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Maledizione della correttezza

Sintomi della malattia del vecchio mondo, dai cinema alla tv

Non che manchino le occasioni, eh! Ché a parlare di “political correctness” e “political incorrectness” si fa presto, e si fa prestissimo anche a fare l’apologia dell’una contro l’altra. Forse però è possibile un’analisi della nostra crisi culturale a partire dal corto circuito di queste due categorie.

Tutto comincia quando si sente un’intervista a Checco Zalone in cui l’intervistatrice di turno biascica in un italiano stentato e in un inglese ipotetico (che Zalone delicatamente ma prontamente corregge): «Il tuo film è molto politicàlly uncorrect… [sic!]». E uno si aspetterebbe di sentire il comico che la smentisce, magari schernendosi un tantino con quella punta di vezzo che ci starebbe pure bene. Niente. Trovato: ecco come e perché Checco Zalone è diventato improvvisamente “una voce critica, per non dire pure “un’istanza culturale”.

Strano, perché magari uno il film l’ha pure visto, e sarà perfino uscito dalla sala con le lacrime agli occhi per il ridere, ma già sui titoli di coda s’era reso conto che la pellicola (parliamo di “Ma che bella giornata”, 2011) ha proprietà analoghe a quelle di certe birre: frizzanti e profumate al palato, con un retrogusto amarissimo a seguire. Sì, perché amarissimo è il sostrato di quelle esilaranti situazioni: con un’Italietta tutta arrivismi, corruzioni, concussioni, vizî, ignoranza, presunzione, razzismo, Zalone si qualifica come il figlio legittimo di Fantozzi, che dava voce al lato oscuro del “miracolo italiano” degli anni Settanta. Ligure il padre, pugliese il figlio, non cambiano i motivi: chi ricopre incarichi di responsabilità pare esservi sempre arrivato mediante vie pubblicamente inconfessabili (anche se note a tutti); quelli, del resto, che tali incarichi non ricoprono sono più malati d’invidia che ferventi di critica riformista. Non pesano neanche più di tanto le reiterate battute anticlericali: i personaggi sono una fiera del luogo comune (cardinale paternalista, carrierista e distaccato, pretino “castrato”, asessuato e già piegato a necessità politiche inveterate), e di certo la Chiesa in Italia sa essere abbastanza smaliziata da sorridere di sé.

Fin qui l’ovvietà, e uno si chiede dove sia il politically incorrect: forse nel fare una caricatura di problemi reali (per carità!) e lasciarli lì con una sorta di compiacimento disfattista? No, non basta: ci sono anche i terroristi, “giovani e belli” come tutti gli eroi di Guccini (sarà un caso che anche quello de “La locomotiva” era in fondo un terrorista?). Oltre che giovani e belli sono puliti, civili, parlano un italiano correttissimo e hanno una pervasiva conoscenza della cultura mediterranea (i trulli, santa Teresa…), che gli “indigeni” – ossia noi mostrano non conoscere e non apprezzare. In più, gioia delle gioie, mostrano di essere delle persone di altissimi e nobilissimi ideali: i fornitori di esplosivo (resi più simpatici anche da una simpatica indigestione di cozze) sono in realtà dei pii ricercatori della volontà di Allah, nonché bendisposti verso le altre fedi e promotori della parità di genere nel mondo arabo; i due giovani passerotti bombaroli sono orfani di un non meglio precisato odio (verosimilmente etnico-religioso) – poverini: come si fa a non capire che hanno un desiderio irrefrenabile, per questo, di far saltare la Madunìn del duomo di Milano?

Il dubbio s’infittisce, ripensando all’intervista: cos’è, qui, che si potrebbe definire “politically incorrect”? C’è precisamente l’antitesi del cliché del musulmano – ovvero un altro cliché, non meno inutile del primo e forse anche più dannoso. Già, perché il primo tipo di cliché – quello xenofobo – ha il singolare vantaggio di saper sbozzare le coscienze sociali, quantunque lo faccia a suon di pregiudizî e di ottusità. Non si fa l’apologia del protezionismo culturale – figuriamoci! – ma bisogna denunciare che l’altro tipo di cliché non ottiene che la disintegrazione dell’autocomprensione di una civiltà: «L’amore non ha religione…», canta la colonna sonora, ma mentre Farah non viene ritratta al mare se non in un castigatissimo costume intero nero, e non la si vede affatto mangiare quel terribile panino al prosciutto (che aveva già delicatamente lasciato cadere a terra per procurarsi un alibi), lo sguardo sui vizî di casa nostra è spietato e capillare fino al grottesco – il prete che ammette al padrinato un non cristiano è già di per sé un’assurdità, ma quello che lo fa per avere indietro la moto del nipote supera la più kafkiana delle immaginazioni.

Ma perché parlare di Checco Zalone in una pagina culturale? Abbiamo finito le mostre? O i teatri? In qualche modo è quella vicenda dell’intervista che rende il tutto degno di qualche piccola puntualizzazione “culturale”: “due pesi e due misure” è la cifra di questa comicità, “correttamente scorretta” con “gli emarginati” e “scorrettamente corretta” con “i dominatori decadenti”. La più amara delle affermazioni del film è l’ultima frase di Farah, al fratello, in aereo: «[a distruggere la loro storia (ossia dell’Occidente)] ci pensa Checco». Il coperchio del vaso di Pandora finisce seppellito sotto una delle ultime risate, e quei pochi che si fermeranno a riflettere sulla portata di denuncia di questa frase triste si affretteranno, forse, a cercare un “responsabile” (nome politically correct dell’antico “capro espiatorio”), trovandolo forse in Berlusconi, o in Vladimir Luxuria oppure, meglio ancora, in una qualche multinazionale sperduta in altri continenti.

Poco meno di vent’anni fa, invece, quando solo poche menti acute intravvedevano la fosca caligine dei nostri giorni, Robert Hughes scriveva un ancora poco celebre ma brillante saggio (The Culture of Complaint, Oxford University Press 1993; La cultura del piagnisteo, Adelphi 2003) in cui si pronostica il corto circuito delle correttezze e delle scorrettezze politiche, essenzialmente identiche e opposte. Quella «lacrimosa avversione all’eccellenza» è il seme rabbioso da cui nascono l’abbassamento del rendimento scolastico medio a ridosso della semplificazione dei programmi scolastici (sennò si traumatizzano!), l’incapacità della critica letteraria e artistica di fare altro che prendere atto degli incalzanti delirî dei sedicenti poeti (non si può mica pronunciare un giudizio! E chi siamo mai, noi?), l’inettitudine nell’arte del compromesso politico (e che varrà la pena, nella politéia, cercare insieme la verità del bene comune?), il dilaniante senso di colpa che l’Europa nutre per la sua altrimenti grande storia (di che altro parlano film come Avatar?).

Non si tratta di opporre una retorica all’altra, né una terza alle prime due: si tratta di maledire la correttezza – prima che i bambini esigano di essere chiamati “diversamente adulti”! – e provare a cercare una qualche categoria più solida e affidabile.

Foto: © Glenn McCoy

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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1 Comment on Maledizione della correttezza

  1. è tardi e per adesso ti dico complimenti

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