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Fine vita: dai Gesuiti se ne parla

“Dichiarazione Anticipata di Trattamento”: valutazioni antropologiche ed etiche di un ddl

«È ragionevole aiutare uno a caricarsi un fardello – così Pitagora in uno dei suoi “acusmi”, i misteriosi aforismi iniziatici – ma non è conveniente aiutarlo a deporlo». Olimpiodoro ne diede, commentando il Fedro di Platone, un’interpretazione molto suggestiva: «bisogna cooperare con la vita, non interromperla». In breve, quello che il commentatore leggeva nella sentenza pitagorica è una sibillina diffida del “suicidio assistito”. Tema mai fuori moda, tra gli uomini, quello del suicidio, perché se da un lato è vero che “in questa valle di lacrime ci si piange bene”, dall’altro non lo è meno che per tutti la vita è qualche volta un peso, e che per qualcuno può essere un peso molto gravoso assai più spesso che “qualche volta”. I filosofi e i poeti si sono sempre occupati del suicidio, da molto prima che i teologi si presentassero come figure distinte da loro, e quando il mestiere del “moralista” non era ancora stato inventato: un filosofo che, nell’antichità, avesse sdoganato il suicidio sarebbe risultato agli occhî dei dossografi una mosca bianca, tanto che l’unico sofista che girava di città in città convincendo la gente a suicidarsi (e lasciava davvero, dietro di sé, suicidî di massa!) è passato alla storia della filosofia col nome che la sua materia gli conferiva – il peithothànatos (il “persuasore di morte”).

Certamente, i filosofi antichi non avevano a che fare con i nuovi casi etici posti da possibilità tecniche, quali le nostre, che mai s’erano viste, prima d’oggi, nella storia dell’umanità: morire anziani era, nell’antichità, un qualcosa che necessariamente meritava venerazione, visto che vivere fino a tarda età non poteva se non rarissimamente essere la fortunata combinazione di una buona fibra fisica e delle eventuali cure di buoni medici. La longevità era il venerando prodotto di una vita integra, sobria, misurata e non di rado virtuosa, cui gli anni avevano nel frattempo conferito, con la saggezza, uno status sociale indiscutibilmente prestigioso (forse si trattava anzi dell’unico status sociale di rilievo che non dipendesse dal denaro, né direttamente né indirettamente).

I nostri eccellenti mezzi di tecnica terapeutica permettono ai cuori di superare disfunzioni, anche gravi, che un tempo avrebbero portato alla morte in giovane età; i trapianti di quasi ogni tipo di tessuto organico offrono una chance in più a persone che non molti decennî addietro semplicemente sarebbero morte, più o meno lentamente e dolorosamente; il monitoraggio accurato, anche se non totale, che possiamo esercitare sugli stati comatosi, permette di tenere in vita moltissime persone che un tempo sarebbero morte in poche ore, e in non pochi casi di salvarle. Questo è il nuovo panorama etico da cui gli uomini sono interpellati: alla faccia degli ingenuotti tirati su a numeri di Focus – slanciati verso “le magnifiche sorti e progressive” della medicina – il problema del non saper (più) marcare (molto) nettamente la linea che segna il confine tra la vita e la morte si fa sempre più urgente, nella sua istanza etica, filosofica, ovvero umana.

I casi di Piergiorgio Welby, Terry Schiavo ed Eluana Englaro lo hanno ribadito con tutta l’evidenza possibile: c’è bisogno di discutere del fine vita. Meglio che questo avvenga lontano dagli schiamazzi televisivi dei più, ma meglio pure che la politica sia soprattutto interlocutrice del dibattito, prima e più che relatrice: una simile cornice ha portato alla tavola rotonda sul fine vita ospitata nella sede de La Civiltà Cattolica a Roma. È stato confortante constatare che la sala era stracolma: i convenuti, moderati dal P. Antonio Spadaro S.J. (da poco Direttore della prestigiosa Rivista), sono stati introdotti mediante la prolusione del P. Francesco Occhetta S.J. alle considerazioni fondamentali di ordine antropologico (e quindi all’eutanasia, al suicidio assistito e al “testamento biologico”). Il versante giuridico e medico-tecnico della questione è stato invece rinforzato dalla Prof.ssa Maria Grazia Marciani, ordinario di neurologia a Tor Vergata.

Non sono state affatto derise le posizioni di chi si trova a pensare seriamente al gravame dato dall’assistenza di un malato terminale e/o un anziano; si sono però richiamati i due principî dell’“etica laica” contemporanea, ossia il dubbio sulla dignità di una vita “non più umana” e il dubbio sulla presunzione (tipica non solo del pensiero dei credenti, ma del “pensiero forte” in generale) di disporre di parametri valoriali universalmente condivisibili.

Il richiamo alla Evangelium Vitæ, del 1995, era funzionale a ricordare da un lato la non disponibilità della vita e dall’altro la dignità penultima (e non assoluta) della vita. Questo stupirà il lettore medio, abituato dalle melasse zeffirelliane e dal buonismo religioso medio a stupirsi di quanto il Catechismo della Chiesa Cattolica ancora oggi scriva sulla pena di morte: per i cattolici la vita umana è valore indisponibile, ma non assoluto. Il valore ultimo della vita umana non è essa stessa, ma il dono di essa, e per questo si fa divieto assoluto di toglierla, ma ci si oppone d’altro canto all’accanimento terapeutico (ossia alla sproporzione delle cure).

E perché pensare soltanto alle encicliche, come se un pensiero serio sulla dignità della vita umana si ritrovasse solo nei testi di fede? Occhetta ha quindi richiamato gli articoli 2 e 32 della Costituzione della Repubblica Italiana, i quali ammettono che il diritto può solo riconoscere, non fondare, la dignità umana. Il potere politico, a sua volta, dipende dal diritto e non ne dispone.

Occhetta valutava il ddl del 2009 come generalmente accettabile, malgrado un paio di riserve, e sebbene fosse “in puntuale ritardo”. Di positivo c’è il ribadimento del divieto di eutanasia e suicidio assistito (legali invece in Paesi come Olanda e Svizzera): come si vedrà più avanti, questo salva l’alleanza “medico-paziente”. L’idea centrale della proposta del ddl è che non si parla più di “testamento biologico”, ma di “dichiarazione anticipata di trattamento”: la differenza non è solo nominale, perché la DAT non pretende di esprimere una volontà, bensì un’ipotesi condizionata. La DAT ha un effetto in caso di incapacità permanente del soggetto: assenza di inattività neuronale cortico e sottocorticale. È un documento scritto e firmato inserito nella propria cartella clinica, ma non è vincolante per il medico (grande differenza nei confronti di Paesi come la Spagna, dove il medico reticente è penalmente perseguibile).

La critica di Occhetta si è appuntata sull’affermazione per la quale il medico deve decidere se aderire alla DAT o no, secondo scienza e coscienza, in base ai principî di “precauzione, proporzionalità e prudenza”. Il gesuita pareva ritenere che si chieda troppa virtù ai medici: sono tutti veramente in grado di esercitare tanta sublimità di giudizio? A giudizio di chi scrive, se questo è il problema ci si dovrebbe chiedere lo stesso riguardo alle decisioni che devono prendere i direttori spirituali in cura d’anime (tanto più visto che questi sono pure coperti da sigillo sacramentale): non si può imputare a un medico di non saper dare la vita a un morente – non imputiamo una simile “omissione” neanche all’Onnipotente… Quanto alla formazione della coscienza, la professoressa Marciani è successivamente intervenuta – confortando tutti i presenti – per assicurare che il tema è molto «sentito e pensato» dai giovani medici che lei contribuisce a formare. Il segnale è importante, perché indica da un lato il limitarsi del delirio d’onnipotenza della tecnica medica, dall’altro che non c’è da disperare al pensiero di affidarsi (certo, umanamente) al discernimento del medico di turno. Una legge in merito è saggia ed è da auspicare (nel rispetto degli articoli 2-3-32 della Costituzione), mentre non abbiamo alcun bisogno di un Testamento Biologico. La DAT non implica un presupposto etico “ora per allora”, che suppone il bene della vita come eticamente disponibile.

Ciò su cui di rado si riflette (visto che la maggior parte delle persone potenzialmente coinvolte in un caso concreto che possa implicare l’utilizzo di una DAT si pensa automaticamente dalla parte del paziente) è il punto di vista del medico, che si sente come “defraudato” dell’alleanza terapeutica e lasciato solo a decidere in pochi istanti della vita di un altro.

L’alleanza terapeutica è il concetto su cui si basano il “consenso informato” e le “dichiarazioni anticipate”. La DAT si inserisce all’interno del tema generale dell’autonomia del paziente, in cui anche il “consenso informato” si esprime. Il Comitato Nazionale di Bioetica ritenne a suo tempo che la DAT avrebbe il compito di far sussistere l’“alleanza terapeutica” al di là della barriera comunicativa che si erge quando la capacità di comunicare viene meno nel paziente.

A fronte dell’incremento della possenza tecnica, è la crescente crisi umanistica a dettare i veri problemi giuridici: «con la perdita del senso etico – ha detto la Marciani –, del senso religioso e di una capacità di rapportarsi con la morte, il principio di autodeterminazione si erge con prosopopea titanica».

Il cosiddetto accanimento terapeutico – la cui definizione risente notevolissimamente di molte condizioni estremamente contingenti, oltre a partire da principî indiscutibili – non è tale perché snatura la vita, ma perché snatura la morte (in quanto parte terminale della vita). Non esistono linee guida per stabilire aprioristicamente e nettamente quando e dove si dà il limite dell’accanimento. La verità cammina in equilibrio su una corda alla cui destra si cade nell’accanimento terapeutico, e alla cui sinistra sta spalancato il baratro dell’eutanasia: fare tutto il possibile ma evitare tutto il dannoso e l’inutile. Una forma eutanasica subentra a una giusta sospensione delle terapie inutili e dannose non appena il decesso è da ascriversi direttamente e perlopiù alla sospensione delle terapie.

Una legge sul fine vita non può pretendersi esaustiva – è grande l’imbarazzo dei medici quando leggono di giuristi che parlano di “accertamento” in merito a uno stato più grave di quello vegetativo e un pelo sopra il livello della morte cerebrale –, ma soltanto (ed umilmente) utile a delineare dei limiti necessarî al vivere comune nel rispetto della dignità della persona paziente. Sempre. Se questo ddl evita la deriva eutanasica – e la evita – tuttavia solo una cultura della vita, capillarmente diffusa nelle agenzie educative, potrà renderlo veramente e pienamente fruttuoso. E questo non si farà estemporaneamente; non senza investire a fondo nella fondazione di una cultura della vita.

 

 

 

 

 

 

Nota: In Spagna l’introduzione del Testamento Biologico risale al 2002: ogni maggiorenne può firmarne uno, ed esso risulta vincolante. In Inghilterra la sospensione può avvenire soltanto per il criterio del “maggior interesse del paziente” e del “rifiuto delle cure precedentemente espresso”. In Germania la legge risale al 2009, e nell’ordinamento tedesco entra in gioco anche la figura del tutore, che interloquisce col medico in vece del paziente. Nei Paesi Bassi e in Svizzera sono legali eutanasia e suicidio assistito – la legge elvetica garantisce addirittura il “diritto” anche per gli stranieri (di fatto anche degli Italiani si recano a morire lì).

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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