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Non chiedere perché

Franco Di Mare: quando nella vita è il momento giusto per non chiedere perché.

«Non chiedere perché», edito da Rizzoli, è il primo romanzo di Franco di Mare, giornalista, volto noto televisivo ed esperto inviato di guerra. Gli ingredienti per farne una melassa c’erano tutti: guerra, morte, amicizia e un amore unico, speciale. Il risultato, invece, è un reportage di guerra-diario dell’anima, capace di farti arrivare sul punto di piangere per poi sterzare bruscamente con l’ironia o una battutaccia, solo per metterti alla prova: – sai piangere ancora per quello che conta?

Questo libro lo consiglio agli uomini per (ri)scoprire tutte le potenzialità di cui sono capaci, alle donne per (ri)scoprire quanta felicità è saper valorizzare le potenzialità di un uomo.

Il libro è una storia vera, la storia del punto di svolta nella vita di Franco Di Mare che, solo per esigenze di racconto, ha cambiato i nomi dei protagonisti, lasciando, però, che tutti gli episodi descritti siano autentici e, soprattutto, autentici siano i nomi delle vittime. Vittime, sì, perché il protagonista, Marco De Luca, è un inviato di guerra che parte con un cargo umanitario diretto a Sarajevo, per raccontare una città assediata, la guerra civile e la pulizia etnica che nel 1992 dilaniarono la ex Jugoslavia. Questo libro, come dice l’Autore, vuole essere un omaggio pieno di affetto e rispetto per una città e i suoi abitanti che hanno resistito eroicamente all’assedio più brutale e sanguinoso avvenuto in Europa dai tempi della seconda guerra mondiale. Marco De Luca è un bravo giornalista, non è un idealista, sa che il TG ha le sue leggi e che la prima è dare notizie appetibili, tuttavia non riesce a dimenticare la lezione di un suo vecchio maestro: un giornalista deve avere le scarpe bucate, vale a dire deve essere uno che calpesta i marciapiedi, che le notizie se le va a cercare, altrimenti tanto vale starsene a casa a cucinare servizi redazionali con il meglio delle immagini di agenzia. «A cosa serve un inviato di guerra se non racconta la vita ai tempi della guerra?» E tutto il libro pare voler dire che la vita ai tempi della guerra altro non sia che una tonalità, una sfumatura della vita, nella quale senti di essere stato colpito da una specie di anatema:  ­– «Che tu possa avere e non avere più» ossia il rimpianto per le cose che abbiamo perduto. Ma questa sfumatura, per quanto sia scura, non è che una sfumatura della vita che trascolora sempre, può trascolorare sempre, in una scintilla di generosità, di pietas della vita stessa, per cui quello che abbiamo perduto viene sanato da quello che possiamo trovare. La vita ai tempi della guerra è quella donna di Sarajevo che un giorno, rovistando in un cassetto, trova un rossetto quasi nuovo: è felice perche a Sarajevo non si trovano più rossetti e se si trovano costano cari. Allora si trucca, come una ragazza, e si presenta a cena dal marito con due labbra rosse come ciliegie. E per i due, quella sera, anche se fuori sparano, sarà «quasi una serata come una volta».

Che la vita abbia sempre una sfumatura di umanità, una riserva di pietas, o lo vivi, o lo sai, oppure non chiedere perché.

Proprio il cercare residui di umanità ai tempi della guerra, porterà Marco all’incontro inaspettato con l’amore che è lì ad aspettarlo. L’amore in questo caso, come in tutti i casi, ha un nome: Malina. Malina ha dieci mesi ed è l’unica bambina morettina, tra bambini biondi e con gli occhi azzurri, a fare capolino tra le culle di un orfanotrofio. Marco è andato lì per fare un servizio con il suo amico-cameraman ed è piuttosto soddisfatto e rilassato perché sa che porterà a casa, per il suo TG, un buon servizio, uno di quelli che fanno audience: bambini piccoli, abbandonati in un orfanotrofio, bombardati durante una guerra. Marco e il suo cinismo, invece, verranno azzerati da un gesto, da un residuo di umanità che scintilla in uno stanzone disumano, in un orfanotrofio bombardato. Mentre abbraccia Malina per metterla «a vantaggio della telecamera», Marco si allontana istintivamente da lei, per non entrare nell’inquadratura, come se dicesse: «Che ci azzecca un inviato di guerra, con una bambina in braccio? L’audience, sì, ma sono innanzitutto un uomo ed un inviato di guerra: non cadiamo nel patetico!» Ed ecco il prodigio inaspettato: scostata dal corpo di Marco, forse per un gesto istintivo, forse sentendosi in equilibrio precario, o per qualcos’altro, Malina allunga il braccio e quel braccio si infila dietro il collo di Marco per tirarlo a sé, come volesse abbracciarlo. Basta quel gesto e tra Marco e Malina è amore, anzi un patto d’amore: «Malina, ti porterò via di qui, va bene»; non ti porterò via per istinti paterni repressi, non porterò via te come potrei portare via anche un altro bambino, porto via te perché me lo hai chiesto tu, perché hai sorriso proprio a me, solo a me, fra tutti quanti. Sì, pensava Marco, «in fondo era lei che aveva scelto».

Perché Malina lo avesse chiesto a lui e perché in quel momento? Per rispondere a queste domande o «sai perché si innamorano anche quelli che giurano che non si innamoreranno mai o sai spiegare per quale motivo un uomo spaventato da un bambino finisca per battersi per averne una», oppure non chiedere perché.

E da questo momento, nel libro, sarà difficile distinguere il reportage di guerra dal reportage dell’anima, perché tutta la storia diventerà l’avvincente vicenda di un uomo che, per realizzare il sogno di salvare una bambina, sfiderà ­– come fossero cecchini tra i cecchini – direttrici di orfanotrofio, burocrati serbi, assistenti sociali e giudici italiani, ogni genere di protocollo e di controllo: se siamo in guerra, siamo in guerra. In questa guerra, però, un uomo non vuole essere lasciato solo ­– non deve essere lasciato solo, perché, alla meraviglia di un uomo accecato d’amore per una bambina, si deve affiancare una donna addomesticata dalla natura, che gli ricordi che un bambino è una responsabilità, non è un giocattolo, e un figlio, ancora di più, «è una fatica quotidiana, è un progetto che non finisce mai, è come un cantiere sempre aperto». E nel libro, a combattere con Marco, ci saranno Karen, responsabile dell’ufficio Eurovisione e la direttrice di una Onlus che recava aiuti umanitari a Sarajevo. Karen è ruvida, tanto brava quanto pessimo carattere, bella bionda mascolinizzatasi «per difendersi da quegli uomini che ti promettono qualcosa che poi non mantengono»; la direttrice dell’Onlus, invece, è una per cui tutto il mondo deve essere una bomboniera: se non sono sposati con figli, non li prendiamo. Davanti ad un uomo solo, inesperto di bambini ma che non si vergogna a chiedere aiuto, e ad una bambina «tanto affamata di contatto fisico che potrebbe starsene senza problemi anche in braccio ad un orco a giocare con le sue zanne», la ruvida rimarrà a Sarajevo solo per aiutare Marco e la signora bon ton forzerà perfino i controlli all’aeroporto, pur di far passare la bambina.

Perché una donna faccia questo, senza chiedere niente in cambio, per un uomo che lo meriti, o lo vivi, o lo sai, o non chiedere perché.

Nella vita, a volte può succedere, ti imbatti in qualcosa che non avevi previsto, che rivoluziona il tuo presente e indirizza il tuo futuro in una direzione che non pensavi fosse la tua, ti colloca in una prospettiva che non pensavi fosse il tuo angolo di mondo, anzi è dalla parte opposta; ma se quella cosa ti dice che ti appartiene, se senti che tu sei il compimento di quello che ti chiede, per quanto strano, è il momento buono di andare: «E poi capisci che se per andare tutti aspettano il momento buono, il momento buono non arriverà mai».

Il libro è dedicato a Stella e chi la conosce dice sia una ragazza di vent’anni molto serena e molto orgogliosa di suo padre. Lei lo sa il perché, ma anche noi.

 

1 Comment on Non chiedere perché

  1. roberta // 16 Agosto 2011 a 17:26 //

    ….semplicemente stupendo, è un libro che si “divora” e vorresti non finisca mai. Bravo Franco Di Mare che oltre essere un ottimo giornalista e conduttore, cosa non facile, è anche un bravo scrittore!

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