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Una Repubblica af-fondata sulle tasse

Crisi finanziaria e fiscalismo, tra la Scilla della recessione e la Cariddi dello Stato servile

Anche dinanzi all’emergenza di una drammatica crisi economica internazionale, forse addirittura una nuova forma di conflitto condotto con altri mezzi, come da inveterata prassi in Italia si profila una manovra finanziaria “lacrime e sangue” centrata più sull’inasprimento della politica fiscale che sul contenimento della spesa pubblica.

Per  comprendere come si sia giunti a questo punto di non ritorno in verità occorre riflettere anche sulla peculiarità – certo non virtuosa – del modello italiano di tassazione che, come ha fatto osservare il sociologo Luca Ricolfi nel suo recente libro La Repubblica delle tasse. Perché l’Italia non cresce più (Rizzoli, 2011), non consiste solo in una imponente pressione fiscale complessiva, ma nella sua coesistenza con un’elevata tassazione su imprese e partite IVA, vale a dire i centri produttori di ricchezza. Nel periodo 1995-2007 sia la pressione fiscale complessiva che quella sulle imprese si sono entrambe attestate sopra il 40%, tanto da collocare l’Italia agli ultimissimi posti tra le economie avanzate per crescita del Pil pro capite (1,3% all’anno, in nessun paese avanzato, salvo il Giappone, l’aumento si è rivelato tanto lento).

Fino al decennio 1950-1960, nel periodo del “centrismo”, i governi sostanzialmente si attengono al principio del pareggio di bilancio contenuto nell’ultimo comma dell’articolo 81 della Costituzione: «Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». Decisiva è la svolta occorsa all’inizio degli anni Sessanta, stagione dell’“apertura a sinistra” da parte della Democrazia Cristiana. Con l’avvento del “centro sinistra” si impone la nuova filosofia del ricorso indiscriminato al deficit spending. La conseguente, progressiva crescita della spada di Damocle del disavanzo pubblico genera un’autentica superimposta a “scoppio ritardato” destinata a gravare sui contribuenti futuri. Negli anni che vanno dal 1960 al 1993 la spesa pubblica lievita in Italia da 7.588 a 917.373 miliardi di lire, con un incremento reale del 570% della spesa pro capite (Cfr. A. Martino, Noi e il fisco, Ed. Studio Tesi, 1987, pp. 29-32; Id., Lo Stato padrone, Sperling & Kupfer, 1997, pp. 23-26). Tuttavia la “grande trasformazione fiscale” in peius dei nostri conti pubblici si consuma essenzialmente tra il 1985 e il 1995. Nel 1993 la pressione del fisco arriva a sfiorare il 43%, quando otto anni prima, nel 1985, si attestava ancora sotto il 35%. Nello stesso periodo il rapporto tra debito pubblico e Pil schizza dal 60% del 1982 al 120% del 1994. «È questo modello di tassazione, peculiare dell’Italia e unico fra i paesi avanzati – chiosa Ricolfi – che ha inflitto al nostro Paese prima il rallentamento, poi il ristagno e infine il declino cui oggi assistiamo» (La Repubblica delle tasse, cit., p. 9).

Oltre il pauperismo: ricchezza e dignità umana

A destare inquietudine non è unicamente l’affacciarsi del rischio concreto e palpabile di un diffuso impoverimento del nostro paese. Nella simultanea compresenza di un’occlusione della produzione di ricchezza e di un massiccio sfruttamento fiscale si annida minacciosa l’ombra di quello “Stato servile” – dall’accezione latina di servus, cioè “schiavo” – efficacemente descritto dallo scrittore cattolico anglo-francese Hilaire Belloc (1870-1953).

Belloc è stato in grado di fornirci le coordinate indispensabili per permetterci di scansare senza indugi il dogma pauperistico, tanto seducente in teoria quanto nefasto nella pratica, per il quale «la ricchezza è nociva e va estromessa dalla società» (E. Durkheim, Le socialisme, Puf, 1992 (ed. or. 1928), p. 64). Incorreremmo infatti in un abbaglio accecante nel considerare la ricchezza come il prodotto dello spirito di avarizia, tipica caratteristica, questa, di un animo senile angosciato e convulso, volto unicamente a conservare e ad assicurare se stesso.

L’avarizia è la «passione disordinata di avere le ricchezze» (Summa theologiae, II-II, q. 118, a. 2) originata dallo «smisurato desiderio di ogni “avere”, mediante i quali averi l’uomo crede di potersi assicurare la propria grandezza ed il proprio valore (altitudo, sublimitas)» (J. Pieper, La prudenza, Morcelliana, 1999, p. 48).

Ricchezza è invece «tutto ciò che, attraverso un processo di trasformazione, è stato reso consapevolmente e intelligentemente reso più asservibile ai bisogni umani. Senza ricchezza l’uomo non può esistere. La produzione di ricchezza è per lui una necessità, e, sebbene si parta da ciò che è più necessario per arrivare a ciò che lo è di meno, persino a quelle» (H. Belloc, Lo Stato servile, Liberlibri, 1993, p. 7). La produzione di ricchezza, osserva Belloc, non scaturisce dallo smodata bramosia di averi, vale a dire da una disordinata deviazione degli appetiti, ma deriva da una sana applicazione creativa delle energie umane, tanto morali quanto fisiche (lavoro), alle risorse naturali e alla materia circostante che queste risorse contiene (terra). L’attività trasformatrice della natura esprime la partecipazione dell’essere umano all’ineffabile danza celeste del Dio “poietes“, al tempo stesso creatore e poeta, il Deus ludens plasmatore del mondo (cfr. H. Rahner, L’homo ludens, Paideia, 1969, p. 64).

L’uomo capace di ricavare un frutteto là dove prima vi era solo un campo incolto, nota acutamente Chesterton, implicitamente compie un gesto dal significato assai più grande e profondo del semplice desiderio di procurarsi delle mele per la tavola. In questo modo «egli impone la propria volontà al mondo alla maniera dello statuto conferitogli dalla volontà di Dio; afferma che l’anima è di sua proprietà e non appartiene al Dipartimento per il Controllo dei Frutteti o al principale Consorzio del Commercio delle Mele» (G.K. Chesterton, Sex and Property, in The Well and the Shallows, Ignatius Press, 2006 (ed. or. 1935), p. 172). Alla base della lucida intuizione di Chesterton si trova la convinzione che il lavoro umano e l’amore per la terra contengano un elogio della fecondità, l’esatto opposto dello sterile spirito di autoconservazione senile dell’avaro. L’uomo attinge così a un grande processo generativo, eleva un inno alla perenne ri-creazione del mondo, afferma la derivazione della dignità umana dalla partecipazione reale all’Essere divino, non a qualche sostanza universale (Stato, Stirpe o Classe).

Per lo Stato servile, insiste ancora Belloc, «controllare la produzione di ricchezza significa, quindi, controllare la stessa vita umana. Negando all’uomo l’opportunità di produrre ricchezza  gli si nega l’opportunità di vivere, e, generalmente, i cittadini esistono legalmente solo nella misura in cui la legge consente la produzione di ricchezza» (Lo Stato servile, cit., ibid.).

Negare alla persona la possibilità di esercitare la propria capacità produttiva equivale ad impedire l‘accumulo di riserve. È il sogno cullato da ogni vagheggiatore di palingenesi utopiche: una società livellata, senza più spessore e profondità dei corpi sociali, ormai resi “liquidi”, non è in grado di opporre alcuna residua resistenza e può agevolmente essere plasmata con precisione ed efficienza secondo i disegni “razionali” dei detentori di un potere assoluto e senza confini. È in questa confusione di riserva e inutilità, in una parola nella fobia dello spessore, che Gustave Thibon ha visto la cifra di ogni utopia collettivistica (cfr. G. Thibon, Diagnosi, Effedieffe, 1998, p. 23).

La legge bronzea dell’imposta

Vittorio Mathieu, in un’opera di cui oggi possiamo meglio vagliare la valenza profetica (Cancro in Occidente. Le rovine del giacobinismo, Editoriale Nuova, 1980), ha esteso e sviluppato le intuizioni di Belloc sullo “Stato servile”. Mathieu evidenzia come in Occidente aleggi ancora sul pubblico potere il fantasma dello Stato giacobino imperniato sul primato della rousseauiana Volontà generale, una traduzione in campo politico del panteismo spinoziano. È lo Stato affetto dal cancro del giacobinismo, l’idea impazzita secondo cui solo l’universale può volere, ovvero che legittimamente autorizzato ad agire e modellare la realtà secondo le mire dell’ideologia à la page sia unicamente ciò che assume forma universale (il Collettivo, lo Stato, il Partito).
La virtù, l’ideale etico del giacobinismo, coincide con l’agire dell’universale. All’agire individuale – reputato criminale per principio, non perché voglia necessariamente il male, ma in quanto volere di un io individuale e non del Tutto – è precluso ogni diritto di proporsi come centro d’iniziativa o origine dell’azione. L’individuo ha titolo ad agire unicamente come strumento della Volontà universale. Secondo Mathieu questo ideale, non proclamato apertis verbis ma assunto come principio regolativo, in uno Stato che voglia esercitare ogni facoltà di volere senza tuttavia essere politicamente totalitario si traduce in una politica fiscale tendente ad assorbire tutte le risorse libere della nazione. Al suo interno si impone quindi una legge bronzea dell’imposta analoga alla legge bronzea del salario formulata dal Lassalle: «Al privato dev’essere lasciato solo il minimo necessario ai suoi consumi, in modo che non possa formarsi presso di lui nessuna energia economica potenziale» (Cancro in occidente, cit., p. 112). Non si tratta dunque di eguaglianza, ma di non lasciare alcuna riserva di energia potenziale in mano privata. Ai singoli va lasciato quel tanto (o quel poco) di possesso necessario perché sussistano e producano, senza però che progettino il loro produrre se non all’interno della cornice di un piano, stabilito dalla Volontà generale.

L’evasore come capro espiatorio

Da questa temperie sorge il mito negativo dell’evasore come causa omnis mali, sentina d’ogni nequizia la cui individuazione, assurta a suprema missione morale, può giungere al punto di elevare la delazione a dovere civico. Questa ossessiva ricerca di un capro espiatorio, di un “nemico del popolo” da gettare in pasto all’opinione pubblica non a caso ha un precedente nella giacobina “legge dei sospetti”.

È significativo che alcuni anni fa, esibendo così un’inusuale quanto beffarda vena umoristica, un ministro dell’Economia sia arrivato a rimproverare agli evasori la violazione del settimo comandamento (in altre circostanze l’evocazione della morale dei comandamenti da parte di un ministro della Repubblica sarebbe stata considerata un grave vulnus alla “laicità” dello Stato).

Dimostrando grande onestà intellettuale, o forse solo semplice buon senso, il già menzionato Ricolfi ha sottolineato invece la natura sintomatica dell’evasione fiscale, non senza aver preso le distanze dal clima da “caccia alle streghe” scatenatosi intorno alla figura dell’evasore. Esistono infatti almeno due differenti e inassimilabili tipi di evasione: la prima è praticata da chi, molto prosaicamente, potrebbe pagare le tasse ma desidera guadagnare di più. Anche contro questo tipo di evasione si rivela però una vana battaglia quella condotta unicamente con le armi spuntate della repressione e dei controlli. Un’azione efficace necessita la contemporanea adozione di aliquote fiscali ragionevoli. In caso contrario l’effetto conseguito sarà prevalentemente un nefasto – per i consumi e l’economia – aumento dei prezzi.

Ma esiste anche un secondo tipo di evasione, di sopravvivenza o di autodifesa: «È l’evasione di quanti, se facessero interamente il loro dovere fiscale, andrebbero in perdita o dovrebbero lavorare a condizioni così poco remunerative da rendere preferibile chiudere l’attività» (La Repubblica delle tasse, cit., p. 31). In questo secondo caso l’unica soluzione sta in una drastica riduzione delle aliquote, la “lotta all’evasione” producendo unicamente la sistematica distruzione di posti di lavoro.

Il giudizio del magistero pontificio sull’eccessivo fiscalismo

Il rischio di un processo di degenerazione della comunità politica che la conduca a imporsi, per fagocitarle, alle altre società naturali (società familiare e civile) e la conseguente persecuzione fiscale nei confronti dei “cittadini-sudditi” è stato rimarcato in più d’una occasione anche dal magistero pontificio («La Chiesa deve intervenire in politica», ha scritto Nicolás Gómez Dávila, «però senza programma politico». Escolios a un texto implicito, II, 494). La comunità politica è una società naturale al pari delle altre due, alle quali è contemporanea (ovvero non viene dopo, ma con esse). Ma qualora lo Stato non riconosca il fine e l’ordine delle prime due società naturali finisce per assorbirle venendo così meno al proprio compito, quello di essere «garanzia della loro esistenza ordinata al proprio fine» (D. Castellano, L’ordine della politica, ESI, 1997, p. 31).

Pio XII, dopo aver affermato che «nessun dubbio sussiste sul dovere di ciascun cittadino a sopportare una parte del gravame delle spese pubbliche», ricorda che «lo Stato, dal canto suo, in quanto incaricato di proteggere e di promuovere il bene comune dei cittadini, ha l’obbligo di non distribuire tra questi che gli oneri necessari e proporzionalmente alle loro risorse. L’imposta – prosegue il Papa – non può quindi divenire mai per i pubblici poteri un mezzo comodo per colmare l’ammanco cagionato da un’amministrazione imprevidente, per favorire un’industria o una branca di commercio a svantaggio di un’altra egualmente utile. Lo Stato dovrà astenersi da qualsiasi spreco del denaro pubblico. […] Spesso le imposte troppo onerose opprimono l’iniziativa privata, frenano lo sviluppo dell’industria e del commercio, scoraggiano le buone volontà» (Allocuzione al Congresso dell’Associazione fiscale internazionale, 2 ottobre 1956, in Insegnamenti pontifici, vol. VI, La pace interna della delle nazioni, n. 1242). Papa Pacelli riconosce che «i bisogni finanziari di ogni nazione, grande o piccola, sono formidabilmente aumentati» e la causa non è da ricercarsi solo nelle «isolate complicazioni o tensioni internazionali» ma «anche, e più ancora forse, nell’estensione smisurata dell’attività dello Stato, dettata troppo spesso da ideologie false o malsane, che fa della politica finanziaria, particolarmente della politica fiscale, uno strumento al servizio delle preoccupazioni di un ordine affatto diverso» (Allocuzione al Congresso delle pubbliche finanze, 2 ottobre 1948, in Insegnamenti pontifici, cit., n. 1027).

Il magistero pacellliano troverà un’eco in Giovanni Paolo II. Trattando dello «Stato del benessere» o «Stato assistenziale», il Papa polacco osserverà che «intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme crescita delle spese» (Centesimus annus, 1 maggio 1995, n. 48).

L’alleviamento, strutturale e non episodico, della pressione fiscale almeno sulle forze produttive del paese è un nodo che non può più essere eluso. «Può darsi che, per il momento, non sia possibile evitare un aumento della pressione fiscale complessiva, e che nel riequilibrio dei nostri conti un ruolo di rilievo debba essere riservato alla «lotta all’evasione fiscale». Ma nessuna manovra potrà mai consentirci di tornare a crescere se, al suo interno, non prevede che una parte significativa delle risorse recuperare vada a sostenere quanti, a dispetto di tutto e tutti, cercano ancora di stare sul mercato e di produrre ricchezza». (L. Ricolfi, La Repubblica delle tasse, cit., p. 25)

Andreas Hofer
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