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Dall’austera lirica della Quaresima

…fino all’occulto inaccessibile all’Onnipotente. Introduzione alla Quaresima

Certo del tempo liturgico appena iniziato non si può dire, come dicemmo dell’Avvento (vedi link), che è “sfortunato”: a parità di bellezza e particolarità, infatti, la Quaresima gode di uno statuto ben più chiaro e definito (forse anche a ragione della sua maggiore lunghezza). Quello che invece perde, nei confronti dell’Avvento, è che mentre questo è fin troppo considerato solo come l’anticamera del tempo di Natale, il viola quaresimale è raramente compreso come il colore di una notte già rischiarata (sebbene molto di lontano) da un’aurora sfolgorante.

È lamentabile che l’infinita gamma cromatica che va dalla notte del cuore umano senza Dio all’abbacinante bagliore del sole pasquale (che è Cristo) sia perlopiù riprodotta – per così dire – su monitor a non più di sedici colori: così la varietà delle categorie che la Scrittura conserva per gli uomini e ci consegna (amore, passione, odio, ira, vendetta, perdono, collera, misericordia, grazia, peccato…) viene appiattita e isterilita su pochissimi concetti-base – amore, pace, bontà, misericordia, perdono… Tutto questo non manca di far perdere mordente ai testi che la fede ha trasmesso nei secoli, e quindi anche di far perdere credibilità alla stessa intenzione di chi li trasmette – che è rivelare presente e vivo in ogni oggi il Nazareno. Un tratto tipico della debolezza del pensiero di queste nostre ultime generazioni: dinanzi a espressioni formidabilmente oscure come “ira di Dio”, invece di stare con pazienza a contatto col testo, cercando di spremerne il misterioso senso, decretiamo con nonchalance che “ira di Dio” significa “amore di Dio”! Certo, l’imbarazzo è passato ma, come quando si sbollenta un piatto di brodo con un bicchiere d’acqua fredda, forse anche il sapore.

Ma di questo abbiamo già parlato, qua e là, né mancheranno le occasioni di riprendere l’argomento. Oggi ci facciamo compagnia con una splendida perla poetica tirata fuori dal tesoro degli inni di Quaresima (molto numerosi e molto belli tutti), già nota ai più se non altro nella versione “pop”: parlo dell’Attende, Domine (e alludevo a Signore ascolta). Non c’è da essere critici a priori nei confronti di una traduzione, anzi essa merita sempre di essere letta e valutata con attenzione grande e disposizione positiva. Signore ascolta, però, porta tutti gli inconvenienti di quando si vuol trasporre un canto gregoriano in una lingua romanza pretendendo di conservare la musica gregoriana: questa è la prima difficoltà, perché – con gli orecchî ormai assuefatti da cinque secoli di musica tonale e polifonia – cantare in un gregoriano minimamente accettabile è per noi tutt’altro che naturale. La seconda è che, proprio per voler restare legata alla musica, la traduzione ha lì una libertà di resa solo relativa. Per queste ragioni vi propongo qui (clicca link), insieme col testo che andiamo a vedere, una traduzione che ho cercato di approntare facendo attenzione alla ricchezza lessicale e (in parte) alla grande raffinatezza retorica di questo testo.

Per qualche arcano segreto della loro costituzione, gli inni di Quaresima hanno come il potere di indurre chi li canta e chi li ascolta a una certa tensione interiore, al desiderio dell’interiorità e dell’austerità: che sia nella versione gregoriana classica, o nelle polifonie di Palestrina, Bartolucci, Miserachs (solo per citare “i soliti noti”), la musica che sostiene queste poche, misuratissime parole, costruisce una siepe di raccoglimento dove arriva. È un inno responsoriale, come anche il Rorate cœli che abbiamo visto in Avvento, e come tutti gli inni cristiani il suo contenuto è – nonostante le espressioni talvolta dure – profondamente evangelico: «Attende, Domine, et miserere, / quia peccavimus tibi». Capita così di rado agli umani di sentire l’elenco delle proprie miserie al di fuori di quei ritornelli isterici e ossessivi delle pubblicità: “Devi essere magro”, “Devi essere bello”, “Devi essere à la page”, “Devi essere alla moda”, “Devi avere successo”… No: qui c’è una sola cosa chiara – peccavimus – ma la buona notizia è che c’è qualcuno che è disposto a sporgersi verso di noi (“attendere”, in latino, non sta per “aspettare”) e ad usarci misericordia. Senza ragioni, senza meriti, senza diritti e senza pretese – solo una supplica: umile, sommessa, ma fiduciosa e ferma nella speranza. C’è di che sperare.

La prima strofa si rivolge a Cristo chiamandolo per nome (anche se solo nel terzo verso), e così farà anche l’ultima: tutte le altre si rivolgeranno al sommo Re soltanto per immagini ed evocazioni. È da notare al secondo verso il delicatissimo iperbato del verbo, che, trovandosi a metà tra “oculos nostros” e “flentes” fa sì che “piangenti” possa intendersi sia degli occhî sia di chi parla – “quelli che supplicano”.

La seconda strofa è costituita da una semplice rogazione d’intervento salvifico, preceduta però da due versi in cui stanno incastonati in un rapido crescendo quattro splendidi titoli cristologici, mutuati dalla Scrittura e dalla Tradizione: Cristo, destra del Padre, pietra angolare, via della salvezza, porta del cielo… L’espressione di supplica, invece, che si rifà a Is 1,18, sottolinea che il danno del peccato è irreparabile da parte di chi lo commette: quello che Dio propone e promette nel Redentore – far tornare la porpora bianca come lana – è nient’altro che infattibile per un uomo, per quanta buona volontà vi possa mettere.

La terza strofa usa proprio il verbo “rogare”, che ho provato a rendere con “preghiamo” soltanto perché in latino “tuam maiestatem” potrebbe indicare sia una perifrasi tipica del linguaggio di corte per indicare deferenza, sia il vero e proprio oggetto della preghiera: l’uomo che prega chiede la maestà di Dio – ciò che può cancellare le colpe degli uomini è soltanto la percezione della presenza sempre maggiore di Dio (“maestà” viene proprio da magis = di più). A metà della strofa si trova un riferimento a delle “orecchie sante” (ho voluto rendere “auribus sacris” in italiano come per metonimia); riferimento che sarebbe del tutto incomprensibile – che ci fa un antropomorfismo così rozzo in una tanto sublimemente distillata visione di Dio? – se dimenticassimo che il Deus di cui si parla nel primo verso è lo stesso di cui si parla in tutto l’inno: Cristo, vero Dio e vero uomo. Dei due termini usati nell’inno per dire i peccati degli uomini (“delictus” e “crimen”) qui ricorre il secondo, per la prima di due volte: la forza di questi vocaboli richiama alla mente, in barba a ogni lassismo, la reale portata del peccato, che è il rifiuto dell’offerta amorosa di Dio in Cristo, crimine che condanna il Giusto, delitto che non beneficia del dono di Grazia.

Sarà la quinta strofa a riprendere il tema della passione del Cristo: prima di essere di nuovo chiamato per nome, qui il Redentore viene detto “l’innocente catturato” e “portato via senza resistenza”; la denuncia, però, delle circostanze d’iniquità in cui si svolge la vicenda del messia torturato non impedisce di enunciare chiaramente il cuore del mistero che in quella torbida faccenda politica si svolge – “pro impiis damnatus” (“condannato per gli empî”). Curioso paradosso, cui forse l’assuefazione ai segni della cristianità ci ha resi quasi indifferenti: gli empî che condannano il messia certamente non conoscono la sua identità profonda, ma se anche la conoscessero non potrebbero arrivare a pensare che il sangue innocente che essi stanno versando viene versato per loro.

E torniamo infine alla penultima strofa, che presenta al suo centro un verso dal contenuto apparentemente incongruo: “con cuore contrito ti schiudiamo l’occulto”. Verrebbe da pensare, subito dopo aver letto il primo verso, che l’occulto (o “gli occulti”, in una traduzione più letterale) siano i “crimini commessi” che vengono confessati. Ma è a dir poco ridicolo pensare che un Dio dagli occhî tanto penetranti quanto quelli qui cantati non sappia vedere checchessia prima che glie lo si voglia manifestare: l’autore di questa perla di poesia e di fede ricordava certamente quell’ombroso passo della Lettera agli Ebrei – «Non c’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto ai suoi occhî» (4,13) – ma allora cosa voleva dire con “ti schiudiamo l’occulto”? C’è, in effetti, un luogo dal quale l’Onnipotente vuole ritirarsi inerme e sconfitto, se non vi viene accolto liberamente: l’animo del peccatore – questo è l’occulto che la penitenza dischiude al soffio della Grazia.

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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