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Fate questo!

Recenti polemiche, ragioni e torti, scandali da Gesù in qua

Bizzarro, il destino di una delle frasi più semplici di Gesù, pronunciata durante l’ultima cena: «Fate questo in memoria di me» è forse l’espressione più discussa e strattonata della storia del cristianesimo (verosimilmente anche più di “piena di grazia”). All’apparente evidenza del semplice pronome dimostrativo “questo” corrisponde uno sterminato ventaglio di interpretazioni su che cosa “questo” sia, visto che già i racconti dell’ultima cena sono tutt’altro che unanimi e conformi nel raccontare l’accaduto.

A onor del vero, la letteratura teologica ha trovato di che ridire anche sulla parola “memoria”, discutendo se il contesto e l’intenzione dell’autore permettano di leggere “memoria” come “memoriale ebraico” o no. Pure baggianate, per i profani; temi vitali, per gli specialisti; in ogni caso questioni di lana caprina, a fronte delle più infuocate polemiche sul versante riguardante il contenuto di “questo”. Che cos’è che Gesù ha comandato di ripetere? Una cena? Una cena con quelle portate? Con quei vestiti? Le preghiere di benedizione? Nel caso, le preghiere potrebbero essere tradotte o dovrebbero essere recitate ancora in aramaico? E che dire, poi, delle altre espressioni di Gesù, “questo è il mio corpo”, “questo è il calice del mio sangue”? Intendeva sul serio o era tanto per dire? Su nessun gruppo di così poche parole è stato mai versato specificamente tanto inchiostro, e sembrava impossibile accendere tanti roghi con la sola carta necessaria a scrivere queste brevissime frasi.

Le incomprensioni sulle intenzioni di Gesù nell’ultima cena (ossia, a conti fatti, sulle sue raccomandazioni per la vita della Chiesa) sono ben lungi dall’essere dissipate, e i problemi, in merito, non sono soltanto confinati nel confronto con gli atei e con gli agnostici, né coi soli non cristiani, né arrivano soltanto a lambire il dialogo ecumenico, bensì farciscono in lungo e in largo la stessa vita dei cattolici, in un modo tale da mostrare che le “tertulias” dei teologi non sono prive di profondi aggancî alla realtà più concreta. Sì, perché è nella realtà più concreta che si costruiscono le chiese, si celebrano le messe, si prova a obbedire al semplice comando di Gesù, “fate questo!”, in un modo o nell’altro. A partire dal Concilio Vaticano II il numero dei fedeli laici che s’interessano di teologia e liturgia è certamente cresciuto, come pure la qualità della loro preparazione e dei loro interventi; questa tendenza non va, tuttavia, esaltata in senso univoco, perché da un lato lo stesso Concilio non è spuntato nella storia del Cristianesimo come un fungo, bensì è stato preparato da generazioni di fedeli (chierici e laici) già fortemente imbevute di senso ecclesiale e teologico; dall’altro il sipario della celebrazione eucaristica – da sempre appannaggio esclusivo del clero, in senso stretto – non è mai stato alieno alla considerazione popolare. Così si capiscono modi di dire come “Sbaglia anche il prete sull’altare!” e formule “magiche” come “hocus pocus” (abbiamo già avuto modo di ricordare che si tratterebbe della contrazione di “hoc est enim corpus meum”).

In quest’alveo culturale, fatto di continuità e di discontinuità (o, per meglio dire, di “continuità nella riforma”), sta certamente anche il pronunciamento di Antonio Socci risalente a poco più di una settimana fa. Il tono forte e gli argomenti perentorî lo configurano come un j’accuse, e questo basta senz’altro a notare positivamente un dato della nostra temperie culturale: che un fedele laico sappia di avere, in quanto semplice figlio della Chiesa, l’autorità di muovere ragionate osservazioni e obiezioni sulle modalità in cui vengono celebrati i misteri che, benché amministrati dai fedeli insigniti dell’Ordine Sacro, tuttavia edificano tutto il Corpo ecclesiale, questo è senz’altro un notevole segno dei tempi di cui il Vaticano II è stato audace sentinella, entusiasta araldo e attento disciplinatore. Con ciò non intendo peraltro avallare tutte e singole le considerazioni di Socci, alcune delle quali potrebbero però porre degli interrogativi ineludibili per la vita della Chiesa in Italia oggi. Un vero peccato, invece, è che posizioni intelligenti, ragionate e argomentate – quantunque non ineccepibili – vengano vieppiù accantonate tra le “posizioni reazionarie”: operazione, questa, miope e ottusa.

È più che legittimo (direi doveroso, ma in un contesto in cui ciò che sarebbe tale non è comune devo limitarmi a “lodevole”) nutrire delle aspettative su una riunione come il Congresso Eucaristico che si è tenuto ad Ancona la settimana scorsa, e questo è precisamente lo spunto colto dal giornalista senese per auspicare una ritrovata chiarezza in quanto riguarda la celebrazione pubblica del mistero cristiano centrale. «Non si capisce – scrive Socci – quale sia lo statuto teologico di cui gode una Commissione della Cei (a mio avviso nessuno)»: quanto più questa frase sembra irriverente fino a rasentare la blasfemia, tanto più è profondamente vera, perché la conformazione ecclesiale della Chiesa Cattolica non riconosce vere istanze d’autorità tra il livello particolare (l’ufficio del Vescovo diocesano e di eventuali Sinodi da lui promossi e ratificati) e il livello universale (l’ufficio del Romano Pontefice e della Curia Romana, i Concilî e i Sinodi dei Vescovi). Le Conferenze Episcopali sono un’“invenzione” recentissima, atta a promuovere il confronto consultivo di Vescovi operanti su un territorio accomunato da fattori sociopolitici rilevanti: niente di quanto viene promosso da un qualsivoglia documento di una Conferenza Episcopale ha effetto immediato e necessario in alcun luogo, bensì ogni singola decisione deve passare per il vaglio dell’Ordinario (diciamo il Vescovo) e riceve da lui la forza e l’autorità che la tengono in vigore. In soldoni, se una conferenza episcopale consiglia di conservare il Santissimo, nelle chiese, in cappelle separate dall’aula liturgica principale, niente di queste disposizioni si attua automaticamente senza che il Vescovo della singola diocesi disponga in conformità ad esse, e va da sé che egli potrebbe benissimo decidere di distanziarsi dalle direttive indicate dalla Conferenza (né questa è un’ipotesi peregrina: accade normalmente).

Acuta e corretta, dunque, l’obiezione formale di Socci, mentre in merito al contenuto il giornalista mi pare molto meno condivisibile e la sua analisi troppo unilaterale: le cappelle separate per la conservazione dell’Eucaristia esistono diffusamente almeno dall’età barocca, e non risulta affatto che abbiano messo in pericolo il culto eucaristico, né dentro né fuori la celebrazione. Finché le usanze moderne furono alimentate da correnti autenticate dal conforto dei secoli, come L’imitazione di Cristo (di ricchissima dottrina eucaristica, checché ne dicano quelli che non si degnano di sfogliarne il libretto), non solo esse non hanno apportato danni alla devozione pubblica e privata, ma l’hanno arricchita, sbocciando per di più in un’autentica primavera delle arti, della letteratura, del pensiero cristiano.

Dopo le premesse, dunque, l’analisi di Socci perde un passaggio, che è quello del nesso necessitante tra tesi e ipotesi. Ragione da vendere, invece, torna ad averne quando osserva che «nell’ambiente ecclesiastico – a partire da seminari e facoltà teologiche – trovi legioni di teologi pronti (senza alcuna ragione seria) a mettere in discussione i Vangeli (nella loro attendibilità storica) e le parole del Papa, ma se si tratta di testi partoriti dalle loro sapienti meningi, e firmati da qualche commissione episcopale, ti dicono che quelli devono essere considerati sacri e intoccabili»: contrariamente a Mancuso, nella forma e nel contenuto, qui si sente la com-passione di chi soffre personalmente per l’accusa che rivolge altrui (si chiama “senso ecclesiale”, senza il quale nessuno dovrebbe potersi spacciare per “teologo”). Lo statuto epistemologico della teologia attecchisce ai nostri tempi perlopiù in modo sbilenco, dal momento che la creatività del teologo viene implicitamente intesa come dialettica alla fedeltà alla Tradizione e al Magistero: questi sono i frutti più velenosi di quella mala pianta che con buona parola è stata chiamata modernismo, e la scomunica per la quale non è stata mai revocata. Eresia strisciante e subdola, il modernismo, (di più, “sintesi di tutte le eresie”), disgraziatamente diffusa nel pensiero filosofico (non a caso “indebolito” a morte) e in quello teologico.

Il modernismo è precisamente quello che è intercorso tra il barocco, di cui parlavamo prima, e noi, rendendo confusi e ambigui gli accostamenti tra “antico” e “nuovo” che allora sussistevano con grazia naturale: draghi, triangoli e pellicani, additati con allarme in opere come la nuova chiesa di San Pio (progettata da Renzo Piano), sono segni di antichissima semiologia cristiana, progressivamente depauperati del riferimento significante originario e silenziosamente “risignificati” con una strizzata d’occhio all’esoterismo e alla massoneria. In concreto, non basta enumerare le ricorrenze di questa o quella figura per stabilire se si è in presenza di un’opera cristiana o non-cristiana (se non anti-cristiana): bisogna riuscire a cogliere, se c’è, un elemento in forza del quale la congiunzione degli altri risulti sospetta. Restando nella famosa chiesa di San Pio, non conta quanto grande sia il drago della vetrata: anche nel Duomo di Milano campeggia un drago che ruba per sé buona parte della scena. Non conta neppure che il Santissimo sia riposto in una cappella a parte: non si deve al Bernini la monumentale cappella eucaristica di San Pietro in Vaticano? Quando però si nota che i banchi della cappella eucaristica hanno inginocchiatoî, mentre quelli dell’aula liturgica no, lì c’è senz’altro qualcosa di poco chiaro: una così netta distinzione tra dimensione conviviale e dimensione sacrificale risulta estranea al mistero eucaristico, e ve la si impone a forza. Ora, il problema è duplice, perché da un lato ci si deve chiedere se siano gli architetti a imporre all’utenza di una chiesa le proprie stravaganze (anche qualora l’architetto risulti ateo) o se la responsabilità vada trovata nella committenza; dall’altro ci si deve chiedere se i responsabili di questa sorta di arbitrî liturgici (architetti e/o committenti) siano semplicemente dei maldestri faciloni o piuttosto dei consapevoli traviatori dell’alfabeto semiotico cristiano.

Le teorie del complotto sono normalmente il frutto fantasioso di menti affette da complessi di inferiorità-superiorità e persecuzione: in ambito ecclesiale, poi, concepire un complotto contro la Chiesa non è interessante, se lo si pensa confinato nel mero piano delle forze naturali; se invece si ammette che esso sia giocato anche su un piano preternaturale (e forse segretamente a partire da esso) la cosa si fa decisamente più interessante, e forse anche più vera, ma rischia di diventare morbosamente irragionevole e alienante. Il male che gli uomini compiono, del resto, è perlopiù banale, privo dei sinistri bagliori del positivo piano malefico: una pretesa “innovazione liturgico-architettonica” ha più facilmente, quindi, i tratti della “trovata” di menti superficiali, ignoranti e presuntuose, che quelli del “progetto” di un’intelligenza acuta, lucida e malvagia.

Così non tutti i preti hanno la possibilità concreta di sragionare al tavolo di un architetto compilando un progetto, ma tutti hanno quella di alterare arbitrariamente (più o meno nel profondo) le strutture fondamentali del culto ecclesiale, e di fatto non pochi sono quelli che lo fanno. Dietro allo sprezzante paravento del “tanto la gente* non capisce”, non pochi preti accumulano la propria ignoranza e il proprio pressappochismo a sostegno di un’incontrollata smania di spadroneggiamento: proprio per la banalità del loro pensiero “innovatore”, non sospettano neppure che quella stessa “gente” che non capisce cosa ci sia di sbagliato nelle adulterazioni del rito e perché, quelle stesse persone avvertono a pelle che “alla fin fine ognuno fa come gli pare”. Tale considerazione, anche non tematizzata, è uno dei frutti più maturi (si fa per dire) e più comuni del modernismo: minando la riconoscibilità del culto cristiano nello spazio e nel tempo, la Tradizione viene indebitamente confusa con le tradizioni (e viceversa, per reazione); l’unicità della Fede salvifica nella storia viene dispersa con l’unità del modo di pregare (perché la lex orandi attesta la lex credendi) e, in sintesi, la testimonianza del Cristo Vivente viene resa incomprensibile, perché insignificante.

Questa è la ragione profonda di quanto diceva il cardinal Ratzinger nell’apologo riportato da Socci in apertura del suo articolo: «Per me una conferma della divinità della fede viene dal fatto che sopravvive a qualche milione di omelie ogni domenica». In effetti l’analisi di Socci è sostanzialmente corretta (peccato poi che un cattolico cui non sorride che in chiesa si preghi con testi coranici debba passare per intransigente e reazionario), ma non è corretto dire che è per via della tendenza a conservare il Santissimo in cappelle distinte dall’aula liturgica principale che il culto eucaristico perde tono, vigore e partecipazione (nella messa e fuori). La ragione è molto più prossima, se la si vuol guardare: la sciatteria e gli abusi nella Celebrazione eucaristica fanno sì che il Santissimo Sacramento non appaia ad alcuno come alcunché di ragguardevole e degno d’onore, quindi (coerentemente) non si vede il motivo di dedicarvi anche il tempo di “ore sante” e “quarant’ore” (locuzioni ormai prive di significato). D’altro canto, la sciatteria e gli abusi sono frutti di personalità caparbiamente impermeabili all’amorosa fatica della contemplazione, e questo rende vizioso il circolo. Si potrebbe infatti arrivare a dire che un prete che non celebra i divini Misteri con devota fedeltà a Cristo e alla Chiesa sta semplicemente venendo meno alle più solenni delle sue promesse d’Ordinazione (tutte esplicitamente orientate in questo senso…).

Non c’è speranza, quindi? Altroché, se c’è! Cresce e può crescere ancora il numero di fedeli laici che pretendono (come è loro diritto!) di imparare dalla scuola della divina liturgia il segreto di una fedeltà creativa per la propria vita, una fedeltà che non debba scegliere tra evitare il tradimento nella noia e fuggire la noia nel tradimento. Al contempo si assottiglia e può assottigliarsi ancora il raggio d’azione di quelli che spacciano la celebrazione del proprio miserabile ego per culto divino – una chiesa vuota non è che un raggio d’azione illusorio.

Basta sfogliare documenti come la Sacramentum Caritatis, per avere un’idea di alcune tra le aberranti adulterazioni inflitte al mistero del Corpo di Cristo (che è l’Eucaristia e che è la Chiesa) da sciagurati giocolieri dell’altare; confrontandole, poi, con la “nobile semplicità” di cui risplende il Messale Romano si fa presto a capire perché il Santo Padre, ad Ancona, abbia voluto richiamare proprio lo sgomento dei discepoli di fronte alla severa serietà delle dichiarazioni di Gesù: «“Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?” (Gv 6,60). Davanti al discorso di Gesù sul pane della vita, nella Sinagoga di Cafarnao, la reazione dei discepoli, molti dei quali abbandonarono Gesù, non è molto lontana dalle nostre resistenze davanti al dono totale che Egli fa di se stesso. Perché accogliere veramente questo dono vuol dire perdere se stessi, lasciarsi coinvolgere e trasformare, fino a vivere di Lui, come ci ha ricordato l’apostolo Paolo nella seconda Lettura: “Se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rm 14,8)».

 

 

 

*: Dall’uso frequente di questa parola si tradisce un afflato insieme populistico e tirannico (d’altronde due facce di un’unica medaglia).

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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