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Memorandum

Appunti opportuni e appunti importuni per la “Giornata della Memoria”

«Per non dimenticare», «Per dire “mai più!”», «Perché noi non scordiamo»… Sono troppo pochi gli slogan per una data che ricorre ogni anno, e che ricorre ogni anno tra immancabili polemiche. Così «Per non dimenticare» è l’espressione che più correntemente sottolinea il sopraggiungere del 27 gennaio – anniversario della liberazione dei sopravvissuti alle persecuzioni naziste dal campo di sterminio di Auschwitz.

È così, e di certo il calendario offre un’occasione di pausa e di riflessione – tanto rara per l’“homo distractus” che tutti siamo. Cerchiamo di usarla, allora, prima fuggendo la peste del politically correct, e poi indicando qualche ragione di questa fuga.

Il motivo principale per cui si ritiene che la storia degli uomini meriti di essere studiata è che la si definisce comunemente “magistra vitæ”; chi però s’addentri appena appena in uno studio storico qualsiasi si rende conto che – se anche essa è tale – gli uomini non hanno mai appreso a fidarsi di lei. Chi s’è mai ricordato, infatti, che le latomie siracusane erano già state usate abitualmente, fin dalla spedizione ateniese in Sicilia e addirittura per secoli, come carcere pubblico e patibolo naturale? Di certo non partigiani e alleati, che ai repubblichini capitolanti hanno imposto trattamenti non dissimili da quelli. E che dire di quell’immensa latomia senza barricate che è stata la Siberia, campo non “di sterminio”, certamente, ma “di strenua coltivazione del ghiaccio” – in fondo i comunisti costringevano a zappare ghiaccio fino all’ultimo respiro perché, come sta scritto sul cancello di Auschwitz (!), «il lavoro rende liberi»!

Ma così il discorso diventa troppo facilmente attaccabile da quella gazzarra indistinta in cui il gossip si traveste coi nobili panni dell’arte politica: torniamo alla storia più lontana (quella che più avrebbe potuto e dovuto insegnare), e teniamo solo per fermo che il motto del campo di Auschwitz (e del ghiaccio zappato in Siberia) – «Arbeit macht frei» – è una feroce storpiatura della sentenza evangelica: «La verità vi farà liberi» (Gv. 8,32).

Torniamo allora ai “grandi” della Storia: al virtuoso Alessandro, che – oltre a essere un ammiratore di Diogene – fu pure un risoluto scioglitore di “questioni nodose”. Così non solo il celebre “nodo gordiano” poté essere sciolto con un disinvolto colpo di spada, ma quei civili che nelle città palestinesi s’opposero alla pretesa egemonica del macedone furono pure trascinati settanta chilometri a nord (uomini, donne e bambini), finché l’eroe non trovò una spelonca che facesse all’uopo: lì quelle persone vennero stipate e – chiuso l’ingresso con una catasta di legna cui venne dato fuoco – trucidate.

Giustamente guardava a lui Giulio Cesare che, leggendo le sue gesta, piangeva di essere così indietro rispetto a lui che (tanto più giovane) già dominava il mondo! In effetti il campione della Gens Iulia – dal cui cognomen derivano, tra gli altri, i nomi di “Kaiser” e di “Zar” – cercò di mostrarsi altrettanto valoroso nelle sue campagne galliche, tanto che dopo gli indiscriminati e gratuiti massacri della campagna di Belgio (raccontataci con cura glaciale nel Commentarium de bello gallico) perfino la sua pars, a Roma, restò sgomenta e fece traballare il crescente potere dello spregiudicato generale.

La Storia è maestra di vita? È innegabile: quale dei dittatori europei ed eurasiatici non ha sospirato nelle sue segrete notti sulle pagine di Cesare e sui racconti della vita di Alessandro? Come si vede, non basta che la Storia sieda in cattedra perché sia chiara qual è la “materia del corso”! Mille anni dopo Carlomagno, non guardava a Cesare pure Napoleone, che lasciava Pio VII, emulo meschino di Leone III, a guardarlo incoronarsi? Nel Còrso che divenne Imperatore dei Francesi riviveva la spregiudicatezza del Valentino che Machiavelli indicava come l’esemplare del Principe: da rivoluzionario repubblicano a Primo Console e Imperatore! Un po’ la parabola del nostro Mussolini, da socialista riformista a dittatore fascista, invaghito di un’idea tutta sua d’Italia “pura” (una contraddizione in termini): a tutta quella serie di carnefici guardava il Duce, e soprattutto al romanissimo Cesare… è vero: la storia è maestra di vita!

Ma basta evitare i punti caldi, e veniamo ai giorni di noi, che siamo buoni, pacifisti, tolleranti, e la cui Costituzione «ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (a proposito, ma chi l’ha scritta veramente la Costituzione?): 125.000 IVG [leggasi: centoventicinquemila aborti] sono stati praticati nel corso del 2006 sul territorio del Belpaese. Non vogliamo cogliere l’occasione della giornata della memoria anche per fare memoria di questo genocidio nascosto? I dati sono sensibilmente diversi da quelli usati da Antonio Socci nel suo libro (“Il genocidio censurato”, appunto), ma non tanto da far perdere attualità e presa alla sua valutazione:

«Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (dati del 1997) ogni anno sarebbero praticati 53 milioni di aborti, ovvero abbiamo annualmente un numero di vittime innocenti pari a quelle provocate dall’intera Seconda guerra mondiale (1939- 1945) che è considerata “l’evento più distruttivo della storia umana”. Da quanti anni si verifica questa ecatombe? Se si ricorda che da più di trent’anni l’aborto è stato introdotto nei paesi democratici, e molto prima è stato legalizzato dall’Unione Sovietica, dalla Germania nazista e poi dagli altri paesi dell’Est – cosa che dimostra come l’aborto sia uno dei frutti avvelenati delle ideologie totalitarie del Novecento – si supera facilmente il miliardo di vittime. […] Più di un miliardo di esseri umani indifesi soppressi è una tragedia umanitaria, storica, morale, sociale di cui stentiamo perfino a renderci conto, tanto siamo immersi nella rimozione collettiva. Sembrano davvero scritte per noi – come notò Luigi Lombardi Vallauri – le parole del “Temps retrouvé” di Marcel Proust: “Da tempo non si rendevano più conto di ciò che poteva avere di morale o di immorale la vita che conducevano, perché era quella del loro ambiente. La nostra epoca senza dubbio, per chi ne leggerà la storia tra duemila anni, sembrerà immergere certe coscienze tenere e pure in un ambiente vitale che apparirà allora come mostruosamente pernicioso e dove esse si trovavano a loro agio”. È ciò che fa del nostro un tempo assolutamente tragico» (cap. I).

La triste impressione che si ha dallo spettacolo del teatro umano è che in quest’aula cosmica le lezioni vengano impartite di continuo, sempre identiche, e gli studenti siano perennemente rimandati: «Io chiedo – prendendo in prestito le parole di Guccini – quando sarà / che l’uomo potrà imparare / a vivere senza ammazzare / e il vento si poserà?». Non era senza ragione che sottolineavamo sopra come il motto di tutti i campi di sterminio della storia (dalle latomie ai lager, ai gulag, fino alle cliniche!) abbia sostituito “il lavoro” a “la verità” nel precetto del Redentore: l’immagine di uomo sottesa a questo motto è un idolo tecnologico, cui sembra puerile il concetto di anima semplicemente perché non ha saputo inventare uno strumento per pesarla. Ma la miopia non si ferma qui: sono infatti gli stessi quelli che lamentano le scarse possibilità sul lavoro dei giovani e l’invecchiamento della popolazione e quelli che esaltano gli effetti della più vasta diffusione dell’“igiene riproduttiva”, nonché i progressi della tecnica nel prolungare la vita biologica. Negare la morte è il primo assioma della cultura della non-vita, e l’inghippo teoretico sotteso è invisibile a chi non si abitui, con paziente ascesi, a pensare – il mondo soffre, in fondo, per mancanza di pensiero (cf. Paolo VI, Populorum progressio 85), e se si è così miopi sulle “cose della terra”, come si potrà alzare lo sguardo a “quelle del cielo” (cf. Gv. 3,12)?

A queste condizioni non ci varrà a nulla spendere un’altra lacrimuccia davanti ai forni di Auschwitz: sì, perché questa “memoria” è un memoriale senza redenzione, un circolo vizioso della frustrazione collettiva occidentale. I rigurgiti d’antisemitismo che accendono focolai qua e là in Europa, infatti, non sembrano indipendenti dal martellante ritornello ebraico: «Voi non dovete dimenticarvi di ricordare!» Proprio perché amiamo Israele vorremmo suggerirgli, in queste giornate che puntano riflettori particolari su di lui, di astenersi dalla retorica del piagnisteo: la coscienza collettiva occidentale non può sopportare per sempre di sentirsi rinfacciare tutti i mali della storia . Se ci è permesso a nostra volta di ricordargli noi qualcosa, vorremmo pure suggerirgli di riconciliarsi autonomamente con la figura di Pio XII, finché sono in tempo (in tempi ancora non sospetti): Israele non dovrebbe dimenticare, in questa Giornata della Memoria, che nel 1958 i rabbinati di tutto il mondo mandarono in Vaticano messaggi di condoglianze per la morte di Papa Pacelli. Approfitti, Israele, della visibilità straordinaria di questo giorno, per rimuovere la sua foto dal Cortile dei persecutori interno allo Yad Vashém di Gerusalemme, prima che la Storia risponda con le sue clamorose smentite e con i ciechi colpi di coda di cui il Popolo eletto («che ben conosce il patire» Is. 53,3) non è ignaro. E la pace, insegna la Sapienza d’Israele, «sarà frutto della giustizia» (Is. 32,17).

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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