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Il mondo è una bottega

“Regalo capitalista” o “regalo equo e solidale”?

Le cerimonie dei matrimoni, diciamolo, spesso sono dei veri corsi di sopravvivenza. L’orario in cui viene celebrato, generalmente in estate, coincide sempre con il picco di caldo registrato in quel giorno. La durata e la lentezza della cerimonia, compresi i ritardi, superano spesso quelle di “Lezioni di piano” e “La mia Africa”  nella stessa sera. Arrivi al ristorante ­– generalmente in un posto diametralmente opposto a quello della Chiesa –, ti siedi al tavolo, e per un’ora aspetti gli sposi ché stanno facendo quelle 1000 foto – proprio ora – prima di pranzo. Tamponando il sudore cominci a leggere il menù, ripetendo ad intervalli regolari: “Che belli, i segnaposto!”. Comunque questo non è un articolo sui matrimoni, veniamo a bomba. La bomba è la bomboniera; facile gioco di parole, lo so. Quando stai per salutare gli sposi e sei ad un passo dall’agognato bonbon di commiato, la sposa – generalmente – esordisce così: «Sai, non abbiamo fatto la bomboniera classica, quei soliti oggettini d’argento o in porcellana inutili. Abbiamo pensato ad “un oggettino equo e solidale”, così almeno facciamo del bene a “qualcuno”». In genere, quando questo si verifica, me ne vado sempre con questa domanda: «Perché  – se volevi fare del bene a qualcuno – non hai scelto un “parrucchiere/vestito/viaggio di nozze/regalo/fioraio/fuochi d’artificio/etc...” equo e solidale? Perché, proprio e solo quando dovresti omaggiare l’ospite, ti sei ricordato di voler fare del bene a “qualcuno”?».

E così ti riporti a casa quell’“oggettino equo e solidale” che evoca posti lontani ma problemi vicini, se hai una buona sensibilità. Te lo riporti come l’“oggetto intruso” di quel matrimonio, tra le tue mani: mani nelle quali hanno consegnato la “responsabilità” di rimediare ad uno sfarzo e ad una futilità dei quali eri solo spettatore.

Si avvicina Natale, e crisi non crisi, torniamo a bomba: i regali. Hai appuntamento con amici per gli auguri e il solito scambio di doni, e ci risiamo. Scendono dal SUV, hanno prenotato nel ristorante dove con meno di 70 euro non te la cavi, sono “griffati” e per Capodanno hanno prenotato la “settimana bianca” o la spiaggia esotica. Queste cose non sono un male in sé, fino a quando – però – gli amici riconsegnano nelle tue mani la “responsabilità” del regalo impacchettato in carta grezza con spago di rafia, dicendo: «Questo Natale abbiamo pensato ad una cosa semplice, originale, e almeno aiutiamo “qualcuno”». E così ritorni a casa, e metti sotto l’albero un oggettino con il quale hai aiutato “qualcuno”, magari cercando spazio tra una maglia di cachemire e un foulard di seta, con i quali – secondo me – aiuti lo stesso qualcuno, come quando acquisti una “bomboniera capitalista”: chi lavora nelle fabbriche dove sono prodotti e nei negozi dove sono venduti, per esempio.

Considerazioni spicciole, di vita quotidiana, solo per dire che – se «pecunia non olet» – è solo lo stile di vita a profumare. Non è l’uso del denaro che determina lo stile di vita, quanto è lo stile di vita che qualifica il nostro uso del denaro. Nell’ultimo Angelus, Benedetto XVI ha invitato i cristiani a «scegliere la sobrietà come stile di vita», specialmente in preparazione della festa di Natale, facendolo, però, sempre insieme ad «una verifica sincera sulla propria vita». Ecco, allora, che “il regalo equo e solidale” o “il regalo capitalista” non sono un bene o un male in sé, ma sono un bene o un male nella proporzione in cui rappresentano lo stile di vita di chi li regala; il “regalo equo e solidale” è un bene non come “opzione regalo”, ma come scelta economica integrata ad uno stile di vita sobrio del quale sia, contemporaneamente, il presupposto e l’esito.

Il commercio Equo e Solidale, innanzitutto, ha una specifica dignità che viene dalla sua storia. Nel 1959, in Olanda, un gruppo di giovani membri di un’associazione politica cattolica della città di Kerkrade, impressionati dalle notizie di povertà e fame provenienti dalla Sicilia, fondano l’associazione “SOS Wereldhandel” e avviano una campagna per reperire latte in polvere da inviare nell’isola italiana. Questa è la prima di una serie di iniziative che vedono l’associazione impegnata nella raccolta di fondi per progetti di auto sviluppo e di sostegno alle popolazioni indigenti: il loro slogan diventerà «Trade Not Aid» (Commercio, non aiuto) con cui si sottolinea l’intenzione di stabilire relazioni economiche con il Sud del Mondo, invece di far tornare una piccola parte di benefici, ottenuti dal Nord, sotto forma di aiuti. Nel 1967 “SOS Wereldhandel” diviene la prima organizzazione olandese di importazione (Fair Trade Organisatie) e, nel 1969, da questa esperienza nasce – nella piccola città olandese di Breukelen – la prima “Bottega del Mondo” (World Shops) che, in appena due anni, raggiungeranno il numero di 120. L’idea delle “Botteghe del Mondo” prende rapidamente piede anche in Germania, Svizzera, Austria, Francia, Svezia, Gran Bretagna e, più tardi, anche in Italia. La prima vera esperienza italiana è quella che fa capo alla “Coop Sir John Ltd”, attiva dal 1976 a Morbegno – in provincia di Sondrio, che nel 1979 avviò la vendita di prodotti artigianali in juta del Bangladesh. Oggi la Carta Italiana dei Criteri del Commercio Equo e solidale (Chioggia, aprile 2005) è il documento ufficiale che definisce i principi e i valori condivisi da tutte le organizzazioni di Commercio Equo e Solidale (CEeS) italiane, e, primo fra tutti, la centralità delle “Botteghe del Mondo”.

Le “Botteghe del Mondo” non si costituiscono solo come punti di vendita, ma come associazioni motivate e attive nella diffusione di una nuova consapevolezza nei consumatori. La Bottega del Mondo, da sempre, è stata pensata come «spazio pubblico in cui esercitare il proprio diritto ad essere cittadini, come strumento di aggregazione immerso nel tessuto urbano e come luogo fisico di contatto tra Nord e Sud del mondo». Nella Bottega del Mondo, «laboratorio di pace e di autosviluppo, di sobrietà dei consumi e di condivisione, si impara ad essere cittadini del mondo, democratici e solidali, e a contribuire al cambiamento concreto delle relazioni favorendo il lavoro “in rete”». Il Commercio Equo e Solidale, in sintesi, non è un’“opzione regalo” ma un “laboratorio di sobrietà dei consumi”, l’esito economico ­– possibile, non necessario – di uno stile di vita nel quale è in grande  considerazione il bene comune.

Quel “bene comune” che, ci insegna la dottrina sociale della Chiesa, dovrebbe essere il principio e la fine di tutta la vita economica oltre la distinzione tra profit e non profit, perché non è lo strumento a fare la differenza quanto le scelte dell’uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale. Come si legge nella Caritas in Veritate, «la sfera economica non è di sua natura disumana e antisociale ma non è neanche eticamente neutrale», perchè appartiene all’attività dell’uomo e, quindi, ogni decisione economica non può non avere anche conseguenze di carattere morale. È bene che le persone si rendano conto che acquistare è sempre un atto morale, oltre che economico. C’è dunque una precisa responsabilità sociale del consumatore, che si accompagna alla responsabilità sociale dell’impresa. I consumatori vanno continuamente educati al ruolo che quotidianamente esercitano e che essi possono svolgere nel rispetto dei principi morali, senza sminuirne la razionalità economica intrinseca nell’atto dell’acquisto». (Lett. Enc. Caritas in Veritate, nn. 36-37-66)

In un momento di crisi, come quello che stiamo vivendo, i paventati sacrifici inevitabilmente ridurranno il nostro potere d’acquisto e imporranno di consumare con maggiore sobrietà. Meglio sarebbe educarsi a fare della sobrietà uno stile di vita, per cui fare del bene a “qualcuno” non significhi entrare –­ ogni tanto – in una “Bottega del mondo”, quanto pensare al Mondo come una Bottega che produca «lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini». (Lett. Enc. Populorum Progressio, n.42)

È lo stile di vita che cambia il mondo: «Yes, We can are!».