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Un tattoo escatologico: Cristo risorto

Spunti per una cristologia pasquale, tra l’Apocalisse e il Messiah

A proposito o (più spesso) a sproposito, la melodia dell’Hallelujah del Messiah di Händel viene propinata al cosiddetto “grande pubblico” in pubblicità, quiz, film e telefilm, e un po’ dovunque si avverta l’esigenza di suscitare l’idea chiara del successo, del trionfo. Tanto è chiara questa ricorrenza, però, quanto si fa oscura e lacunosa la percezione più esatta del senso dell’espressione: non dimenticherò mai, credo, quella volta che una ragazza, in Belgio, mi chiese che cosa volesse dire la parola “Alleluia”. Alla mia risposta – «significa: “Lodate il Signore!”» – lei reagì con stupore, spiegandomi subito dopo che credeva significasse qualcosa come “chouette (parlavamo francese; mi scusino i lettori ben abituati, ma in italiano dovremmo tradurre con “fico!” o con qualcosa di comunque sufficientemente slang).

Nulla di strano, infatti, che le parole vedano trasformarsi il loro senso originario in forza dell’uso, ma quello che qui colpisce è che – una volta di più, ma non ci pensa – ciò è avvenuto in questo caso in forza dell’uso liturgico. Mi spiego: per un occidentale normodotato “Alleluia” può significare “chouette” (o equivalenti vernacoli) solo in forza del fatto che questa parola è stata massicciamente impiegata per acclamare all’annuncio della risurrezione di Cristo, individuata come “meraviglia delle meraviglie di Dio”. Al di sopra di tutti i versetti del “Grande Hallel” (Salmi 135-136), dunque, la risurrezione di Cristo è stata immediatamente avvertita da un lato come novità assoluta e fuori da ogni ordine categoriale, dall’altro come evento che rispondeva profondamente a quanto già una tradizione religiosa consolidata indagava, al lume della fede nel Dio rivelato, nei desiderî del cuore umano.

Fiumi d’inchiostro sono stati munti dalle penne di teologi, poeti, polemisti e perdigiorno, sull’essenza e sul senso della risurrezione di Cristo; talune posizioni degli ultimi decennî sono senz’altro eccessive, in quanto sembrano giungere a mettere in ombra la portata “storica” dell’evento della risurrezione – e si pensi che degli zelantissimi difensori digitali dell’ortodossia sono riusciti a rintracciare presunte tracce di pensiero eretico, in merito, perfino nei precisissimi appunti del Cardinal Ravasi! – ma anche quelle posizioni offrono spazio di vivibilità a questioni che certi oleografici dipinti di Cristo risorgente non possono che occultare: la risurrezione di Cristo, evento certamente “storico” (c’era un cadavere, lì, che non c’è più, senza che nessuno l’abbia trafugato), è però un evento che trascende le falcate di tutti i secoli per andare a stagliarsi sui “titoli di coda del tempo”. Questo, col suo Messiah e col tripudiante Hallelujah (clicca link), Händel ce lo ricorda.

«I tre monumenti musicali più imponenti che siano stati mai intonati sul miracolo della redenzione dell’umanità – scrisse Karl Schumann – sono la Passione secondo Giovanni (1723) e la Passione secondo Matteo (1729) di Bach e il Messiah (1741) di Händel»: come le semplici notazioni cronologiche sottolineano, tutti e tre sono sorti nell’arco di meno di vent’anni, nel Tardo Barocco, e sorgono pure da contesti geopolitici simili tra loro. Purtuttavia, le differenze non mancano, anzi sono molto marcate: senza volerci intrattenere sui dettaglî, osserviamo che Händel (a differenza di Bach drammaturgo di mestiere) non rappresenta mai direttamente la persona di Cristo. Il suo oratorio è una deliziosa collezione di passi scritturistici musicati, un’antologia di scritture messianiche. Non solo “profezie”, se vogliamo dare alla parola “profezia” il senso restrittivo di una locuzione che viene proferita prima del compimento di un evento: il nostro gioiellino, l’Hallelujah del Messiah, chiude la seconda parte dell’Oratorio, in cui gli accenti dell’esaltazione di Gesù nella sua Pasqua vengono proiettati lungo tutta la fascia del tempo fino alla comsummatio sæculi (è scorretto intenderlo solo come “fine del mondo”: è piuttosto “la/il fine” e insieme “il completamento”). Tutto questo è tanto vero che il testo incastonato tra gli adamantini “Hallelujah!” e gli squilli degli ottoni è stato estrapolato dall’ultimo libro della Bibbia – quello che, raccogliendo le visioni ispirate sulla consummatio sæculi, contiene “tanti misteri quante parole” (Girolamo) – l’Apocalisse.

Come se non bastasse, poi, i versetti raccolti nelle acclamazioni trionfali dell’Hallelujah sono estratti da punti piuttosto distanti all’interno del libro – l’unione di questi punti compone un Gesù piuttosto inusuale, a rappresentarselo, ma pienamente coerente con chi e cosa Gesù fu ed è. Ma vediamo il testo (il Libretto dell’Oratorio, di Charles Jennens, è interamente redatto a partire dalla versione inglese della Bibbia detta “King James”):

 

«Hallelujah! For the Lord God Omnipotent reigneth! Hallelujah!

The Kingdom of this world is become the Kingdom of our Lord and of his Christ;

and he shall reign for ever and ever! Hallelujah!

King of Kings, and Lord of Lords!

And he shall reign for ever and ever, Hallelujah»

 

[Alleluia! Perché il Signore Dio Onnipotente governa! Alleluia!

Il regno di questo mondo è diventato il regno del nostro Signore e del suo Cristo;

ed egli regnerà nei secoli dei secoli! Alleluia!

Re dei re e Signore dei signori!

Ed egli regnerà nei secoli dei secoli! Alleluia!]

 

Ci si trova anzitutto catapultati al capitolo 19 dell’Apocalisse di Giovanni, al termine di un mozzafiato processo di dissoluzione e di verifica degli elementi mondani, quando anche il rovesciamento della prostituta babilonese s’è consumato e la straziante preghiera dei giusti “inascoltati” sotto l’altare del cielo (6,9-11) vede che «il Signore Dio onnipotente governa» (19,6). A questo punto urge una puntualizzazione, che la King James conduce con una certa libertà rispetto al testo greco: mentre infatti in quest’ultimo non si ripete per due volte la parola “basileìa” (=regno), ma l’unica variante riscontrata è che in qualche codice “i regni” mondani risultano plurali, il testo inglese sceglie di ribadire, per chiarezza, la parola “Kingdom” (11,15). Perché dico “per chiarezza”? Perché con la ripetizione è chiaro, nonostante il verbo, che “il Regno del Signore e del suo Cristo” non sostituisce semplicemente un regno analogo, quasi fosse stato un altro, “prima (?) di Cristo”, il legittimo detentore del potere costituito: il nuovo regno non sorge in antitesi ai regni terreni, ma anzi precisamente “in soccorso della terra” e per «annientare quelli che distruggono la terra» (11,18). In questa straordinaria visione, la terra e il cielo sono alleati contro potenze oscure e malefiche, in parte identificabili col doloroso mistero della malvagità di creature volute e poste in essere buone. Il tratto distintivo del Regno di Cristo è che, a differenza di ogni altro regno, niente può più spodestarlo.

È chiaro che una persona che prenda sul serio il testo e non lo dia per scontato (dunque non noi, ignoranti e assuefatti alla fraseologia cristiana) deve qui farsi e fare delle domande sull’identità di questo misterioso messia: si arriva così alla pirotecnica cristologia dell’Apocalisse, decisamente inammissibile se il punto di partenza sono le oleografiche rappresentazioni di certi “Cristi risorti”, i quali sembrano più ristorati da una buona doccia che “trasumanati” su un orizzonte universale ed escatologico. Ma perché farsi spaventare dalle mie espressioni, quando quelle dell’Apocalisse sanno essere ben più impressionanti? Il testo del libretto di Jennens torna al capitolo 19, offrendo ai cantori dell’Oratorio di scandire incessantemente, in un’estasiante modulazione tonale intervallata dal consueto tripudio di ottoni, le parole: «King of Kings and Lord of Lords». Ora, nessuno che abbia anche solo sfogliato distrattamente l’Apocalisse può non ricordare il tremendo ritratto di Cristo in cui quest’espressione compare: «Poi vidi il cielo aperto, ed ecco un cavallo bianco; colui che lo cavalcava si chiamava “Fedele” e “Verace”: egli giudica e combatte con giustizia. I suoi occhî sono una fiamma di fuoco, ha sul suo capo molti diademi; porta scritto un nome che nessuno conosce all’infuori di lui. È avvolto in un mantello intriso di sangue e il suo nome è “Verbo di Dio”. Gli eserciti del cielo lo seguono su cavalli bianchi, vestiti di lino bianco e puro. Dalla bocca gli esce una spada affilata per colpire con essa le genti. Egli le governerà con scettro di ferro e pigerà nel tino il vino dell’ira furiosa del Dio onnipotente. Un nome porta scritto sul mantello e sul femore: “Re dei re e Signore dei signori”» (19,11-16).

I dettaglî sul “banchetto di Dio” saranno poi perfino più truculenti, ma a noi ora non interessa: quello che vogliamo osservare è che giustamente Händel ha chiesto le parole per il suo Hallelujah all’Apocalisse, che è senza dubbio il libro più pasquale della Bibbia, e che la descrizione di Cristo del capitolo 19 riprende e completa quella iniziale (1,13-20). Se da questa avevamo saputo che Cristo aveva guadagnato, con la sua morte, il potere sulla morte e sull’inferno (1,18) – e dunque che per questa ragione niente e nessuno può spodestarlo dal suo trono – dall’ultima apprendiamo invece che c’è un nome del Messia che appartiene solo a lui, intimo segreto della vita trinitaria. I nomi più alti che riusciamo a pronunciare – come “Verbo di Dio” – non toccano mai del tutto il fondo di questo abisso, mentre quelli che Cristo si è guadagnato imporporando di sé il proprio mantello sotto il mortaio dell’ira di Dio – «Lord of lords and King of kings» – gli aderiscono in eterno, come un tatuaggio sulla coscia. “Chouette”, no?

Foto: Cristo, Cripta della Cattedrale di Anagni, particolare.

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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