Ultime notizie

Breve storia della Vulgata, dalle stalle alle stelle

Se i «vecchi brontoloni» hanno la vista più lunga dei «giovani tradizionalisti»

La nostra rubrica ha scelto di soffermarsi per qualche tempo su alcune problematiche, forse ignorate dai più, ma fondamentali nella storia del nostro testo sacro e del dogma cristiano. Dopo aver presentato (con i limiti inevitabili di una trattazione sommaria e rapida) i caratteri dei Settanta (la traduzione greca dell’Antico Testamento in uso presso la maggior parte del mondo cristiano antico – link) e le polemiche sollevate in ambienti eruditi tra alcune delle colonne della nostra fede (Agostino e Gerolamo in primislink), sarà bene cercare di chiarire le ragioni più profonde di tale disputa, che non hanno a che vedere solo con il caratteraccio di Gerolamo o le preoccupazioni pastorali di Agostino, ma sollevano questioni più complesse e intricate sul piano degli studi biblici in senso lato.

Per prima cosa, sarà opportuno chiedersi: cosa spinse Gerolamo a tradurre la Bibbia non più a partire dal testo dei Settanta (da cui, in diverse parti dell’Impero, erano nate le più antiche versioni della Scrittura in lingua latina, le cosiddette Veteres latinae), ma ritornando a quella che egli stesso definiva, con espressione particolarmente eloquente e significativa, hebraica veritas? Forse la Parola dei Settanta non era altrettanto «vera»? Lo era certamente per i moltissimi cristiani che la riconoscevano come pienamente autorevole e – come abbiamo visto (link) – divinamente ispirata. Ma non poteva certo passare inosservato a un filologo di un certo calibro, quale era il nostro Stridonense, che non solo v’erano diverse traduzioni greche della Bibbia (delle quali, negli studi preparatorî alla Vulgata, mise in luce la maggiore o minore libertà rispetto all’originale ebraico o aderenza rispetto ai Settanta), ma esistevano nel mondo cristiano addirittura diverse edizioni dei Settanta. Egli ne conosceva almeno tre: quella di Esichio, usata soprattutto in Egitto e ad Alessandria; quella del martire Luciano, diffusa soprattutto a Costantinopoli ed Antiochia; e i codici elaborati da Origine e poi divulgati da Eusebio e Panfilo nelle province della Siria Palestina. Osservando tale divisione, Gerolamo amaramente constatava: «Tutto il mondo è in conflitto con se stesso per la triplice varietà del testo».

Mancava dunque nella lingua greca un testo univoco della Scrittura (persino il più autorevole era diviso in sé). Per di più, gli studi condotti durante la sua permanenza in Oriente – dove si era addentrato nelle Scritture e aveva iniziato a conoscere l’ebraico alla scuola di un ebreo convertito – avevano messo sotto i suoi attenti occhi di filologo le differenze, le incongruenze e le innovazioni che i mitici saggi avevano portato al testo originale ebraico, con buona pace di Agostino e di quanti ne difendevano l’origine divina. Quando dunque papa Damaso gli commissionò la revisione della versione latina allora in uso del Nuovo Testamento e del Salterio, è vero che per i Vangeli Gerolamo si limitò a rivedere l’antica traduzione confrontandola con il testo greco dei Settanta, ma per i Salmi già dava alla luce una versione dall’ebraico (il Psalterium iuxta hebraeos), che recava sotto la superficie i segni di un progetto assai ambizioso: ricondurre la Parola, il dogma e la fede alla «verità» del testo originale ebraico.

Per circa quindici anni a cavallo tra IV e V secolo, Gerolamo si dedicò ai libri veterotestamentari (quelli del canone ebraico, guarda caso). Malgrado l’incostanza del lavoro (a volte realizzò traduzioni fulminee, altre volte ne fece di malavoglia e in tempi più lunghi), i frutti non furono malvagi: una resa condotta in un buon latino, non troppo libero nè troppo pedante, e tuttavia non immune da errori, fraintendimenti e imprecisioni, che i suoi oppositori (Agostino e Rufino in primis) non tardarono a rinfacciargli. Nel frattempo lo Stridonense si dedicava a un’intensa attività esegetica, che gli consentiva, tramite lo studio e la conoscenza più approfondita dei testi, di affinare la tecnica di traduzione. La cura della lingua non fu certo un aspetto secondario nel suo lavoro. Per comprendere quanto contasse per Gerolamo questo elemento, si può ricordare quanto afferma nell’epistola 22. Mentre si trovava nel deserto siriano, in un momento di crisi spirituale, l’anima dell’aspirante asceta si dibatteva tra la cultura pagana, i cui prodotti erano amabilissimi per il loro eloquio, e la Sacra Scrittura, che provocava in lui disgusto e ripulsa per «la sua lingua disadorna». D’altra parte non era raro trovare sulla bocca dei pagani dotti accuse di questo genere a proposito dello scarso livello estetico delle traduzioni latine della Bibbia. Gerolamo fu un innovatore anche in questo: nell’aver desiderato offrire ai fedeli latinofoni una Parola che non li facesse più arrossire al confronto con Cicerone e Plauto.

Certo, la Vulgata non ebbe vita facile, soprattutto nei primi tempi. Agostino ne sconsigliava la lettura nelle Chiese per non «turbare con grande scandalo i fedeli di Cristo, le cui orecchie e i cui cuori erano abituati ad ascoltare quella versione che è stata approvata dagli apostoli» (era convinto di questa approvazione per il fatto che le citazioni del Nuovo Testamento venissero dai Settanta). In effetti, quando il vescovo di Ea lesse in chiesa un passo del profeta Giona dalla versione di Gerolamo, la folla insorse notando che i contenuti non erano perfettamente aderenti all’insegnamento proveniente dai Settanta, che si era ormai fissato nella memoria di tutti da generazioni. Il povero vescovo, per non restare senza fedeli, dovette tornare al testo precedente.

Bisogna attendere il VI-VII secolo per registrare i primi successi ufficiali della Vulgata: papa Gregorio Magno fu tra i primi a riconoscerne i meriti e ad adoperarla per i suoi scritti esegetici e spirituali; Cassiodoro la adottò nel Vivarium; molte copie presero a circolare. Quest’utimo non fu proprio un gran vantaggio per la verità, poiché – come sempre accade quando c’è di mezzo la tradizione manoscritta – i codici cominciarono a riempirsi di errori, contaminazioni, variazioni e mutamenti più o meno volontari, tanto che nel Cinquecento e Seicento si rese necessaria una revisione ufficiale della Vulgata (la «Bibbia sisto-clementina»), a cui fecero seguito, nei secoli a venire, nuove revisioni e studi critici e filologici. Ma ciò che più conta è che il Concilio di Trento nel 1546 riconobbe la Vulgata di Gerolamo come testo ufficiale della Chiesa Cattolica, assegnandole una speciale definizione: l’autenticità. Scrissero i Padri conciliari: «Considerando che non sarà di poca utilità per la Chiesa di Dio sapere chiaramente fra tutte le edizioni latine in circolazione quale è l’edizione autentica dei libri sacri, questo sacrosanto Sinodo stabilisce e dichiara che l’antica edizione della Vulgata, approvata dalla stessa Chiesa da un uso secolare, deve essere tenuta come autentica nelle lezioni pubbliche, nelle dispute, nella predicazione e spiegazione e che nessuno, per nessuna ragione, può avere l’audacia o la presunzione di respingerla» (IV sezione del Concilio, 8 aprile 1546). Attenzione però! L’autenticità è cosa ben diversa dall’ispirazione: questa è un carisma specifico, l’altra ha un valore giuridico, pastorale e disciplinare. In altre parole, la Vulgata è riconosciuta come testo che fa fede in pubblico, testo sicuro e non sospetto di deviazioni, tanto da poter essere adoperato nelle dispute e nella direzione pastorale, etica e teologica del gregge, ma non è considerata un testo divinamente ispirato (come era per i Settanta) né una «traduzione perfetta». «Autenticità giuridica», dunque, non «critica», come affermò Pio XII nell’enciclica Divino Afflante Spiritu.

Insomma, Gerolamo non ebbe mai riconosciuta una dignità pari a quella dei Settanta. Eppure, il nostro burbero Stridonense, a oltre mille anni dalla sua morte, si è preso una bella soddisfazione: una soddisfazione da filologo, con in più i complimenti di teologi e predicatori.

 

* Immagine: Guercino, San Gerolamo nel suo studio (1650)

About Sabrina Antonella Robbe (68 Articles)
Laureata in Filologia e Letterature del Mondo Antico, è Dottore di Ricerca in Studi Filologico-Letterari Classici (Università di Chieti). I suoi interessi spaziano dal mondo classico a quello cristiano medievale, con particolare attenzione alla storia e letteratura del cristianesimo tardo-antico e all’agiografia.
Contact: Website

11 Comments on Breve storia della Vulgata, dalle stalle alle stelle

  1. (Correggo) Esodo 3:15

    • Lo “stravolgimento” fa parte dei meccanismi ermeneutici della Tradizione, che dà ai testi un senso nuovo e permanente, a fronte di quello contingente che li ha originati, e che magari è scomparso in pochi anni.
      Che i masoreti abbiano vocalizzato in “o” e non in “e” è un fatto, e contro i fatti non valgono gli argomenti: se fosse diversamente, potremmo riscrivere la Bibbia a forza di ipotesi. Ma che libro ne verrebbe fuori?

      • Giovanni….mi torna spontaneo un collegamento (Gesù denunciò: “avete reso l Parola di Dio senza valore a causa delle vs TRADIZIONI”) Che siano Masoreti o Soferin(m?) a seguire la tradizione e sacrificare i testi ebraici precedenti, non sono giustificati. Per cui all’insegna della “verità” non lo accetto tacitamente.

        • questo è un atteggiamento fondamentalista inaccettabile: Gesù stesso non poteva che inserirsi in una tradizione, culturale, cultuale, teologica… Che poi Cristo distingua tra “Tradizione” e “tradizioni”, benissimo, è precisamente quanto tutti i cristiani devono continuamente cercare di fare. Sapendo che non finiranno prima del ritorno di Cristo.

          • Piero // 1 Maggio 2013 a 12:37 //

            Se basarsi sull’esempio di Gesù é da considerarsi “atteggiamento fondamentalista”, ok. Accetto di buon grado la base che ha lasciato Gesù e a questa mi attengo indipendentemente da come possa essere considerato dagli atri. Non mi meravigli la sua posizione Giovanni. E’ in linea con la prefazione della traduzione della CEI dove si legge “La Sacra Teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio scritta, insieme con la Sacra Tradizione e in quella vigorosamente si consolida e rinvigorisce sempre.

          • Questo è uno dei più bei complimenti che io possa ricevere, ma se lei deponesse questo atteggiamento refrattario (la smetta di lusingarsi, reca onta alla sua intelligenza!) ed esaminasse con calma gli argomenti che le ho addotto (non sono documenti, le lapidi, i testi storici, i reperti archeologici di cristiani e non cristiani?) vedrebbe le grandi e luminose ragioni di quel principio che ha citato, il quale non è affatto un’invenzione della CEI, ma l’unico modo sensato (e non fondamentalistico) di interpretare la Scrittura. E così, non altrimenti, l’ha interpretata lo stesso Gesù, al quale i TdG dell’epoca tendevano tendenziosi trabocchetti a base di fratelli morti e mogli da ritrovare nell’aldilà. Per i TdG di tutti i tempi vale la sentenza del Dio unigenito: «Non conoscete le Scritture né la potenza di Dio. Siete in grave errore».

  2. …..un commento interessante lo ha fatto Giovanni Rizzi in “le versioni italiane della Bibbia” (Paoline). Ecco le sue parole “Girolamo attraverso la Vulgata Latina, correggendola con la Nuova Vulgata la dove la Vulgata si era ALLONTANATA dal testo biblico nelle lingue originali”…
    A volte si tende ad affermare che la Settanta sia stata “ispirata” ma forse in alcuni punti si intravede più uno spirito umano più che divino . Per fare un esempio: In Esodo 22:27 il testo ebraico diceva “non bestemmierai Dio”. Traducendo questo divieto in un contesto multireligioso la Settanta traduce “non maledirai gli dei” (Evidente…

    • Su questo una rapida incursione: non ho controllato i LXX, ma la traduzione al plurale è perfettamente possibile, dato che la parola ebraica heloîm è, grammaticalmente parlando, un plurale. In effetti più volte quella parola arriva al plurale anche nelle versioni latine (e perfino italiane). Lì comunque non si parla del tetragramma.

      • E’ vero. Ma era un esempio della fallibilità della Settanta. Per indicare che non sempre può essere il metro di misura per argomentare su soggetti importanti come il tetragramma. Aggiungo inoltre assumendomi la responsabilità di quanto segue, che in copie della Settanta era presente il nome e forse (voglio crederci) tali copie circolavano anche al tempo di Gesù. Magari quando nella sinagoga di Nazaret ha letto il rotolo di Isaia.(cap 53) ha vocalizzato il tetragrarmma…
        Ti sorprenderebbe ?
        Piero

        • Sì, mi sorprenderebbe molto, perché la letteratura rabbinica è compatta nel difendere l’impronunciabilità del tetragramma. I soli testi non ci aiutano affatto, perché ignoreremo per sempre cosa pronunciavano leggendo il tetragramma o le sequenze alfabetiche scelte per traslitterarlo/tradurlo.

          • Lasciamo quindi che siano loro a condizionare le nostre scelte sul nome ma non lo facciamo sull’interpretare le profezie messianiche……. Prova a fare una ricerca su Levitico 24:10-16 credo sia li l’inghippo… Dal termine “abusare” si è finito per tradurre “non pronunciare”. Avrai sicuramente ragionato anche su Esodo 15:15 Il passo fra le’olam e le’allem , è brevissimo, ma stravolgerebbe (come credo sia successo) il senso del versetto.

1 Trackbacks & Pingbacks

  1. Una moderna chiacchierata pasquale – II

I commenti sono bloccati.