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Poesia sacra “crepuscolare”

La penitenza negli inni vespertini quaresimali

Mi verrebbe da esordire con una domanda come: «Se tu fossi un momento della giornata, quale saresti?», ma ciascuno di noi sa che – benché voglia credersi o dirsi o pensarsi un appassionato della notte piuttosto che del mattino o del canicolare primo pomeriggio – ogni tempo ha qualcosa da dire di noi, e parimenti la nostra personalità ha qualcosa da “dare” a ogni momento della giornata, come a dipingere di noi stessi i tempi che viviamo (che altro è una vita degna di questo nome?).

Il riferimento, però, sarebbe del tutto estrinseco, semplicemente per il fatto che avevo pensato di proseguire con voi la pista, iniziata due settimane fa, degli inni sacri di Quaresima: l’Attende, Domine non sarebbe stato affiancato ad alcun altro inno senza grave discapito della sua indiscutibile unicità, ma stavolta possiamo intrattenerci su un paio di inni (clicca link), se non altro in ragione della loro unità tematica, ma non solo… L’argomento più compiutamente evocato e trattato in queste composizioni è la penitenza, ma questo non fa stupore: sono inni quaresimali… Ciò che pure unisce i nostri testi di oggi è che entrambi sono inni vespertini, ossia pensati e composti per salutare il tempo in cui il mondo è privato della sua massima fonte di luce naturale. Ora vi chiederete che cosa c’entrasse la domanda con cui stavo pensando di aprire la pagina: non molto, in effetti, ma neppure poco, visto che normalmente gli inni della Liturgia delle ore contemplano con assiduità l’avvicendarsi dei tempi e dei momenti del giorno, mentre qui in entrambi i testi si omette ogni riferimento all’evento vespertino.

Che strano! Eppure l’alba e il tramonto sono i gli eventi più vistosi del tempo quotidiano – e lo erano ancora di più prima che venisse inventata la luce elettrica (accidenti che rivoluzione!). Se si pensa che ogni mattina, per tutto l’anno, tutta la Chiesa canta all’alba un inno in cui Cristo viene salutato come “sole che sorge dall’alto”, com’è possibile che proprio due inni vespertini di Quaresima non indugino per nulla sulla scomparsa di Cristo? In conclusione, se il tema penitenziale non può dirsi di per sé una prerogativa della sera, almeno in tempo quaresimale, certamente il momento vespertino è un tempo privilegiato per la riflessione tipicamente quaresimale, e quindi anche penitenziale.

Perché – secondo le parole di Cristo – è destinato a venire il tempo in cui lo Sposo sarà sottratto agli invitati alle nozze (Matth. 9,14-15), e quello sarà il momento del loro digiuno, per un inno vespertino – già raccolto nell’ombra muta delle cose e nella serena fatica della giornata lavorativa conclusa – parlare del sole che tramonta o della penitenza dei discepoli di Gesù è praticamente equivalente.

La vicenda notturna di Gesù, Sole rapito al suo cielo e Sposo misteriosamente sequestrato alla propria festa di nozze, è peraltro delicatamente ma continuamente evocata dai nostri testi, che evidenziano con risolutezza l’autorità sovrana di Gesù anche sul tempo della sua “assenza”. (Per i testi ho cercato di approntare una traduzione tendenzialmente molto legata alla lettera dell’originale, scostandomene solo di tanto in tanto per rendere più liberamente qualche contenuto altrimenti intraducibile).

In entrambi gli inni, come avviene quasi sempre, chi canta è il gruppo dei discepoli di Cristo, di quelli che hanno conosciuto il Dio del Nazareno – entrambi i testi si rivolgono direttamente a Gesù fino all’ultima strofa, la quale contiene la dossologia (ossia la formula più “ragionata” e dottrinalmente “costruita” della confessione della gloria di Dio), di respiro sempre trinitario. Nell’ultima strofa del primo inno i discepoli si autodefiniscono soltanto come “tui” [“i tuoi”], mentre nella seconda strofa del secondo inno compare la ricchissima parola “Ecclesia” [“Chiesa”], che rievoca l’evento che costituisce e fonda il gruppo dei discepoli – la chiamata di Dio.

Gesù vi compare come l’istruttore dell’astinenza quaresimale, che ordina la penitenza fisica al fine della purificazione dell’anima (è classico l’uso metonimico di mens per anima). La cosa si fa intrigante, specie per le orecchie edonistiche e postmoderne di una società come quella che – volenti o nolenti – ci ha generati e che tanto c’influenza: perché mai la penitenza fisica dovrebbe apportare dei beneficî sul piano interiore? E soprattutto, perché mai un Dio che ci ama dovrebbe ordinarci di mortificare la corporeità che proprio da lui abbiamo? Niente di nuovo sotto al sole, ed è proprio vero che la maggior parte delle cosiddette “nuove idee” altro non è che riformulazioni di vecchî errori: da un lato, infatti, la cultura dominante delega senza riserve al mondo materiale il conseguimento e l’usufrutto del benessere e del piacere; dall’altro però si mostra scettica (per essere buoni) sull’opportunità che ci si dedichi a pratiche non piacevoli per ottenere risultati desiderabili e, di fatto desiderati. La solita questione dei desiderî della carne e dei desiderî dello spirito di cui parla Paolo? Forse sì, ma può valere la pena indicare che anche le diete non sono certo piacevoli, ma vengono fatte da molti e per molti scopi (tutti ritenuti legittimamente desiderabili). Per di più, non poche delle persone che ostentano come un segno di emancipazione l’irridere apertamente pratiche di preghiera o di penitenza si vantano poi di frequentare corsi di Yoga, o di essere alla ricerca del proprio Karma… Chissà, forse basterebbe raccontare alla nostra piccola società che i precetti quaresimali hanno a che fare col wellness, o che sono molto in voga in Oriente…

E del resto queste pratiche sono lontane anni luce da qualsiasi tipo di “training autogeno”, e i nostri due inni si applicano a indicarlo con finezza: il secondo testo osserva che nella penitenza si dà semplicemente voce alla contrizione del cuore credente – benché peccatore – il quale confessa che la distruzione dei peccati e la stessa conversione al Dio da cui ci si era allontanati non possono venire che per puro dono dello stesso Dio. La quarta strofa del primo inno enfatizza il concetto fino al punto di proclamare che gli stessi atti penitenziali, mediante i quali il corpo letteralmente macera sono frutto di un dono di Dio, e che questi stessi “doni di sobrietà” possono a loro volta – per la grazia di Dio – portare un frutto duraturo nella vita di tutti i giorni.

E qual è questo frutto duraturo? Rispondono le ultime tre strofe del primo inno: la stessa grazia che cancella i peccati passati è quella che mano a mano rende immuni dalle tentazioni dei peccati futuri, e l’essere tali da poter celebrare degnamente le gioie della Pasqua è il poter parlare misticamente a nome di tutte le cose – perché tutto partecipi per sempre alla sinfonia di lode del Dio unitrino, che pur essendo unico non volle mai essere solo.

Ecco perché la penitenza; ecco cos’è la penitenza evangelica: la paziente via dell’assunzione della verità, senza la quale appare svuotata la portata della redenzione e – ancora più radicalmente – senza la quale il Crocifisso-Risorto non vuole salvare.

Foto: Master Candlelight, Vanitas, metà XVII sec., part.

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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