi di sentirci di nuovo a casa, di riprendere il nostro posto perché era veramente lì che volevamo stare, con la mascherina, il disinfettante, il distanziamento. Ma quella è casa, il luogo in cui noi abbiamo trovato la nostra identità, abbiamo fatto i nostri percorsi di fede, il luogo in cui noi ci sentiamo famiglia e comunità».

Nunzio Cirulli, ex malato di Covid-19

Altrettanto emozionante la storia dell’ex malato di Covid-19 Nunzio Cirulli, 46enne appuntato dei Carabinieri, che ha riscoperto la fede attraverso il Coronavirus che l’ha infettato per 47 giorni, di cui 39 trascorsi in ospedale: «Prima di questa malattia – osserva senza riuscire a trattenere le lacrime -, nonostante sentivo dentro di me la mancanza di Dio, non ero attratto e predisposto nei suoi confronti. Adesso ho capito che avevo il cuore chiuso. Pensavo che la mia vita fosse bella così com’era, ma non era così. Nei primi tre giorni di ospedale ho avuto gravi problemi, sentivo dentro di me il procedere spedito della malattia e intorno a me vedevo molta disorganizzazione e paura anche nel personale che mi assisteva. A quel punto, sapendo che si trattava anche di una malattia nuova, mi sono sentito abbandonato al mio destino, senza speranza di vincere la battaglia. In quel momento ho provato un forte senso di vergogna, perché volevo chiedere aiuto a Dio, sentivo la necessità di farlo, ma ho provato veramente vergogna. Mi ripetevo “Adesso che hai bisogno cerchi una persona che prima non avevi mai cercato”. Avevo imbarazzo anche solo nel guardare il crocifisso che avevo sulla parete di fronte. In quelle ore ho pregato continuamente mio padre, che è morto qualche anno fa, affinché mi aiutasse a morire subito, forse facendo il peggior peccato che si potesse fare, avendo a casa una moglie e due bambini che mi aspettavano. Vi posso assicurare che la malattia è stata durissima, sia fisicamente che mentalmente. Nei 13 giorni in cui sono stato in coma, e ho vissuto i peggiori momenti dal punto di vista clinico, non ho sofferto perché dormivo. Davanti a me si alternavano immagini belle al buio più totale. In uno di questi bui ho sentito dentro di me la presenza di mio padre e ricordo la frase che mi ha detto, una frase di speranza, “Nunzio, dì alla mamma che deve fare una vecchiaia più serena”. Come se sapesse che non era ancora giunto il mio momento. Quando mi sono svegliato dal coma ero felice perché ero vivo e anche lì ho provato vergogna grande davanti a Dio, perché non ricordavo nessuna preghiera pur sentendo la necessità di pregare. Allora gli ho dedicato tutto, versi di canzone, pensieri, anche sospiri. Nonostante fossi tracheotomizzato, non muovevo nessuna parte del corpo, io mi sentivo tranquillo, sentivo dentro di me una forza nuova che non vi so spiegare e mi arrivava un’energia incredibile. Dopo nove giorni sono riuscito a guarire dal Coronavirus. Un giorno, all’improvviso, mi sono tornati in mente il Padre nostro e l’Ave Maria. Da quel momento non mi sono più fermato nel pregare. Una domenica ho veramente sofferto tanto perché mi mancava la mia famiglia. Un mio collega e amico mi ha inviato la preghiera a San Michele Arcangelo, invitandomi a pregare e pregare anche per lui. Da quel momento non ho più smesso di farlo. Dopo questa esperienza mi sono sentito in paradiso. Mi sono confrontato con più sacerdoti per paura di peccare, ma io sto vivendo il paradiso sulla terra insieme alla mia famiglia e ai miei tanti amici. Ora, se realizzo quello che mi è successo, trovo solo aspetti positivi. Ho sentito Dio che entrava finalmente dentro di me. Ho sentito questa potenza che mi arrivava continuamente e la sento tutt’ora dentro di me. Ho impiegato 46 anni a farlo entrare dentro di me, anche se in realtà Lui c’è sempre stato, ma sono stato io a non permettersi di manifestarsi».

Claudia Sarno, piccola imprenditrice

Un’altra vista stravolta dal Covid è stata quella della piccola imprenditrice Claudia Sarno: «Ho fatto tantissimo sacrifici – ricostruisce la Sarno – per aprire la mia pizzeria e mai avrei pensato che, per cause di forza maggiore, avrei dovuto chiudere per ben tre lunghi mesi la mia attività. Ovviamente mi sono sentita mancare la terra sotto i piedi, perché non ho più avuto la possibilità di lavorare e di guadagnare per affrontare le spese relative alla mia attività e alla mia casa. Ho due bambini e dovevo assicurare loro almeno la tranquillità e la serenità che in quel momento mancava. Fortunatamente i miei genitori mi hanno potuto dare una mano, ma ad un certo punto avevo bisogno di altro e non sapevo a chi rivolgermi, fintanto che un mio carissimo amico mi ha detto di provare a chiamare la Caritas di Pescara. All’inizio ho avuto un po’ di perplessità nel chiamare, perché ho avuto vergogna, ma poi mi sono fatta forza, ho chiamato e ho iniziato a dialogare con una delle operatrici del Centro d’ascolto, una ragazza davvero eccezionale. Le ho raccontato tutto di me e delle mie problematiche e, fortunatamente, dopo un po’ di tempo ho avuto due grandi aiuti. Mi hanno permesso di versare un anticipo per l’utenza della luce, che stavano per staccarmi nella mia attività, e mi hanno dato la possibilità di andare all’Emporio della solidarietà di Pescara per fare la spesa con dei punti (una tessera a punti). Se dicessi che la mia situazione attuale sia migliorata direi una bugia, ma comunque sto lottando giorno dopo giorno per affrontare mille ostacoli che, purtroppo, questo Covid-19 ci sta creando. Non so come andrà a finire, non so se ci sarà un altro lockdown e richiuderemo tutto. So solo che se non avessi avuto questi aiuti, forse, avrei già chiuso la mia attività. E credetemi, amici, che il vostro servizio lo svolgete con grande professionalità e con grande cuore. E, nonostante tutto, non siete alla ricerca di riconoscimenti o di ringraziamenti. Però io non posso che dire la verità. Senza il vostro aiuto, forse, oggi non sarei stato qui a testimoniare la mia esperienza. Ve ne sarò per sempre grata, grazie ancora».

Il cardinale Zuppi e l‘arcivescovo Valentinetti

Storie, queste, che hanno profondamente colpito anche il cardinale Zuppi, il quale ha approfondito il tema dell’evento: «Non buttiamo via le parole – afferma -, le testimonianze. Un momento così profondo che ci aiuta a capire quello che abbiamo vissuto e a non tirare a campare, a non cercare di riprendere le cose com’erano prima, a non cercare di tornare quelli che eravamo. Perché siamo diversi, lo abbiamo capito dalle testimonianze e credo che ognuno di noi, in maniera diversa, ha capito tanto in questa pandemia. Allora dobbiamo non perdere l’opportunità di fare di questo kairos, di questo tempo opportuno, davvero un tempo opportuno per renderci conto, per cambiare, per essere migliori. Di fronte a questo tempo opportuno, dobbiamo cambiare. Il male è una cosa seria, è folle pensare che non esista. La frase che veniva ripetuta “Andrà tutto bene” la usavamo per rassicurare i più piccoli, ma noi lo sapevamo che per alcuni non è andata mica tutto bene! Quanta sofferenza, quanta morte! Questa consapevolezza ci aiuta a capire di più il Vangelo, a capire di più questa scelta di Dio che fa sua la nostra sofferenza e ci aiuta a combattere il male, che ci rende uomini. Sarà un tempo di grande ricerca, ma sicuramente un tempo di verità in cui ricomprendere il senso della chiamata di ognuno di noi e delle nostre comunità, cosicché non vivano per se stesse, perché ce n’è bisogno in questo mondo per essere più attrattivi e comunicare la fede dove c’è la paura, la luce dove c’è il buio. Dalle testimonianze è emerso come le sedie di casa siano diventate come i banchi della chiesa, ma io vorrei anche il contrario con i banchi della chiesa che diventino come le sedie di casa e le nostre comunità siano familiari. Ma io credo che lo possiamo capire solo se qui ci sono le sedie di casa. I banchi danno sicurezza, non c’è dubbio. Stanno lì nelle parrocchie, si spostano solo per le prime comunioni o per le cresime. Vi ricordate l’Evangelii gaudium? “Si è sempre fatto così”. I banchi hanno quella fissità che ci permette di farci gli affari nostri. Per certi versi, invece, la sedia ci responsabilizza, ci aiuta a pensarci in relazione agli altri. I banchi, qualche volta, diventano un luogo di anonimato. Prendiamola così, nella sedia devo essere me stesso. Nei banchi la collocazione la trovo subito, nella sedia la devo trovare. E noi abbiamo bisogno proprio di questo, di trovarci con la nostra sedia, con la nostra individualità, in relazione agli altri. È uno sforzo che bisogna fare per accogliere gli altri, noi dobbiamo pensare che le nostre comunità coinvolgono le persone. Dobbiamo ricostruire un legame di comunità che coinvolga ciascuno, senza darlo per scontato. Con il pieno coinvolgimento, quando lo troviamo, ecco che capiamo la bellezza della Chiesa, la bellezza di essere una comunità-famiglia. La sedia e il banco come la nostra sedia di casa».

Quindi il porporato ha fatto riferimento alla preghiera solitaria di Papa Francesco, pronunciata in piazza San Pietro lo scorso 27 marzo in pieno lockdown, per liberarci dalla pandemia: «“Siamo sulla stessa barca”, ha detto il Papa – ricorda l’arcivescovo di Bologna -. Ma noi crediamo che siamo sulla stessa barca? Ci crediamo che siamo sulla stessa barca con tutti quelli che ne stanno fuori? No, ci crediamo troppo poco e pensiamo di avere la nostra barca personale. Se siamo tutti sulla stessa barca, dobbiamo remare tutti dalla stessa parte, dobbiamo aiutarci molto di più. E credo che nella pandemia abbiamo capito che siamo tutti responsabili gli uni degli altri, nel bene e nel male. Perché tutti possiamo fare del male e tutti dobbiamo essere aiutati nel male. E se siamo in questa grande barca, dobbiamo aiutare il mondo che vive questa tempesta. C’è tanta sofferenza, abbiamo scoperto un mondo di sofferenza nascosta. Tante paure, tanta solitudine, tanta sofferenza di fronte a domande a cui non sappiamo dare una risposta. Papa Francesco ha utilizzato l’espressione “Il mondo è un ospedale da campo”, ma noi ci abbiamo creduto poco. La solitudine, dover affrontare il male contando solo su di sé. I tanti anziani dovrebbero essere un capitolo a parte (sono stati il maggior numero di vittime). Come proteggerli? Come far sì che non ci sia più un isolamento? Chi non ha avuto parenti che non è potuto andare a trovare o che non ha potuto accompagnare nell’ultimo viaggio? Ma ci sono tanti anziani che nessuno saluta, perché vivono da soli e c’è un isolamento prodotto che vuol star bene per affari suoi. Il tema degli anziani è una delle sofferenze più grandi che c’è e se non sappiamo aiutare la fragilità degli anziani, vuol dire che scappiamo dalla nostra ed è pericolosissimo, perché pensiamo che la vita è quando sto bene. Mentre la vita è sempre, quando sto bene e quando sto male. Questa è la pandemia, ci aiuta a vedere le tante pandemie della malattia, della povertà, della guerra e dell’ingiustizia. Questo significa cambiare, renderci conto di che cos’è davvero il mondo. E questo è il segno dei tempi. Con le nostre sedie dobbiamo decidere, una decisione nostra e delle nostre comunità, di comporre un’assemblea bellissima anche perché al centro c’è sempre e solo Gesù. Ma qualche volta, siamo più preoccupati dell’ordine dei banchi che di riunirci intorno al Signore».

Successivamente, riprendendo un discorso di Papa Francesco in occasione della Pentecoste, il cardinale Matteo Zuppi ha messo in guardia da tre rischi: «Il vittimismo, il pessimismo e il narcisismo – elenca -. Sul vittimismo siamo degli specialisti. Anche nella malattia e nelle difficoltà siamo sempre dei privilegiati, ma il vittimismo scatta a prescindere. Poi c’è il pessimismo cristiano, c’è chi smorza l’entusiasmo, facciamo vergognare. Il narcisismo è quando quello che faccio io è la cosa più importante di tutti. Fare delle cose per farsi vedere. Il narcisismo non è servire, ma servirsi. Non fare le cose per gli altri, ma per me e se le faccio per gli altri sono convinto di farle per me. L’importante è che al centro delle nostre comunità ci sia Gesù e che entri anche un po’ di umanità “sfasciata”, in ricerca. Come credo sia successo in tante comunità, in modo diverso, le persone hanno riscoperto delle domande sulla paura, il senso della vita, la morte, la fragilità, la vulnerabilità ma devono trovare gente attrattiva in grado di ascoltarle. Perché queste trovino risposte vere, c’è bisogno di persone che aiutino in quanto vivono queste dinamiche. Quindi non perdiamo questa grande opportunità, questo grande segno dei tempi della storia che è la sofferenza e che ci ha aiutato, nella storia, a capire il Vangelo che è di uomini che si confrontano con la sofferenza, uomini veri. Nei banchi crediamo che la comunità ci sia già perché stanno lì, ma noi dobbiamo costruire delle comunità e pensarci comunità in relazione all’amore vicendevole».

I partecipanti al convegno diocesano 2020

In queste comunità, a detta del porporato, uno spazio particolare devono averlo i poveri: «Quelli che, diciamo – puntualizza -, la sofferenza ce la ricordano e dobbiamo avere sempre una sedia per loro in mezzo a noi, dobbiamo sempre lasciare una sedia per chi deve venire. La sapienza del Concilio Vaticano II è stata dire “La Chiesa è di tutti, particolarmente dei poveri”. Io credo che la Chiesa è per tutti se è particolarmente per i poveri. La preferenza per loro vuol dire che la Chiesa è davvero per tutti. Da questo punto di vista le Caritas sono eccezionali, avranno molto da fare in futuro, ma ognuno di noi è un centro di ascolto, ognuno di noi è la Caritas».

Un altro tema affrontato dal cardinale Zuppi è stato quello del digiuno dall’eucaristia: «I digiuni fanno bene qualche volta – osserva -, ci fanno scoprire quello che davamo per scontato. È stato faticoso il digiuno eucaristico, per alcuni molto, moltissimo. Credo che oggi capiamo un po’ di più. Credo che dobbiamo aiutarci a vivere le nostre eucaristie in maniera più vicina alla vita, più familiare. Rendiamole ancora più belle. Poi sappiamo che ci sarà l’abitudine a renderle più grigie, ma rendiamo le nostre liturgie piene di vita come lo sono state in questi mesi a livello familiare».

Quindi le conclusioni: «Nessuno si salva da solo – ricorda l’arcivescovo di Bologna -, aiutiamoci. Riaccendiamo la speranza, dobbiamo essere noi degli uomini di speranza (niente vittimismo, niente pessimismo e niente narcisismo), tanta speranza. E non dobbiamo avere paura, non dobbiamo vergognarci, il Signore ci ascolta anche se andiamo da Lui perché abbiamo bisogno. Il nostro Signore ci amerà sempre per quelli che siamo e ci renderà diversi. Questo è il segno dei tempi. I problemi ci sono e ci saranno. I cristiani non saranno mai invulnerabili e con risposte per tutto. Ma siamo nella pandemia come tutti, ci siamo ritrovati nella barca piena di onde come tutti e abbiamo capito che tutti sono come noi. Abbiamo ascoltato una cosa “Non avere paura, io sono con te, abbi fede in me”. Questo è il cristiano. Siamo davvero nella stessa barca e il cristiano sa in quella barca c’è Gesù. Se le sedie, qualche volta, ci possono sembrare da mettere in ordine, preoccupiamoci di avere tante sedie e preoccupiamoci che ognuno porti un po’ la sua o che ognuno trovi la sua. E poco alla volta il Signore ci aiuterà a comporre quella bellissima famiglia, che è la Chiesa che amiamo tanto e di cui oggi abbiamo ancora più consapevolezza di quanto ce ne sia bisogno, in un mondo di pandemie, di uomini e donne che combattano il male con l’unica forza di Dio e nostra, che è l’amore».

About Davide De Amicis (4358 Articles)
Nato a Pescara il 9 novembre 1985, laureato in Scienze della Comunicazione all'Università degli Studi di Teramo, è giornalista professionista. Dal 2010 è redattore del portale La Porzione.it e dal 2020 è direttore responsabile di Radio Speranza, la radio della Chiesa di Pescara-Penne. Dal 2007 al 2020 ha collaborato con la redazione pescarese del quotidiano Il Messaggero. In passato è stato direttore responsabile della testata giornalistica online Jlive radio, ha collaborato con Radio Speranza, scritto sulla pagina pescarese del quotidiano "Avvenire" e sul quotidiano locale Abruzzo Oggi.
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