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Lo Spirito soffia dove vuole … anche nei traduttori

La divina ispirazione nella traduzione biblica dei Settanta

Quindici giorni fa ci eravamo lasciati con una domanda cruciale, che può essere espressa in questi termini: se al testo biblico nella sua forma originaria è riconosciuta una divina ispirazione, quale valore può essere attribuito ad una traduzione dello stesso, traduzione che per di più si presenta in molti punti discordante rispetto al testo «originario» sul piano qualitativo e quantitativo? Abbiamo avuto modo di osservare alcune delle differenze che intercorrono tra il canone ebraico dell’AT e la versione realizzata nel III-II secolo a.C. dai leggendari settanta saggi per la comunità ebraica di Alessandria: libri aggiunti, libri eliminati, termini o espressioni modificate ora inconsapevolmente, a causa delle difficoltà di lettura e di resa della scrittura ebraica, ora consapevolmente, alla luce di attese escatologiche e messianiche (link). Scienziati e filologi moderni difficilmente accrediterebbero una traduzione così distante dal modello, se non come un testo nuovo ad esso ispirato, ma in sostanza diverso e originale. Eppure già Filone Alessandrino, ebreo ellenista vissuto a cavallo tra I a.C. e I d.C., protagonista di un movimento di integrazione tra cultura giudaica ed ellenistica, attestava la perfetta parità tra le due versioni della Bibbia, riconosciute da Ebrei e Greci come due testi «fratelli, anzi come uno solo», e riconosceva ai settanta traduttori i titoli di «ierofanti e profeti». Come abbiamo visto, l’atteggiamento degli Ebrei nei confronti della versione dei Settanta cambiò radicalmente a causa della loro ostilità al cristianesimo, che invece l’accolse come canone per l’AT, così che già nel I d.C. scomparve ogni menzione di questo testo nella letteratura giudaica.

Furono soprattutto i cristiani a riconoscere e a difendere i Settanta come testo divinamente ispirato e da considerarsi assolutamente sullo stesso piano del canone ebraico. Scriveva Ireneo nell’Adversus haereses che «l’unico e medesimo Spirito che nei profeti aveva annunciato l’avvento del Signore, nei (settanta) anziani ha interpretato bene ciò che bene era stato profetato». In altre parole, se i profeti e le guide d’Israele erano stati ispirati nel messaggio da annunciare, i settanta saggi lo erano stati nel lavoro ermeneutico di traduzione. Nessun dubbio dunque era ammesso circa la validità della versione dei Settanta, che rispondeva esattamente alle intenzioni originarie dell’Autore, in quanto lo stesso divino Spirito che agiva nei patriarchi e nei profeti, suggeriva pure ai traduttori il modo esatto di rendere il pensiero originario. Appoggiava una simile «concezione analogica» dell’ispirazione divina Clemente Alessandrino, il quale, riflettendo sulla tradizione per cui le diverse versioni realizzate autonomamente dai settanta saggi, messe a confronto tra loro, concordavano nel pensiero e nell’espressione, affermava: «non c’è nulla di strano che l’ispirazione di Dio, dopo aver dato la profezia, ne abbia anche fatto la versione come profezia in greco».

Periodo cruciale nella riflessione sull’azione dello Spirito nei Settanta fu il IV secolo. Anche sant’Agostino scese in campo per riconoscere ai leggendari saggi il duplice ruolo di «interpreti ed essi stessi profeti». In definitiva la Settanta non ha nulla da invidiare al testo ebraico quanto a ispirazione, origine divina e valore normativo. Tuttavia, non sfuggì al sagace Ipponense un particolare sul quale abbiamo più volte puntato l’attenzione: la presenza cioè di termini, espressioni, addirittura interi libri, che nei testi ebraici si presentavano in modo diverso o non comparivano affatto. La soluzione gli sembrava a portata di mano: «tutto ciò che manca nei codici ebraici mentre c’è nei Settanta, è il medesimo Spirito che ha preferito dirlo con questi invece che con quelli, mostrando con ciò che entrambi erano profeti». In altri termini, le differenze tra i due testi non giustificano il sospetto che uno dei due sia meno autorevole dell’altro, ma anzi costituiscono il segnale e la prova che entrambi sono attendibili e autorevoli e vengono da Dio. Uno schiaffo alle leggi della filologia, che si propone di eliminare errori e aggiunte per risalire alla versione primigenia di un testo. Ma è chiaro che, se c’è di mezzo lo Spirito, tutto è permesso.

Ma Agostino non si ferma qui ed offre pure una chiara spiegazione di come si siano potute produrre tante divergenze e come vadano considerate. Dopo aver ribadito che «lo Spirito che agiva nei profeti quando hanno parlato era operante anche nei Settanta quando hanno tradotto», egli aggiunge: «è possibile che Esso, con autorità divina, abbia suggerito un altro significato nella versione, come se il profeta avesse inteso dire l’una e l’altra cosa, poiché era il medesimo Spirito a parlare in entrambi i sensi». In termini più prosaici, laddove si riscontrano differenze tra testo ebraico e versione greca, esse non derivano (come direbbero i filologi) dall’arbitrio o dall’errore degli interpreti, ma dal fatto che il divino Spirito ha voluto offrire in questo modo diverse e parimenti valide interpretazioni del suo messaggio. E sempre lo stesso Spirito «ha potuto far tralasciare qualche cosa e qualche cosa aggiungere, affinché anche da questa caratteristica si mostrasse che in quella attività non prevaleva l’umana soggezione (humanam … servitutem) propria del traduttore nei confronti della parola. Invece un potere divino riempiva e guidava l’intelligenza dell’interprete». Se le diverse interpretazioni sono frutto di divina ispirazione, i cambiamenti più vistosi, cioè le aggiunte e le omissioni, sono segno di una libertà concessa da un «potere divino», che guida l’intelligenza del traduttore e lo affranca da una troppo soffocante e schiavizzante aderenza al testo originario.

D’altra parte, lo Spirito «soffia dove vuole» (Gv 3,8): come potrebbe accettare i vincoli di una scienza umana, quale è la filologia? In verità, c’era qualcuno che proprio in quegli anni cercava, per così dire, di «imbrigliare lo Spirito» entro più precisi e definiti meccanismi filologici, tornando a tradurre la Parola a partire dal testo «originale» ebraico: proprio a lui Agostino rivolgeva le sue critiche. Ma di Gerolamo e della sua rivoluzionaria e a volte contestata iniziativa parleremo un’altra volta.

About Sabrina Antonella Robbe (68 Articles)
Laureata in Filologia e Letterature del Mondo Antico, è Dottore di Ricerca in Studi Filologico-Letterari Classici (Università di Chieti). I suoi interessi spaziano dal mondo classico a quello cristiano medievale, con particolare attenzione alla storia e letteratura del cristianesimo tardo-antico e all’agiografia.
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