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Parabola di una parabola: Santi-eretici-martiri

Schizzo storico-letterario sulla prima grande crisi di coscienza della Chiesa

«Sono l’impero alla fine della decadenza», scriveva Paul Verlaine. Ma cosa fu la decadenza dell’impero romano per strada? Fu la paurosa svalutazione del sesterzio, per cui uno stipendio di cent’anni prima serviva allora soltanto a pagare il barbiere; fu la pressione dei “barbari” ai confini tutt’intorno… Improvvisamente si era diventati “troppo” grandi e non si serbava più la memoria viva di quello che aveva reso Roma tale quale era: agli inizî del II secolo (verso il 110-111) un governatore da una regione dell’attuale Turchia (Plinio) scrisse all’imperatore Traiano le sue incertezze su come trattare le questioni riguardanti certi “cristiani” che – pur non sembrando nocivi – tuttavia erano dannatamente testardi nel rifiutarsi di compiere i sacrificî pubblici. Come a dire: «Dannazione! Qui va tutto a rotoli, gli dèi ci stanno abbandonando o chissà cosa capita… e questi incoscienti neanche si sprecano a bruciare qualche grano d’incenso davanti alle loro statue?!». Traiano ringraziò la sollecitudine del governatore, e tuttavia gli raccomandò di non andare a cercarli, questi piantagrane di cristiani: se li avessero denunciati e se lui li avesse effettivamente trovati per cristiani, allora non avrebbe dovuto aver riguardo né per il sesso né per l’età. Diversamente, cuocessero nel loro brodo!

Così, dopo le sfuriate neroniane e domizianee, le “persecuzioni” erano sempre all’ordine del giorno, sì, ma appese a un capello: la denuncia (purché non fosse anonima). La tutela era relativa, perché i vincoli d’amicizia tra le persone erano non di rado sovvertiti da interessi “più urgenti”: per esempio a Lione, nel 177, erano finiti i prigionieri da dare in pasto alle belve per il pubblico sollazzo, quindi denunciarono cristiani in una certa quantità. Servì a poco che questi si fossero appellati al giudizio dell’Imperatore, perché c’era una festa da mandare avanti.

L’Africa, però (parliamo dell’Africa proconsolare, ossia degli attuali territorî di Marocco, Algeria e Tunisia) fu senz’altro il palcoscenico del più viscerale attaccamento dei cristiani a quanti di loro mostravano invincibile costanza davanti alle minacce e alle torture: quest’ampia introduzione ci è necessaria per inquadrare meno superficialmente un caso politico-ecclesiastico di durata almeno bicentenaria in cui il valore ecclesiologico della nostra ormai famosa parabola (vedi link) viene cristallizzato in una situazione di crisi.

Gli Atti del processo di Perpetua e di Felicita (e degli altri quattro), come pure lo straordinario diario scritto dalla stessa Perpetua, ventiduenne, in carcere, struggevano migliaia di cuori e li convertivano a quella fede che così sanguinosamente veniva repressa. Riporto un passaggio, tanto per dare un’idea:

«Alcuni giorni dopo, corse voce che stavamo per subire l’interrogatorio. Accorse dalla città mio padre, sfinito dal dolore. Salì presso di me per tentare di stornarmi dal mio proposito, dicendo: “Figlia mia, abbi pietà dei miei capelli bianchi; abbi pietà di tuo padre, se sono degno che tu mi chiami padre. […] Pensa a tua madre e a tua zia; pensa al tuo bambino, che non ti potrà sopravvivere […]”. Ecco ciò che diceva, ragionando da padre, nel suo affetto per me. Mi baciava le mani, si gettava ai miei piedi; piangeva, chiamandomi non più “figlia mia” ma “signora”. Ed io mi rattristavo per la sorte di mio padre, il solo di tutta la mia famiglia che non avrebbe avuto gioia dal mio martirio. […] Il procuratore Ilariano […]: “Risparmia – mi dice – la canizie di tuo padre; risparmia la tenera età di tuo figlio. Sacrifica per la salute degli imperatori”. Io rispondo: “No, non sacrifico”. Allora Ilariano: “Sei cristiana?”, dice. Rispondo: “Sì, sono cristiana”. E siccome mio padre stava per tirarmi giù, per ordine di Ilariano fu strappato via dal palco e preso a bastonate. Fui straziata per quanto gli era successo, come se fossi stata bastonata io stessa; soffrivo per la sua vecchiaia infelice. Allora il giudice pronunciò la sua sentenza, e ci condannò tutti alle belve. Lieti in cuore, rientrammo in prigione».

L’autorevolezza che questa donna, e quelli che difendevano così la propria fede, acquistarono agli occhî del popolo fu immensa: basti pensare che Agostino, africano anche lui, dovrà ricordare al clero e ai laici che non era il caso di leggere in chiesa il diario di Perpetua come se fosse Scrittura ispirata. L’insofferenza africana al dominio romano assommò quindi da un lato l’assaggio della crudeltà imperiale e dall’altro la portentosa edificazione dell’esemplarità dei martiri: la partita della fede divenne causa del popolo.

Dove entra in gioco la nostra parabola? Per dirla con il suo linguaggio, nelle “mietiture” delle persecuzioni si trovava che non tutti i cristiani avevano la fede e l’integrità personale di Perpetua, di Felicita e di Saturo, ma che qualcuno “si rivelava zizzania”, cedendo alle minacce o comprando dei “certificati di sacrificio” contraffatti che – per quanto sembrassero salvare capra e cavoli – comunque lasciavano un’ombra sulla coscienza e ledevano la fede di quanti magari erano più suscettibili a essere scandalizzati dai comportamenti altrui.

Tutti furono concordi, a cominciare dal vescovo Cipriano (che finirà martire anche lui), nel non riammettere nella comunità quelli che avevano tradito la fede – senza prima aver imposto loro una congrua penitenza pubblica (e sempre fatto salvo il caso di rischio di morte imminente). I meschini (che venivano chiamati “lapsi”), da parte loro, venivano a implorare i “confessores” (ossia quelli che, dopo il processo e la confessione pubblica, erano ancora vivi, in carcere o liberi) di “mettere una buona parola” con gli altri. Capite che si apriva un problema ustionante: chi è che ha il diritto di riammettere uno che è stato scomunicato? E chi è che ha il potere di scomunicare qualcuno? La faccenda – qui viene il bello – non era confinata all’Africa, perché Roma s’interessava minuziosamente di come venisse gestita la questione, e non è che in Italia se la passassero tanto meglio: che bisogna fare di questi “lapsi”?

Ogni risposta (e le risposte possibili sono solo due), a questo punto, era dettata dall’orientamento generale – vale a dire, tutto dipendeva dalla concezione di Chiesa che uno aveva in mente – e qua riprendiamo la parabola. Se hai in mente che nella Chiesa coesistono i santi e i peccatori (e questa prospettiva è sostenuta da molti passi della Scrittura), propendi per il volerli riammettere. Se hai in mente che la Chiesa è santa e che quindi quelli che ci stanno dentro devono essere santi (e anche questa prospettiva è suffragata da molti passi della Scrittura), propendi per il non volerli riammettere. La Chiesa di Roma, dove il vescovo era Cornelio, e quella di Cartagine – dove il vescovo era appunto Cipriano – si pronunciarono per il “sì”: «Riammettiamo i fratelli caduti». Immediatamente, però, si aprì un vasto scisma: Novaziano, Felicissimo e Novato, pensarono in buona fede di difendere la memoria e l’esempio dei martiri (che avevano onorato l’amore di Cristo), e costituirono una Chiesa a parte, che visse parallelamente a quella “comprensiva” per molti secoli. E con il supporto di molti!

Oggi sappiamo chi aveva ragione, ma non per questo sappiamo che qualcuno aveva torto: hanno forse agito in mala fede quelli che hanno difeso le severe esigenze della verità evangelica? Le medesime dinamiche si ripropongono, ogni volta che la Chiesa deve capire qualcosa di più su di sé – essa deve allora tornare alla sua prima forte crisi di coscienza…

Foto: Camillo Procaccini (1551-1629), “Ambrogio impedisce a  Teodosio di entrare in Chiesa”, Milano, Sant’Ambrogio. Partic.

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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