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Stairway to Heaven

La complicata naturalezza dei puri spiriti: da Giacobbe ai Led Zeppelin

A forza di sentir parlare di angeli in tutte le salse – angeli al supermercato e angeli in chiesa, angeli nei cimiteri e angeli nelle culle, angeli dei parcheggî e angeli dei boschi… – mi sono fatto l’idea che l’uomo contemporaneo creda più nell’esistenza degli angeli che in quella di Dio. Innumerevoli film, trasmissioni televisive e radiofoniche, numeri speciali di riviste pseudoscientifiche attestano incontrovertibilmente se non l’effettiva esistenza degli angeli una qualche forma di persistente credulità degli uomini a loro riguardo.

Questo non è del tutto esatto: si dovrebbe considerare, per esempio, che le persone che dichiarano di credere fermamente negli angeli sono le stesse che, in altri contesti, dichiarano fermamente di escludere dalla propria visione del mondo tutto ciò che non cade sotto il dominio dei sensi (e questo esclude evidentemente anche gli angeli, senza dubbio, qualunque cosa siano). Si dovrebbe, sì, ma rimandiamo l’argomento a un’altra occasione.

Ci soffermiamo, per il momento, solo sugli angeli e su quello che gli uomini credono di sapere di loro: il Catechismo della Chiesa Cattolica definisce quella dell’esistenza degli angeli una verità rivelata, e “si limita” a prendere atto del fatto che l’attestazione della loro esistenza nella Scrittura è «tanto chiara quanto l’unanimità della Tradizione» (328) nell’interpretarla.

Sì, la Scrittura è chiarissima, e, sì, la Tradizione è interamente unanime. Ma solo in merito all’esistenza degli angeli! C’è dell’altro da dire? Si capisce – per esempio: che sono i “troni”, le “dominazioni”, i “principati”, le “potestà”? Che differenza c’è tra “cherubini” e “serafini”? E poi che sono gli “angeli custodi”? E gli “arcangeli”? Nei numeri 331-333 del Catechismo si trova una densissima sintesi di tutti i passi scritturistici fondamentali in cui si fa anche solo menzione degli angeli, ovvero si specificano le loro missioni e le loro proprietà. Subito di seguito, nei numeri 334-336, si legge una altrettanto densa sintesi dei principali testi liturgici e paraliturgici (in particolare facenti capo al Rito Romano) in cui gli angeli vengono evocati – per esempio già nel Canone della Messa – o invocati – come nei riti di commiato delle esequie.

Che senso hanno queste menzioni e queste distinzioni? Le figure angeliche vanno ritenute dei semplici generi letterarî antichi o hanno una loro dignità ontologica (e chiaramente teo-logica)? Ad esempio, e tanto per capirci, tutti noi immaginiamo gli angeli con le ali: al di là di iconologie più o meno ingenue, è noto che gli angeli non sono mai stati pensati (non parliamo ancora di raffigurazioni, con l’eccezione indimostrata dell’Arca dell’alleanza) come degli uomini alati prima che la cattività babilonese (VI secolo a. C.) non avesse mostrato agli agiografi giudei una cultura costellata di genî alati; allo stesso modo gli angeli non sono mai stati rappresentati con fattezze di bambini (alati) prima che la cultura giudeocristiana fosse entrata in contatto con quella greco-romana e coi suoi putti. Le raffigurazioni femminili degli angeli, invece, accompagnano col loro nascere una fase di decadenza culturale (teologica) in cui, sulla soglia tra medioevo e rinascimento, fa la sua comparsa la figura della “donna-angelo”: come è evidente, la bella spiritualizzazione idealizzante delle donne (la “donna-angelo”, appunto) fa da contraltare involontario ma necessario alla triste materializzazione estetizzante degli angeli (l’“angelo-donna”, precisamente). In un momento di disattenzione generale al pensiero teologico e di allentamento della sensibilità necessaria a esercitarlo, la teologia comincia un declino che isterilirà per qualche secolo la sua ricerca in dispute che hanno non a caso meritato il titolo “de sexu angelorum.

Si dirà: «Ecco a cosa portano le speculazioni! Ecco a cosa porta la teologia che lascia da parte la Scrittura!». Sì e no: sì perché è vero che quando tralascia la Parola di Dio la teologia non può che sbandare in clamorosi fuoripista; a dirla tutta, quando tralascia la Parola di Dio la teologia non è più neanche teologia… No perché non è la speculazione il nemico, ma il fare teologia con criterî non ispirati e orientati dalla Parola di Dio (ben altra cosa che dire: “contenuti nelle Scritture”!). La speculazione, invece, non è neppure un evento estraneo alla Scrittura, visto che gli Autori sacri, divinamente ispirati, hanno nondimeno composto le loro opere come veri autori, nel pieno possesso delle proprie facoltà intellettuali e con tutto quanto l’influenza di un milieu culturale comporta. Un esempio concreto? Il pensiero sugli angeli è, nel libro di Tobia, molto più sviluppato che nel libro della Genesi o nell’Esodo, o nei Giudici: l’autore del libro di Tobia si dilunga molto e in varî modi spiegando come e perché Raffaele (uno dei tradizionali sette arcangeli menzionati dalle Scritture – tre dei quali soltanto, però, vedono il loro nome nei libri canonici) sembra compiere azioni sensibili, come mangiare, bere e dormire, mentre non le compie affatto. Questa è speculazione. E non è contraria alla teologia.

L’autore che invece ha più largamente influenzato la speculazione extrabiblica sugli angeli, almeno nell’antichità e nel medioevo, è senz’altro il cosiddetto Pseudo-Dionigi: nella sua celebre opera intitolata “La gerarchia celeste” si trova una sistemazione organica di tutti i nomi angelici presenti nelle Scritture, una risposta ragionevole a tutte le domande che elencavo sopra per dare un’idea della complessità della materia.

Il lavoro di sintesi dello Pseudo-Dionigi è stato tale che a lui hanno attinto tutti i teologi successivi – anche quelli che hanno cominciato a dubitare della sua ascendenza apostolica (questo autore si spacciava pseudoepigraficamente per un discepolo ateniese di san Paolo, ma le sue opere non possono essere anteriori al V secolo). Perfino Dante tiene in gran conto la sua sistemazione delle gerarchie angeliche, nella propria composizione del Paradiso, se non altro perché – a fronte di un imponente coefficiente di coerenza interna del sistema dionisiano – nessuno è veramente in grado di smentirlo o convalidarlo con dati esterni oggettivi.

Detto questo, si capisce come e perché la teologia ufficiale si sia orientata verso una proposta dal profilo più umile e minimale: degli angeli si dice in dottrina (a partire dal Catechismo) solo quanto è incontestabilmente vero e certo. Il Catechismo cita (329), per l’appunto, un testo di Agostino che prova già agli inizî del V secolo a prediligere “l’assetto leggero” del pensiero: «La parola “angelo” designa l’ufficio, non la natura. Se si chiede il nome di questa natura, si risponde che è spirito; se si chiede l’ufficio, si risponde che è angelo: è spirito per quello che è, mentre per quello che compie è angelo» (Commento al Salmo 103). Un testo breve e chiaro (fin dall’antichità citato, ricitato e stracitato), illuminato da una sola, acutissima intuizione: l’essenziale degli angeli è che sono creature spirituali, «hanno intelligenza e volontà: sono creature personali e immortali. Superano in perfezione tutte le creature visibili. Lo testimonia il fulgore della loro gloria» (CCC 330).

Tutto questo, però, non deve distogliere dal fatto che non solo quanti fanno esperienza diretta e chiara di una persona spirituale parlano di un angelo, o dovrei pensare che tutte le persone che dichiarano di credere negli angeli hanno visto il proprio angelo custode preparare e servire un caffè, come accadde più volte a santa Gemma Galgani. Invece no: a parte le evidenti storture di pensiero con cui comunemente si può dire “angelo mio” a un bambino o all’amata, il concetto di angelo è – sul versante antropologico – l’espressione narrativa (non intendo strettamente “letteraria”!) del fenomeno religioso fondamentale, ossia dell’esigente ricerca del divino.

Così il sogno di Giacobbe (Gen 28, 10-22) nel luogo che al mattino egli avrebbe chiamato “Betel” (ossia “la casa di Dio”, “luogo terribile” 10, 17): una scala distesa dalla terra alla volta celeste, e angeli che la salivano e la scendevano – terrore e spaesamento per Giacobbe, con la certezza di essere stato alla presenza di qualcosa che non poteva essere altro che Dio. Così Robert Plant, il cantante dei Led Zeppelin che tra il 1970 e il 1971 stendeva l’ermeticissimo testo di Stairway to Heaven. Si capisce che Plant non sia intervenuto a dirimere le accese dispute sul senso di una delle più belle canzoni rock di tutti i tempi: nessun poeta si abbassa mai a commentare i proprî versi, visto che normalmente li ha scritti proprio perché quella doveva sembrargli la via migliore di esternarsi.

Una delle vie principali che la “critica” (si fa per dire) contemporanea prende per giudicare un’opera dal contenuto oscuro è proiettarvi dentro allegramente e senza troppi pensieri quello che si vuole, perché «in una vera opera d’arte ognuno può vedere ciò che vuole» (salvo poi spacciare la propria interpretazione come “la più vicina al pensiero dell’autore”). Così gli immancabili fanatici sedicenti cristiani – in realtà soprattutto desiderosi di vedere il diavolo all’opera – hanno rivoltato più e più volte il testo di Stairway to Heaven come un calzino fino a scoprire in un paio di versi ascoltati al contrario qualcosa che alle loro orecchie (estenuate da cotanto esercizio) sembrava un inno satanico. «Finalmente!»: aggiungerei pensando a loro.

Immancabili sono pure, d’altro canto, i “battezzatori”, credenti anche loro (probabilmente con coscienza migliore dei primi), il cui obiettivo è dimostrare che chiunque, in fondo, è una brava persona che parla di Gesù e di Maria… e poco importa, a questo scopo, che l’Autore abbia eventualmente rilasciato chiare dichiarazioni in cui negava un intento confessionale così come uno anticonfessionale. Il discorso sulla critica dovrebbe estendersi più generosamente, perché i critici non si dividono tra credenti e non credenti: anche il moralismo da due soldi di chi vuole vedere in Stairway to Heaven un inno contro la società consumistica (impersonata dalla “bella signora che vuole comprare una scala per il Paradiso”) pecca della medesima superficialità frettolosa, visto che non considera come per Plant alla fine la signora, «che noi tutti conosciamo», «risplende di luce bianca» e dimostra come effettivamente «qualsiasi cosa si tramuti quieta in oro». Tutto questo proprio mentre arriva la melodia del pifferaio, in cui l’interpretazione sociologica avrebbe voluto, al contrario, vedere l’ineffabile e mistico redentore, avversario della signora, che «ci condurrà alla ragione».

Il testo di Robert Plant, invece, è innegabilmente marcato da un forte e contorto misticismo, in cui le persone, le idee e le cose sono solo parzialmente e momentaneamente distinte – «When all are one and one is all, yeah, / to be a rock and not to roll» – ma è metodologicamente scorretto (quindi infruttuoso) estrapolare i pur numerosi richiami di ascendenza cristiana e montarli in una vera e propria teologia: se in un bosco trovo un cerchione, una marmitta e venti bulloni so per certo che quelle cose vengono da un’automobile, ma le stesse non mi bastano a ricostruire l’automobile, per quanta voglia io ne abbia.

La ricerca spirituale di Plant pare essere fortemente influenzata, nel 1970, da Magic Arts in Celtic Britain, di Lewis Spence, e se anche il mondo celtico non basta a spiegare tutto il testo, nondimeno basta a spiegare perché non lo si può spiegare tutto partendo da altrove. In buona sostanza, la Stairway to Heaven, che «poggia sul vento che bisbiglia» è il cuore dell’esperienza angelica: un misterioso, ineffabile eppure indubitabile contatto con un “livello di realtà” che è totalmente altro, ma che risulta pure troppo rispondente ai nostri desiderî più originarî per non dirlo totalmente nostro. Dio. Dio che si comunica, Dio che si rivela, Dio che parla, Dio che protegge. Dove la voce di Dio è detta “angelo” e gli angeli sono talvolta solo un’immagine della gloria stessa di Dio.

Dell’esperienza di Giacobbe s’è ricordato Robert Plant, pur senza rinnegare il fascino su di lui esercitato dal mondo celtico; dell’esperienza di Giacobbe s’era ricordato pure Gesù Cristo, quando promettendo agli uomini che avrebbero visto «il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo» (Gv 1, 51) identificava se stesso e la propria gloria – la croce – come l’unica scala per cui gli uomini accedono davvero a Betel – la casa di Dio.

 

 

 

Immagine: William Blake, Jacob’s Ladder.

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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