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«Intimamente connessi»

La danza rituale dell’unione di Cristo e della Chiesa: tango sacro

Che cos’è che separa e distingue veramente l’incanto acceso negli occhî di chi guarda una coppia che balla un tango travolgente e lo scintillio dei tacchi dei due ballerini? Probabilmente solo la pazienza, che – come insegna la grande Teresa – «todo lo alcanza» [= «ottiene tutto»]. Quale pazienza? Quel tempo apparentemente inerte necessario per imparare l’invisibile strada che porta un rigido schema di passi, segnati nero su bianco con tanto di freccette, a diventare quella cosa sublime chiamata “ballo”. Lungo quella strada invisibile s’impara che quei noiosi schemi sono, sì, necessarî e indispensabili, ma non sufficienti: nessuno saprà dirti quanto inarcare la schiena, come abbracciare la gamba del compagno con la tua, se è il momento d’incrociare gli sguardi o quello di storcere seccamente il capo.

E che c’entra, questo, con la nostra conversazione teologica? C’entra, c’entra: è necessario che riprendiamo alcune delle cose che ci avevano impegnati la scorsa volta e le portiamo avanti, perché forse – tracciando le linee generali dell’idea di liturgia – abbiamo detto tutto e niente. Resterebbe davvero un abisso d’incomprensibilità tra quelle belle immagini usate una settimana fa e questa che perlopiù è la nostra condizione odierna in merito alla liturgia: resterebbe qualcosa di molto simile all’infinita distanza racchiusa in una pista di ballo tra una coppia che palesemente gioisce delle proprie complicate figure e un’altra che, vicino al muro, la guarda con un misto d’ammirazione, incomprensione e invidia. In fondo la contraddizione sta proprio su questi termini: da un lato si è mediamente convinti che la principale cosa che fa di un uomo un cristiano è il “precetto festivo”; dall’altro affermazioni come quella conciliare ricordata l’altra volta (per cui la liturgia viene indicata come «la prima e indispensabile fonte dalla quale i fedeli possono attingere il genuino spirito cristiano» – Sacrosanctum Concilium, 14) sembrano alla meglio “un tantino enfatiche”.

Quella che chiamavamo “poetica liturgica” è una qualità strutturale della preghiera comunitaria in generale, che però trova una particolare autenticazione in quella cristiana: come sappiamo bene, se il Verbo di Dio è diventato un uomo senza smettere di essere il Figlio di Dio e Dio stesso, alle cose umane viene spalancato un passaggio altrimenti impensabile per attingere a quelle divine. Così si spiega come e perché le grandi poesie di tutti i tempi sono state trovate comunicative da tutti gli uomini, ma il Figlio di Dio che i cristiani riconoscono essere Gesù ci spinge ancora oltre. Giovanni infatti annota che «ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, […] quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi» (1Gv. 1,1.3). La visibilità e la palpabilità di Dio in Gesù “autorizzano” l’uso di tutti i sensi nella liturgia, e infatti la liturgia si è mano a mano strutturata per costituire il canovaccio di un’esperienza spirituale omnisensoriale: c’è la vista, sì, nei colori delle vesti, nella distinzione dei luoghi e negli addobbi degli spazî; c’è ovviamente l’udito, nei canti, nei testi eucologici [= delle preghiere], soprattutto nella proclamazione delle letture dalla sacra pagina; c’è l’olfatto, nei profumi dei fiori, degli incensi e degli olî; c’è il gusto, che entra in gioco nel momento più alto di tutta la liturgia; c’è pure il tatto, distribuito su tutto il corpo, cui si fa continuo e irriflesso riferimento per l’intera gestualità, dallo stare in piedi o seduti all’estendere le braccia al muoversi per il segno della pace e per fare la comunione. Chi balla sa che nell’arte della danza non c’è essenzialità che possa prescindere nemmeno dal più periferico dei dettaglî: scegliere un profumo, un orecchino, una calza, un fermaglio per i capelli, non è “un di più” per una ballerina, e di ogni scelta, per quanto contingente, ella potrà dare una ragione. Così di ogni colore, di ogni combinazione, di ogni odore, di ogni suono e di ogni silenzio appostosi nel tempo alla sua liturgia, la Chiesa dà ragione: così, se l’essenza e il fine ultimo della liturgia è l’elevazione spirituale-esistenziale di tutti i singoli e della comunità tutta, non si presume che ciò avvenga fuori da quel linguaggio mistagogico fatto di segni, accenni, allusioni. Sì, perché (fra l’altro) la liturgia non è neppure “uno spettacolo per tutti”: malgrado la dimensione di estrema pubblicità, essa conserva un carattere iniziatico per il quale non tutti possono penetrarvi, ma è tanto fascinosa che molti giocano la loro esistenza in questo tentativo.

La liturgia è poi questione di ritmicità rituale: tutta la vita è piena di rituali, dal modo di aprire le bustine del caffè all’ordine bizzarro con cui si abbottonano le giacche e, se essi sono sempre potenzialmente dei germi di nevrosi, non è meno vero che sono i segni principali dell’abitabilità del tempo e dello spazio, e in qualche modo i segni del controllo con cui ci si garantisce dall’essere “fuori posto” (se si vuol essere un po’ spregiudicati, si può osservare l’analogia tutta animale tra il cane che marca il territorio e l’adulto che rientrando a casa passa in tutte le stanze a salutare tutti anche se ha altro da fare). Ecco, il privilegio unico della fede cristiana è che la sua liturgia non viene soltanto da venerande tradizioni di antichi e saggî: i cristiani si gloriano dell’aver visto Dio in persona alle prese con rituali – Gesù ha pregato come gli era stato insegnato, ma in un modo tale che tutti gli chiedevano di insegnare a sua volta. Che cosa? L’invisibile cammino tra i passi del tango com’erano segnati sugli schemi e le scintille delle scarpe lucide sulla pista: quello che solo «la paciencia» di cui parlava Teresa ottiene.

Ora, che c’entra esattamente la preghiera dei cristiani con la carne di Gesù? Ma la solita cosa: quando Paolo parla della comunità di quelli che credono in Gesù, più volte ha l’ardire di chiamarla “il corpo di Cristo”, e una di queste volte aggiunge che «questo mistero è grande, parlo di Cristo e della Chiesa» (Eph. 5,32). Qual è questo “grande mistero”? È che Paolo è giunto, pian pianino, a rendersi conto che se la Chiesa è il corpo di Cristo, la Chiesa e Cristo «sono una carne sola»! Un fariseo come Paolo non poteva non rendersi conto che questo era, di fatto, citare il versetto della Genesi in cui si dice che «per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla donna» (Gen. 2,24). Questo lo avevamo trovato già, tempo fa, ma che vuol dire ora che Cristo e la Chiesa diventano una carne solaqual è l’unione indissolubile che “fonde” le loro carni? Questo mistero è grande! Era troppo grande, perché potessero comprenderlo i pusillanimi cui Gesù provava a spiegare: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me» (Gv. 6,56-57). Del resto, se la comprensione profonda (ma pure lieve e immediata) di questo “mistero grande” non andasse in siffatta direzione, come sarebbe venuto in mente a Jovanotti di scrivere alla sua amata, in riferimento a certe patate cucinate in modo particolare: «Mangiandole mangiavo te come una comunione»? E Gabriele d’Annunzio, che per pensare senza depravazioni a una donna tirava in ballo la madre, perché le avrebbe scritto: «La lieve ostia che monda / io la riceverò da le tue dita»? C’è di mezzo l’immensa simbologia del nutrire, connessa al dare e al ricevere la vita, e a questa Gesù aggiunge “il valore infinito” (per dirla con Dante) di un’umanità eternata che diventa cibo.

Ma la liturgia non è solo “fare la comunione”, proprio come la vita coniugale non si confina nel “fare l’amore”: questo e l’altro fare, però, sono analogamentefonte e culmine” (Costituzione dogmatica Lumen gentium, 11 ; Catechismo della Chiesa Cattolica, 1324) delle rispettive comunioni di vita e di amore. Tutta la liturgia, dunque, ha una cosa in comune con il Figlio di Dio fatto uomo: analogamente a tutta la Rivelazione, essa «comprende gesti e parole intimamente connessi» (Costituzione Dogmatica Dei Verbum, 2), mediante i quali la Chiesa significa e accoglie la presenza di Cristo, diventando con lui un tutt’uno. Avevo parlato di un tango perché in questo ballo si esercita un sempre più teso equilibrio tra sensualità prepotente e controllo dominante, e di tanto in tanto pare scoccare nella dimensione aperta e “pubblica” del ballo una scintilla d’intimità inarrivabile: così è la celebrazione eucaristica – la danza sacra nel cui ritmo tutti i sensi concorrono ad attingere la pace e la gioia che lo Spirito infonde nel corpo di Cristo (Gal. 5,22-23).

E c’è un’ultima cosa che dice quanto quella del ballo (e del tango) possa essere una non cattiva analogia della liturgia (e dell’Eucaristia): in entrambi i casi la tendenza umana alla ritmica rituale si esprime secondo notevolissime diversità culturali, geografiche, storiche, eppure permane oltre lo spazio e oltre il tempo un che di unitario, ciò che delle cose dice lo spirito. Cosa un’antica gagliarda, una lambada, un valzer e un tango hanno in comune, se non che esse sono varie espressioni del tentativo dello “sposo” e della “sposa” – profondamente contemplativo – di meravigliarsi infinitamente della loro prossimità e della loro differenza (tendenti a fondersi insieme in una sola carne, ma senza confondersi)? Così, privilegiando ancora una volta l’Eucaristia su ogni altra liturgia, dobbiamo pure riconoscere e ricordare che la forma di questo rito (vale a dire il ritmo) è stata soggetta a innumerevoli mutazioni dipendenti dai luoghi, dai tempi e dalle culture: esistono tanti riti quanti generi di ballo; nella storia di ogni rito ci sono state e ci sono tante forme quante sono le scuole di ballo; in ogni forma, infine, possono esserci tanti stili quante e quali sono in un’unica scuola di ballo le coppie.

E basta mettersi a bordo pista per un minuto, con la pazienza di osservare il ritmo rituale, per capire che non è vero che una cosa vale l’altra: la Chiesa è “come” una tanguera, che sa che soltanto dalla cura di ogni dettaglio del suo muoversi (lasciandosi creativamente guidare dal Partner) potrà sprigionarsi quell’incantesimo santo che guida gli uomini nel cuore di Dio.

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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