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In hoc signo

1700 anni dalla battaglia di Ponte Milvio: a partire da un Convegno in Vaticano

«Uno spettro si aggira per l’Europa…». Sì, e stavolta non pare essere lo spettro del comunismo, come volevano Marx ed Engels; e neppure quello di Marx, come voleva Derrida. Lo spettro è uno di quelli che aleggiano più o meno sempre, ma che ciclicamente tornano a farsi sentire più decisamente: millesettecento anni fa Costantino sconfiggeva Massenzio nella battaglia di Ponte Milvio. A questo evento si fa risalire, sulla traccia del racconto di Eusebio, l’apparizione della croce al futuro imperatore e la locuzione “in hoc signo vinces” [“con questo segno vincerai”]. Pochi anni dopo il Popolo e il Senato Romano gli avrebbero dedicato l’imponente arco di trionfo che campeggia a tutt’oggi all’ombra del Colosseo.

«All’imperatore Cesare Flavio Costantino Massimo, Pio, Felice, Augusto, il Senato e il popolo romano, poiché per ispirazione della divinità e per la grandezza del suo spirito con il suo esercito vendicò con giuste armi lo Stato contro un tiranno e ad un tempo contro tutta la sua fazione, dedicarono questo arco insigne per trionfi». Così il testo inciso nel marmo dell’Arco. A che cosa si riferiscono parole tanto chiare eppure anche tanto ermetiche, dedicate a Costantino da un Senato ancora in larga parte composto da pagani? Qual è la divinitas per il cui instinctus Costantino avrebbe agito? I senatori avevano già saputo della visione che l’Imperatore aveva avuto? Se sì, vi avevano creduto? E come avevano potuto accettare che uno che arrivava in trionfo a Roma non si recasse subito (né più tardi) al Campidoglio a sacrificare agli dèi? E perché quest’uomo, in un qualche modo senza dubbio fortemente religioso, non s’è fatto battezzare che in punto di morte? E come mai, ancora, un simile uomo si sarebbe arrogato il diritto di convocare concilî, inventarne di ecumenici, deporre vescovi e prendere parte a difficili discussioni teologiche? Com’è possibile, infine, che quest’“uomo grande” – “vir ingens”, lo definirà Eutropio nel suo Breviarium – si sia macchiato di crimini efferati a ripetizione, perfino contro il proprio stesso sangue?

Questo è lo spettro che si aggira per l’Europa, di secolo in secolo, mano a mano che si ripropongono gli anniversarî della sua folgorante carriera e dalla sua memorabile vita. Naturale: la storiografia s’è da sempre divisa su di lui, come su un autentico santo o un cinico tiranno. Quella dell’autenticità della sua conversione è una questione tutta moderna, essendosi gli antichi perlopiù divisi sulla valutazione da riconoscere alla cosiddetta donatio Constantini – uno dei più colossali falsi della storia, ma dagli effetti solidissimi. All’alba della modernità, invece, l’elaborazione di questa prima critica (ne rappresentò un momento anche lo stesso cattolicissimo Dante!) si travasò nel catino dell’affetto antiromano scaturito dalla Riforma luterana: in Costantino vennero allora individuati (per la prima volta, ma con un effetto destinato a ripercuotersi in certa storiografia fino ad oggi) gli elementi decisivi del cosiddetto “Frühkatholizismus”, ovvero del virus imperiale che avrebbe trasformato il cristianesimo di Gesù e degli apostoli nel cattolicesimo del Papa e dei vescovi.

Storiografia in fin dei conti sbilenca, specie quando – in contrasto con questo assunto – cerca di recuperare alla figura di Costantino un tot di credibilità e di simpatia, asserendo ad esempio che l’Imperatore avrebbe abbandonato sdegnosamente Roma, «con i suoi cunicoli» (così Evelyn Waugh in Helena), per trasferirsi gaiamente a Costantinopoli. Certo, Costantino aveva fondato una nuova città pensata per essere la seconda Roma (e di questo i canoni dei concilî e lo stesso nome “Istambul” dànno atto), ma proprio questo impediva a chicchessia di dimenticare la prima. In realtà, Costantinopoli non fu che una piccola cittadina perlomeno fino all’età teodosiana, ossia fino alla fine del IV secolo. Non fu solo questa, tuttavia, la causa dell’insistenza di Costantino su Roma – in fondo scese da Treviri apposta per marciare contro uno (Massenzio) che non era, di per sé, più legittimato di lui ad aspirare al trono (anzi, sulla carta sarebbero stati entrambi fuori gioco). C’è che il potere cui Costantino mirava giungeva a poco a poco nelle sue mani, fratturato dal mal riuscito esperimento della “tetrarchia” (che Diocleziano aveva escogitato per provare ad arrestare la crisi politico-istituzionale in corso): la Roma cui egli ambiva non era solo la sede storica dei Cesari, ma anche il baluardo teologico dell’unicità di Dio contro le tendenze che si dilungavano così diffusamente sul mistero trinitario da perdersi nel triteismo. «Monarchiam tenemus» [= «Conserviamo la monarchia (divina)»], avevano fermamente ribadito lungo tutto il III secolo Papi come Callisto.

Dall’assunto dell’interesse a consolidare la monarchia dell’imperium, non pochi si sono spinti a individuare in aree politiche le ragioni del tardivo avvicinamento dell’Imperatore all’arianesimo, ma questo ci porterebbe fuori tema. Uno spettro – quello di Costantino – si aggira per l’Europa, ed è ugualmente vero per questo spettro ciò che Marx ed Engels dichiararono del comunismo: «Tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa caccia spietata a questo spettro». Così una delle associazioni che più a ragione si fa alfiere di quest’Europa vecchia, l’UAAR, ha salutato l’avvio del convegno internazionale di studio “Costantino il Grande, alle radici dell’Europa, con queste parole: «Nella certosina opera di riscrittura orwelliana della storia da parte della Chiesa cattolica, nel nome del pontificato di Benedetto XVI, non poteva mancare l’elogio all’imperatore Costantino. […] L’occasione per omaggiarne la figura sono i 1700 anni dalla battaglia di Ponte Milvio, allora nei pressi di Roma, quando nel 312 sconfisse Massenzio. Momento che fa iniziare la “svolta costantiniana”, con la fine delle persecuzioni contro i cristiani».

In sintesi: la storiografia cattolica si attesterebbe sui livelli di acribia storiografica de La fattoria degli animali; il Convegno non sarebbe potuto riuscire che in un panegirico dei bei tempi andati; la “svolta costantiniana” segnerebbe la fine delle persecuzioni contro i cristiani. C’è di che sperare che i luminari dell’UAAR si siano degnati di presenziare alle sessioni del Convegno (l’accesso era libero e gratuito, e nessuno chiedeva il certificato di battesimo, all’ingresso!): avrebbero potuto ascoltare specialisti del tardo-antico del calibro di Dal Covolo, Vian, Bonamente, Rizzi e Di Berardino dall’Italia; Tudorie dalla Romania, Wallraff dalla Svizzera, la Palma Digeser e Lenski dagli Stati Uniti, Bleckmann dalla Germania e molti altri. Non solo: li avrebbero ascoltati illustrare pazientemente i risvolti problematici della figura e del regno di Costantino; li avrebbero sentiti illustrare senza fretta gli anodini tentennamenti di formule teologiche ambigue, monete coniate qua e là contemporaneamente con e senza segni cristiani, il tutto sempre in ascolto critico delle fonti storiografiche a nostra disposizione. Avrebbero infine scoperto che nessuno di quegli studiosi ha mai inteso che le persecuzioni contro i cristiani sarebbero terminate nel 312, sapendo bene ognuno di essi che la persecuzione del 304 fu, sì, generalizzata, ma con varia intensità, e che solo Galerio continuò a perseguitare fino alla fine. Le restituzioni dei beni ecclesiastici confiscati, poi, divennero massicce con Costantino, ma si trattava di misure prese – con un lustro d’anticipo – già da Massenzio (e proprio da lui!). Un’attenta analisi dei periodi e delle politiche che hanno condotto l’impero ai primi decennî del IV secolo devono ammettere che già prima di Costantino i cristiani avevano conosciuto “prove tecniche di tolleranza” (più d’una!), e che anche qui la lungimiranza di Costantino non aveva fatto che inserire il cristianesimo (per intimo convincimento? Chi può escluderlo?) nello schema teologico-politico romano, che mirava semplicemente a impetrare alla civitas hominum la pax deorum.

È proprio vecchia, l’Europa, se non sa riscoprire l’ethos profondo di quella pietà che cerca istintivamente il legame tra le due città di agostiniana memoria (non si vuole con ciò intendere che il modello teologico-politico debba necessariamente essere quello agostiniano). Così un uomo come il Sovrintendente ai Beni Culturali del comune di Roma, può scrivere una lettera aperta all’Europa in questi termini: «E quando giriamo nelle tue città da turisti, visitiamo i tuoi musei, pieni di opere d’arte volute da uomini di chiesa. Chiamavano presso di sé gli artisti. Magari peccatori, spesso dissoluti, come Caravaggio. E chiedevano loro di dipingere la fede. Loro, gli artisti, ci provavano e ci riuscivano dichiarandosi laici, andando poi a spendere in osterie e case di malaffare la ricompensa per un quadro. Ma ci riuscivano: evidentemente quello spirito ideale era in loro, anche nelle osterie e nelle case di malaffare».

A Broccoli sembrerà di concedere molto alla cultura europea, riconoscendone un vigoroso nerbo religioso: probabilmente però ci si può ancora chiedere se la distanza tra i monaci e i curiosi, tra i pellegrini e i turisti, non sia già di per sé la distanza tra la vita e la morte dell’Europa. La questione, in effetti, ristagna continuamente nel dilemma della visione di Costantino: che significa “in hoc signo vinces”? Significa la croce di Cristo? E che significato ha la croce di Cristo? Umberto Broccoli prova a formulare (nella medesima lettera) questa risposta: «Duemila anni fa, il mondo fece a gara per chiedere quella crocifissione e di mettere quella croce in alto, ben visibile, come segno di una punizione umana a chi si credeva figlio di dio, e oggi si fa di tutto per riportare quella croce in basso, lontano dagli occhi di chi potrebbe ricordare quell’uomo morto per un’ idea, per vedere un mondo migliore, costruito sull’uguaglianza e sul amore per il prossimo».

Dispiace dirlo, perché bisogna pur prendere atto del buon anelito del Sovrintendente, ma ritenere che il crocifisso sia “morto per un’idea” non ci avvicina alla verità di Cristo – se quanto di lui ci è riportato deve valere qualcosa – non più di quanto ci si avvicinino quelli dell’UAAR. Dato che poi l’Europa è davvero ciò che è principalmente perché la sua spina dorsale è cruciforme, la pigra scoliosi che da tre secoli si sta acquistando porta invariabilmente alla putrefazione del suo meglio.

Ma quale fu quel segno che ha reso grandi Costantino e l’Europa?

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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