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Dipingere? Un fatto di stile o di fede?

Tra arte e Chiesa esiste ormai da tempo un divario che sembra incolmabile. Uno dei dibattiti a cui spesso si assiste riguarda anche l’importanza della fede cattolica per l’artista di opere sacre.

Isidoro di Pelusio, di origine alessandrina, era un padre del deserto a cui si attribuisce questo apoftegma: “una vita senza parola può giovare di più che la parola senza la vita: c’è chi tacendo edifica, c’è chi gridando disturba; ma se parola e vita convergono insieme, formano una sola immagine di ogni filosofia”. Isidoro di Pelusio evidentemente con questa espressione intendeva riferirsi a quanto importante fosse, nella vita di ogni cristiano, la coerenza anche o soprattutto da un punto di vista morale. L’uomo a cui si rivolgeva Isidoro non era certo diverso da quello contemporaneo; le epoche che fanno da cornice cambiano ma certe ipocrisie farisaiche, determinati comportamenti materialisti, i guizzi agnostici, sono spesso alcune tra le devianze verso le quali noi stessi cattolici possiamo provare una certa attrazione, considerandole particolarmente suggestive e, comunque, degne di essere “esplorate” anche solo per vivere, “al pari degli altri”, le novità che danno colore alla modernità contingente.
La coerenza per un cristiano diventa allora anche un modo per porre un limite all’ambiguità, soprattutto quando essa è strumentale ad una interpretazione della Parola svuotata da comportamenti morali “scomodi”, dogmi e quant’altro lo stesso Cristo, invece, ci invita a perseguire se vogliamo conquistare il Regno dei cieli: “se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Matteo 5,20).
Se usassimo un’immagine giuridica nel descrivere il nostro rapporto con Cristo, potremmo dire che mettersi in società con Lui implicherebbe non solo un sacrificio patrimoniale per investire nel Regno dei cieli, ma anche un impegno lavorativo diretto in questo “affare”. Fuori dalla metafora un cristiano è chiamato non solo a mostrare coerenza con Cristo attraverso la fede, ma anche una coerenza verso se stessi attraverso la messa in pratica della fede.
Dico tutto questo circa la coerenza della fede di un cristiano perché, leggendo le pagine dell’opera di Florenskij intitolata Iconostasi, mi sono imbattuto in un passo in cui il pensatore russo si interrogava sul ruolo dei pittori di fronte alla realizzazione di un’icona. Egli infatti soleva affermare: “Nel rapporto con il mondo spirituale la Chiesa, sempre viva e creativa, non cerca affatto di difendere le vecchie forme in quanto tali e non contrappone loro forme nuove in quanto tali. La concezione ecclesiastica dell’arte è stata, è e sarà una sola: il realismo. Ciò significa che la Chiesa, […], esige solo una cosa: la verità”. Ebbene in questo contesto, la figura dell’artista è particolarmente importante perché, per Florenskij, è chiamato a dare la “garanzia formale” che l’opera rappresentata, qualora abbia rispettato un “canone artistico universale già trovato e verificato dalla comunità”, sia vera. L’eventualità che l’artista possa non rispettare il canone artistico è un’ipotesi contemplata da Florenskij ma, in questo caso, l’opera è opportuno che venga sottoposta a verifica.
Florenskij, anticipando la questione alla base dell’attuale divario esistente tra l’arte e la Chiesa, osservava: “La ricerca da parte dei pittori moderni di un modello per dipingere le figure sacre è già di per sé prova del fatto che questi artisti non vedono distintamente l’immagine celeste da loro raffigurata: se la vedessero chiaramente, ogni immagine estranea, per di più di altro genere e di un altro mondo, sarebbe un impedimento e non un sostegno alla contemplazione spirituale”. Il problema è, in altri termini, insito proprio nel fatto che l’artista, secondo Florenskij, operi una commistione tra quella che è “la verità regolamentata” e ciò che è frutto della propria creatività. Il risultato, nell’ambito di una rappresentazione di un’opera sacra, è un’immagine non vera ma frutto di un ricordo lontano dell’artista.
La questione che allora merita qualche riflessione è proprio quella inerente la fede dell’artista sacro e quindi l’importanza di rendere coerente la sua fede con l’azione, ovvero l’opera d’arte realizzata. Quest’ultima diventerebbe, infatti, la testimonianza dell’esistenza della coerenza tra il pensiero e l’azione dell’artista.
La Chiesa, attraverso i documenti fondamentali del Concilio Vaticano II, partendo dal presupposto che non ha mai ostentato un particolare stile artistico che fosse identificativo della religione cattolica, ha riconosciuto in ogni epoca le manifestazioni di particolari forme artistiche come libere espressioni artistiche di questo o quel artista. L’articolo 123 della Costituzione sulla Sacra Scrittura Sacrosanctum Concilium a riguardo, però, è molto chiaro e stabilisce che “nel promuovere e favorire una autentica arte sacra, gli ordinari procurino di ricercare piuttosto una nobile bellezza che una mera sontuosità”.
Per tentare di comprendere cosa si intenda per “nobile bellezza”, possiamo servirci della Lettera agli artisti di Giovanni Paolo II il quale, prendendo spunto dal Libro della Genesi in cui si evince che l’uomo ha la libertà di essere artefice della sua stessa vita, conclude che l’essere umano, tutte le volte che agisce lo fa ispirato da un proprio senso di responsabilità che trae origine da specifiche sue virtù morali. Qualora, invece, lo stesso agisse nelle vesti di artista, il suo comportamento sarebbe guidato dalle specifiche esigenze artistiche e dai suoi particolari dettami.
L’artista, quando realizza un’opera, comunica a chi l’ammira le sue ”capacità operative” in fatto di messa in pratica, da un punto di vista estetico, di quanto aveva concepito mentalmente. Da un punto di vista denotativo il risultato materiale dell’espressione artistica può essere considerato, allora, il frutto di una mera messa in opera di questa o quella tecnica che l’artista ha acquisito con lo studio e l’esperienza. Esiste, però, un legame importante tra il risultato estetico dell’atto dell’artista (l’elemento che abbiamo definito denotativo) e quello più intimo che plasma il valore morale dell’artista e che potremmo indicare come elemento connotativo.
Giovanni Paolo II, a riguardo, afferma nella sua Lettera agli artisti, che “nel modellare un’opera, l’artista esprime di fatto se stesso a tal punto che la sua produzione costituisce un riflesso singolare del suo essere, di ciò che egli è e di come lo è. […]. L’artista, infatti, quando plasma un capolavoro, non soltanto chiama in vita la sua opera, ma per mezzo di essa, in un certo modo, svela anche la propria personalità. Nell’arte egli trova una dimensione nuova e uno straordinario canale d’espressione per la sua crescita spirituale. Attraverso le opere realizzate, l’artista parla e comunica con gli altri”.
Più sopra si parlava di fede dell’artista, in realtà è il caso di traslare la questione sul piano della moralità dell’artista. Egli, infatti, chiamato a realizzare un’opera sacra, deve essere attento affinché le sue opere non comunichino al fedele messaggi contrari al senso religioso vuoi perché formalmente discutibili, vuoi perché caratterizzate da un contenuto artistico difficilmente accettabile.
Purtroppo la mediocrità che alberga da tempo in molte chiese è anche frutto di una mancanza di applicazione delle sollecitazioni che è possibile leggere nella Costituzione sulla Sacra Scrittura Sacrosanctum Concilium. Essa, infatti, al numero 127, sottolinea quanto importante sia che “i vescovi, o direttamente o per mezzo di sacerdoti idonei che conoscono e amano l’arte, si prendano cura degli artisti, allo scopo di formarli allo spirito dell’arte sacra e della sacra liturgia”.
Il risultato che spesso viene a materializzarsi agli occhi dei fedeli è un vero e proprio scollamento tra una legge morale a cui la Chiesa vuole che si rifaccia l’artista e l’espressione dell’estro artistico spesso frutto di una mera interpretazione personale volta a glorificare essenzialmente l’ego dell’artista e non certo Dio.
La Chiesa è consapevole della diversa “gradazione” di vocazione insita in ogni artista, essa, però, “mentre determina l’ambito del suo servizio, indica i compiti che [l’artista] deve assumersi, il duro lavoro a cui deve sottostare, la responsabilità che deve affrontare”. Con queste parole, Giovanni Paolo II, nella già citata Lettera agli artisti, rimanda ad una “ ‘spiritualità’ del servizio artistico” a cui dovrebbe tendere l’artista al fine di attenuare, se non addirittura inibire, la “ricerca di gloria fatua”, o la “smania di una facile popolarità” o, ancora, la rincorsa “di un possibile profitto personale”.
Certo è che se l’artista avesse, oltre al dono della creatività artistica, anche il dono della conoscenza della fede, ne scaturirebbe dal suo incontro personale con Dio nel Signore Gesù Cristo, per il tramite dell’opera d’arte, la possibilità di comunicare ai fedeli la bellezza come fonte di bene e verità. Del resto come potrebbe essere altrimenti? È sufficiente pensare al capolavoro di cui è artefice Dio nel momento in cui, donandoci il suo immenso amore, ha voluto condividere con noi la nostra condizione di esseri umani attraverso Gesù Cristo: il solo “mediatore tra Dio e gli uomini” (1 Tm 2,5).
La questione della vocazione di un artista che deve realizzare un’opera sacra è oggi quanto mai dibattuta; del resto il secolarismo dei nostri giorni ha accentuato una diffusa indifferenza religiosa sollecitata da motivazioni ideologiche o di tipo più personale. La sensazione che si percepisce è di una diffusa incapacità della Chiesa odierna di manifestare al mondo l’esplosione di gioia che è la testimonianza più eclatante quando si hanno buone notizie da comunicare. Sembra che il primato della Parola non trovi più spazio dove “investire”. La conseguenza? Il mondo sembra possa fare anche a meno della Chiesa. L’arte contemporanea ha colto in pieno questa assenza della Chiesa nella società e si interroga sulla Sua funzione provocandola anche con espressioni artistiche blasfeme. La povertà iconografica nelle chiese è il riflesso di questo deserto spirituale.
Perché tra la Chiesa e gli artisti possa riaccendersi la bramosia di un incontro pieno di frutti, è importante che la Chiesa, così come amava dire Don Tonino Bello, riassapori il piacere di “fare compagnia al mondo. Come cristiani veri. Capaci, cioè, di discernere i valori, di motivare la vita, di progettare l’esistenza, di confrontarsi con le culture, di provocare fotosintesi esistenziali tra realtà e valori, di denunciare i meccanismi perversi del mondo, di collaborare nella costruzione della società, di portare nella sfera politica la carica di liberazione propria del Vangelo, di stare veramente dalla parte degli ultimi, di evangelizzare la cultura, il lavoro, il tempo libero”.
“Fare compagnia al mondo” vuol anche dire, per usare un’espressione di Benedetto XVI, riscoprire come la magnificenza di Dio non sia confinata nelle chiese, essa, al contrario, è “uscita allorché, nella crocifissione, si squarciò il velo del Tempio”; da quel momento essa dimora “laddove è Gesù Cristo, ossia nel cielo e nella Chiesa che si raduna con Cristo”.
Solo in questi termini l’arte sacra può divenire espressione della testimonianza di una Chiesa che, facendo nel mondo, sappia anche trasmettere la magnificenza di Dio, sappia cioè comunicare agli uomini una coerenza tra pensiero ed azione, tra fede ed opere. Solo così, inoltre, sarà forse possibile eliminare l’attuale scollamento a cui, invece, assistiamo tra arte e liturgia. L’arte, infatti, non può non affiancare la liturgia, che, dal canto suo, “ha il compito stringente di svelare e di far risuonare la glorificazione di Dio, la quale è nascosta nel cosmo. Tale è dunque la sua natura: trasporre il cosmo, spiritualizzarlo nel gesto dell’inno di lode, così redimendolo; umanizzare il mondo”.