Ultime notizie

«Regnavit a ligno Deus»

Esplicite e complesse suggestioni teologiche in un gran film: The Tree of Life

C’è sempre da rimboccarsi le maniche e da procedere con molta cautela, quando si valuta l’opera di un grande artista che a carriera abbondantemente inoltrata risulta aver prodotto “solo” cinque film, i quali, a dispetto del numero contenuto, sono tutti dei capolavori.

Parliamo dell’ultimo, che ha raccolto gli allori di Cannes nella Palma d’Oro 2011, The Tree of Life. Doveva essere presentato sulla Croisette già due anni fa, ma il maniacale modus operandi di Terrence Malick, lo scrittore e regista, ne ha ritardato l’uscita fino a ora. I copioni aggiornati notte dopo notte, le sceneggiature provate e riprovate, una fotografia evidentemente non risultata dalla prima impressione, la scelta di testi, musiche, costumi: tutto concorre a un poderoso intreccio di suggestioni, tematiche, evoluzioni di pensiero. Sì, perché può capitare di leggere, a proposito di The Tree of Life, che si tratta di un’opera dall’indefinito accento new age panteistico. A questa conclusione possono arrivare fondamentalmente due categorie di critici: quelli che giudicano ogni lavoro di un artista sul metro dell’idea che di quell’artista s’erano fatti per opere precedenti (categoria che conserva una qualche dignità, in quanto una corretta ermeneutica di un testo non può prescindere dal proprio Sitz-im-Leben), e quelli che si sono svegliati negli ultimi cinque minuti di proiezione e non hanno potuto cogliere altro che il culmine della climax di richiami simbolici che tutto il film è (e, si sa, dove ci sono belle sensazioni e idee poco chiare si può dire che c’entri in qualche modo il new age).

Perché questo film non è fatto per spiegare un bel niente: al contrario, esso dipana domande insolubili come contraltare di una “non-risposta”, su cui la scena si apre. «Dov’eri tu – sono le prime parole del capitolo 38 del libro di Giobbe – quand’io ponevo le fondamenta della terra? / Dillo, se hai tanta intelligenza!». Nel frattempo le immagini scorrono mute a mostrare scene di spazî siderali, grandezze cosmiche, forze fisiche incontenibili e imponderabili. «Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, / o chi ha teso su di essa la misura? // Dove sono fissate le sue basi / o chi ha posto la sua pietra angolare, / mentre gioivano in coro le stelle del mattino / e plaudivano tutti i figli di Dio? // Chi ha chiuso tra due porte il mare, / quando erompeva uscendo dal seno materno, / quando lo circondavo di nubi per veste / e per fasce di caligine folta? // Poi gli ho fissato un limite / e gli ho messo chiavistello e porte / e ho detto: “Fin qui giungerai e non oltre  / e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”».

Poi, d’improvviso, una donna confusa, che pare non aver più lacrime da versare: farfuglia qualcosa. Dice qualcosa al marito: il figlio è morto. Uno dei figlî è morto, e non si capisce neanche come e quando. «Gli ho dato la mia vergogna – è il rimorso del padre (un ispirato Brad Pitt) – povero ragazzo… povero ragazzo». Era l’America degli anni ’50, e subito dopo ci si ritrova in una metropoli statunitense dei nostri giorni: un salto temporale minimo, quasi ordinario, nella recente produzione cinematografica, per riabbracciare un personaggio (un vibrante Sean Penn) che presto si rivelerà essere il figlio primogenito della coppia degli anni ’50: evidentemente un uomo di grande successo professionale, vive solo con la bellissima moglie in una magnifica architettura domestica. È profondamente triste, ma non della depressione patetica che alberga di consueto sul grande schermo: scene silenziose, design a colori neutri e dalle linee spezzate, impegni di lavoro svolti con espressione invariabilmente contratta tra l’indifferente e il sofferente. Da qualche spezzone di dialogo rubato a telefonate si capisce che pensa al fratello.

Tornano gli spazî siderali: un tòpos del pensiero di Malick, mentre una voce femminile fuori campo (altro elemento immancabile nei suoi film) pone terribili domande – «Signore…», «…perché?…», «Che cosa siamo noi per te?». A rispondere l’indifferenza di esplosioni stellari, le sagome di galassie viste di profilo, e la mente dell’osservatore che conosce la Scrittura (come la conosce il Regista) salmodia necessariamente: «Che cos’è l’uomo, perché te ne ricordi? Il figlio dell’uomo perché te ne curi?» (Sal 8,5). L’alternanza tra il tempo degli uomini e i secoli immemorabili dell’universo (mediata da una breve digressione sulle pure non trascurabili ere geologiche) fa gravare sulle domande il peso del sospetto che ogni ricerca sia vana, che ogni richiesta di senso sia assurda: cosa potrebbe dirti, la fusione di un nucleo galattico, della morte di un dinosauro o di quella di un cucciolo d’uomo? C’è differenza tra le due? E tra le due e quella della galassia? Che peso ha, realmente, la domanda della madre? Non cadono nel nulla? Ma allora perché sono venute all’essere, se hanno da cadere irrimediabilmente in un nulla così ignaro di sé da non avvertire neppure lo strazio maggiore che sia pensabile al mondo.

Ecco il crivello di Malick: la morte di un giovanissimo figlio visto dalla famiglia, a confronto non con le sofferenze del mondo degli uomini (il paragone, per quanto impari, sussisterebbe ancora), ma con quelle della quasi totalità del cosmo – quella parte che non distingue bene e male, quella che non desidera, non teme, nasce senza gioia e muore senza terrore.

Non si può tacere, però, che se anche mancano le parole in risposta a quelle, frammentarie, delle preghiere della madre, il corposo sottofondo musicale non è lì a caso: l’arte di Euterpe è quella che nel modo più antropicamente elaborato dà voce ai numeri, ai rapporti, alle proporzioni, al cuore invisibile dell’essere che è la matematica. Il mondo è muto, sì, ma non è a-logico, anzi è pieno di logos.

Poi c’è la ricostruzione puntuale della vicenda di quella famiglia: tante cose si capiscono, ma tante altre restano sbocconcellate e fraintendibili, come in dialoghi manieristicamente neorealisti, in cui non mancano le parole che non hanno alcun rilievo nell’economia del racconto. Nemmeno i personaggî, del resto, sono tutti pensati perché abbiano un rilievo: la famiglia risulta composta di due genitori e tre figlî ma, di questi, due soltanto andranno effettivamente a sviluppare una storia significativa per l’osservatore. Perché mai? La pellicola non lo dice. Bisogna arrendersi alla portata del racconto, la quale ostenta alternatamente l’eccesso e la mancanza d’informazione, come in un’eco umana dei fatti bruti siderali.

La vicenda famigliare, però, raggruma in sé la didascalia pienamente intelligibile (certo, a chi dispone delle chiavi ermeneutiche necessarie) dell’intera pellicola. La si può scomporre nelle due vicende, distinte e incastrate, dei genitori e dei fratelli: la prima sorge per dispiegare il fenomeno della formazione della coscienza religiosa nell’uomo (e il tipo dell’uomo è il primogenito, lo stesso che ritroveremo nella metropoli, adulto e triste). Alla prima infanzia, in cui la coppia genitoriale appare come un’indistinta diade mascolino-femminina cui si deve tutto e in cui tutto trova la sua muta spiegazione, segue l’età vocale, in cui la madre prende una sensibile preminenza sul padre, insegnando al bambino ad articolare i suoni, dare i nomi alle cose: ella è allora l’ipostasi dello stato di natura, in cui alla scoperta del mondo s’accompagna l’irriflessa nozione di “Dio” – «Guarda: Dio vive lì!» dice la madre indicando il cielo al figlio che tiene in braccio.

All’esperienza naturalista fa seguito il sorgere vistoso della figura paterna, che sovrappone alla parola, data dalla madre, il comando e la legge: il padre mostra al piccolo Jack (non il solito nome americano… tutt’altro!) che c’è un confine al giardino [del padre], e che non gli è lecito oltrepassarlo; il padre rappresenta il genio e la potenza creatrice, nell’amore per la musica e nella tensione all’assoluto; l’iniziazione a lavoretti di manutenzione domestica, come l’estirpazione delle erbacce, educa Jack all’adamitico servizio della terra, e in lui le figure di Adamo, Giacobbe e Mosè si evocano mutuamente fotogramma dopo fotogramma. Se anche al primogenito di diritto è stato dato il nome del primogenito per estorsione, non è tolto a Jack il disagio di Esaù nel vedersi sopravanzato nella considerazione paterna (ma questo si trova più tra i figlî di Giacobbe che in Giacobbe stesso): il fratello minore sembra essere per natura tutto ciò che il padre cerca di estorcere a lui con la consegna dei comandi.

C’è un evento tragico, con cui da un lato i bambini fanno la drammatica prima esperienza della morte altrui, e dall’altro la figura di Dio e la figura paterna aderiscono saldamente, per Jack, come mai più in avvenire – laddove saranno destinate a costeggiarsi parallelamente in un susseguirsi di analogie grottesche e divaricazioni –: un bambino annega nel fiume in cui tutti stanno rinfrescandosi. Inutile il soccorso del bagnino, inutile il tentativo di rianimazione che proprio il padre di Jack tenta: «Se hai permesso questo – è la dichiarazione di Jack a Dio e indissolubilmente al padre – potrai permettere ogni cosa. A che serve essere buoni?». La legge si vanifica nell’inutilità di osservarla e nell’indifferenza del flagello delle cose sugli uomini: i passi del libro di Giobbe e un sermone in tono risuonano, in chiesa. I ragazzi vengono accompagnati ai sacramenti, ma da quel momento in poi il film distingue evidentissimamente la qualità della legge divina (predicata dal ministro di culto nel sermone) e quella della legge paterna: l’osservatore scopre, non senza dolorosa e rivelativa sorpresa, che la legge paterna è tanto dura (il padre esige di essere chiamato “signore”, e pur amando i figlî e pretendendo l’amore filiale non esita a punire ogni mancanza anche con pene fisiche) perché anche il padre ha le sue ferite, fu un figlio ed è per tanti versi uno sconfitto. La sua legge è volta in buona fede a educare i figlî perché essi possano evitare le scottature e le delusioni del padre.

La madre è quasi completamente silenziosa in tutto questo rilevante lasso di tempo: casalinga devota e fedele, non parla, non obietta, non impedisce (salvo il momento in cui difende un figlio dalla collera paterna e si arriva allo scontro). Ella non è più l’innocente stato di natura, ma ritrova un ruolo – distinto – nel momento in cui il padre parte “per un lungo viaggio di lavoro” (trovata già vista in più di una parabola evangelica). La rottura, o, meglio, la sospensione della “legge del peccato e della morte” (Rm 8,2) apre la via alla “legge della grazia”, in cui la madre acquista di nuovo la parola, per inculcare nuovi comandi: «Aiutatevi a vicenda», «Amatevi gli uni gli altri», «Cercate la bellezza di tutte le cose». Il tempo della grazia coincide col tempo in cui la legge viene consapevolmente violata (i vetri rotti, i piccoli furti inscritti nelle tutto sommato normali peripezie di un adolescente), e la crescita di Jack diventa metafora della critica alla religione che carezza di fianco esperienze spirituali alternative.

Ma il padre torna, e alla consueta durezza caratteriale s’accompagna l’inattesa confessione della propria debolezza, l’ammissione della colpa per cui egli cesserebbe di essere equivoca immagine di Dio: la sorpresa, che rivela tra l’altro lo stadio di maturazione del pensiero di Malick, sta nel fatto che il figlio non è più (ancora? Lo è mai stato?) tanto ingenuo da pensare di lasciarsi il conflitto generazionale alle spalle in modo indolore. Jack sa che riprodurrà in sé le ambizioni, le frustrazioni e le durezze del padre, benché gli dica, riferendosi a entrambi i genitori: «Siete sempre stati in lotta, dentro di me. E ci resterete sempre».

La vicenda in protasi termina qui, e il vuoto che l’ambiente metropolitano contemporaneo crea viene riempito dal ricordo della frammentaria notizia iniziale: è morto un figlio, non il primogenito ma il prediletto. Il primogenito è sopravvissuto, con l’oneroso dovere di mutare la sua maledizione in benedizione. Qui hanno luogo le scene più visionarie e simbolicamente ricche del film: su una battigia metatemporale si ritrovano, alla spicciolata, tutti i membri della famiglia, e poi altre persone, più o meno sconosciute. Le inquadrature sottolineano nella schiuma del mare gli elementi primordiali, il già ricordato limite posto all’imprevedibilità delle cose e la palingenesi battesimale proiettata nell’escatologia. A un tratto ci sono “cieli nuovi e terra nuova”, e il mare risulta improvvisamente scomparso (Ap 21,1). La figura materna viene assunta da due personaggî femminili in una suggestiva “Trinità rosa”, circonfusa di luce, in cui essa compie fiduciosa il gesto di consegna del figlio.

Se anche traspare qualche venata gnosticheggiante, dagli strascichi di new age che Malick sembra (ancora) portarsi dietro, non c’è in tutta la pellicola un ragionevole indizio che inclini a lasciar individuare una religiosità panteistica, né – tantomeno – una marca distintamente marcionita: anzi, la stessa dichiarazione di Jack al padre, circa la coscienza che la figura paterna resterà in lui inseparabile da quella materna (con cui pure sarà in lotta), dice lo scetticismo del Regista verso facili soluzioni “gioachimite”. Che dire, allora, dell’evidente sparizione dell’elemento mascolino dall’ultima scena? Probabilmente che anche in Malick (come in non pochi pensatori cristiani) il conflitto “giustizia-pietà”, “verità-carità”, è destinato a risolversi nell’orizzonte finale con un prevalere della grazia sulla legge, dello spirito sulla lettera. Per il resto, è pienamente comprensibile che la pellicola abbia scontentato quelli che per ammettere un’indole teologica in un’opera d’arte credono di doverla poter porre irrimediabilmente tra quelle ratificate o tra quelle condannate; essa ha scontentato pure, del resto, quelli che per ammettere un’indole artistica in un’opera teologica credono di doverne negare ogni ortodossia: The Tree of Life è una lunga meditazione sui temi del male e della sofferenza, condotta con onesto ricorso ai materiali depositati dalla Tradizione cristiana nelle sue Scritture. Pensa forse di aver visto un lungo e tortuoso documentario sull’evoluzione della vita nell’universo e sulla terra, chi torna al titolo – “l’albero della vita” – con la memoria carica di onde, pesciolini, dinosauri e batterî; proprio la mistica visione finale, invece, rivela che l’albero della vita è quello in cui il figlio prediletto, innocente, viene consegnato al mysterium iniquitatis dopo aver perdonato le vessazioni del “primo Adamo” e averne conquistato l’amore fraterno – e “da quel legno Dio regna”.

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
Contact: Website

2 Comments on «Regnavit a ligno Deus»

  1. Grazie. Ho visto il film solo l’altra sera in dvd, dopo aver atteso impaziente per tutti questi mesi, impossibilitato ad andare al cinema. Di tantissime recensioni che ho letto, trovo che questa sia quella che rende giustizia a questo film più di ogni altra. Mi conceda solo un piccolo appunto: a proposito degli strascichi “new age” che si coglierebbero nella scena della spiaggia, credo che ci sia un aspetto decisivo che li può a buon diritto escludere; parlo del commento musicale, che è l’Agnus Dei di Berlioz. La scena inizia, si svolge e si conclude in completa coincidenza con questo brano. Malick non lascia mai nulla al caso.

I commenti sono bloccati.