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Ritratto di un sadduceo

A proposito del recente articolo di un sadduceo dei nostri giorni sull’enciclica Lumen fidei

Due settimane fa ci siamo inoltrati nel campo delle diverse correnti religiose del giudaismo pre-rabbinico, ossia quello che esisteva al tempo di Gesù, per intenderci, e cui la distruzione del Tempio di Gerusalemme (nelle guerre giudaiche tra il 70 e il 120 d.C.) ha posto fine per sempre. Un caro amico, e nostro lettore, mi ha gentilmente (e opportunamente) fatto osservare che la nostra presentazione del tema aveva omesso ogni cenno alle difficoltà circa la ricostruzione storica del sadduceismo. In effetti le fonti sono poche, e vanno spesso solo per cenni: d’altro canto Sabrina ce ne ha dato un congruo ragguaglio, la scorsa settimana.

La nostra Rubrica, però, non ha lo scopo di fornire indagini specialistiche di storia delle religioni e, se spesso si appella ai criterî storiografici, ciò è più per evitare scorrettezze che per proporre parole ultime e definitive sulle difficili questioni che in quel campo fioccano ovunque. S’era posto invece l’accento sul “tipo spirituale” del sadduceo (e del fariseo), per il semplice fatto che se la Scrittura non è appannaggio di specialisti (o presunti tali) essa deve avere qualcosa da dire a ognuno, e deve essere utile per tutti.

Ciò detto, ci pare utile mostrare come il “tipo spirituale” del sadduceo sia tuttora e sempre attivo, e quali siano i suoi modi di ragionare. Ci dedichiamo perciò a scorrere e commentare un testo che un “sadduceo” ha recentemente pubblicato a proposito dell’enciclica Lumen fidei, di Papa Francesco. Non c’interessano il nome e il volto di questo sadduceo (pure fin troppo conosciuti, e di gran lunga sopravvalutati) – lo chiameremo semplicemente “il Sadduceo” – e cercheremo di seguire la sua logica (quanta ve n’è).

L’articolo del Sadduceo è stato pubblicato su la Repubblica del 6 luglio scorso, e di lì è rimbalzato in rete a destra e a manca: la prima cosa che si può osservare, sullo stile che promana dal “tipo spirituale” del sadduceo, è che egli sceglie dove scrivere soprattutto dove le sue parole possono destare un buon mix di scalpore, curiosità e plauso. Il sadduceo medio non ha alcun interesse al dialogo e al confronto (fondamentalmente perché non ne ha gli strumenti), e vaga alla costante ricerca di quelle vetrine che gli possono garantire, senza contraddittorio, pane e onori. La Repubblica è tra le più popolari di queste vetrine, e ad essa si uniscono suoi satelliti come Micromega, che sembrano quasi nati apposta per distillare un ambiente sufficientemente “qualificato” per accogliere gli scritti dei sadducei.

Ma proseguiamo oltre, e arriviamo al testo del Sadduceo, che prende il via con una questione preliminare: di chi è opera la Lumen fidei?

L’origine a più mani del testo non costituisce di per sé una novità per il papato, perché sono molti i testi del magistero quali encicliche, esortazioni apostoliche, catechesi o semplici discorsi, che hanno alle spalle un autore diverso rispetto al Romano Pontefice che poi li ha firmati […] . Decisamente nuovo però è il fatto che, dietro a un testo solenne come un’enciclica, di pontefici ve ne siano due, visto che Benedetto XVI ha scritto le pagine oggi firmate da papa Francesco quando ancora il papa era lui. A quale pontefice quindi attribuire la sostanza degli insegnamenti contenuti nella Lumen fidei? E chi tra i due papi ha scelto il titolo, che in un’enciclica ha sempre tanta importanza?

Il titolo di un’enciclica è costituito dalle sue prime parole, e dunque chi ha scritto quelle ha imposto, ipso facto, il titolo, e viceversa le ha scelte proprio pensando al titolo (ciò è tanto più chiaro osservando la sintassi della prima frase, ma forse questo è chiedere troppo). Il Sadduceo, però, manca anche di spirito, oltre che d’intelligenza, perché altrimenti avrebbe ricordato il gagliardo sonetto del Belli:

Er Papa, er Viceddio , Nostro Siggnore,
è un Padre eterno com’er Padr’Eterno.
Ciovè nun more, o, pe dì mejo, more,
ma more solamente in ne l’isterno.

Ché quanno er corpo suo lassa er governo,
l’anima, ferma in ne l’antico onore,
nun va né in paradiso né a l’inferno,
passa subbito in corpo ar zuccessore.

Accusì ppò variasse un po’ er cervello,
lo stommico, l’orecchie, er naso, er pelo;
ma er Papa, in quant’a Ppapa, è ssempre quello
.

Se almeno dal poeta il Sadduceo avesse imparato che «possono variare un po’ il cervello, / lo stomaco, le orecchie, il naso, il pelo; / ma il Papa, quanto a Papa, è sempre quello»; se lo avesse imparato i suoi lettori non dovrebbero sorbirsi le inutili manfrine sull’autore e sull’attribuzione. A dire il vero non si capisce bene se il Sadduceo coltivi velleità storiografiche, perché in apertura di articolo dice che «sarà compito degli studiosi futuri stabilire con precisione quanto vi sia di Ratzinger e quanto di Bergoglio», e poi pretende che la voce di Benedetto XVI, nell’enciclica, si distingua forte e chiara. Ma il vero cruccio del Sadduceo è un altro:

Se l’enciclica è il documento più importante che un papa ha a disposizione, e se la prima enciclica rappresenta solitamente l’atto programmatico del nuovo pontificato, che significato occorre dare al fatto che papa Francesco ha scelto di fare suo un testo scritto quasi integralmente da papa Benedetto?

La domanda è legittima, effettivamente, anche se chiunque dotato dei minimi rudimenti della fede cristiana, nonché di un pizzico di buonsenso e onestà intellettuale [doti scarseggianti, lo si diceva già, nei sadducei], ripiegherebbe subito sulla posizione del Belli e del suo sonetto. Il Sadduceo no, lui è un uomo che ha rinunciato a meravigliarsi della semplicità e che per questo si sorprende a stupirsi della banalità:

O forse l’assunzione del testo ratzingeriano sotto la propria firma è funzionale proprio al desiderio di papa Francesco di voler sottolineare, al di là di differenze contingenti, la totale consonanza dottrinale con papa Benedetto sulle cose fondamentali quali la fede e la morale? Io penso che a questa domanda occorra rispondere positivamente e che solo così si spieghi l’effetto un po’ stucchevole di vedere a firma di papa Francesco un testo integralmente ratzingeriano.

Ecco: che un Papa concordi col suo predecessore in materia di fede e di morale, questo dà al Sadduceo “un effetto un po’ stucchevole”, e i suoi rigorosi argomenti erano stati appena esposti:

Se Francesco avesse sempre seguito in tutto il suo predecessore la cosa sarebbe perfettamente coerente, ma egli finora ha fatto piuttosto il contrario: altra qualifica nel presentarsi (“vescovo di Roma”), altra abitazione (Santa Marta e non l’appartamento papale), altra croce pettorale, altre scarpe, altro piglio nell’affrontare i nodi del governo vaticano, altre priorità come appare dall’aver disertato un concerto di musica classica dov’era prevista la sua presenza, cosa che un cultore della buona musica e dell’etichetta quale Benedetto XVI non avrebbe mai fatto.

La “qualifica”! L’alloggio! La croce pettorale! Le scarpe! Il carisma di governo! E poi non va matto per la musica classica! La somma di tutti questi argomenti vale evidentemente meno del nulla che vale ciascuno di essi, e lasciamo volentieri al Sadduceo la propria banalità gongolante, ma una parola va spesa sulla “qualifica”, visto che è la cosa che più s’è ripetuta, di Papa Francesco, dalla sera della sua elezione in qua: “vescovo di Roma” non è un’espressione inventata da Papa Francesco, e non è neppure un’espressione usata poco da Benedetto XVI (che l’ha usata perfino nel discorso di abdicazione!); viceversa, “Papa” non è un’espressione censurata da Papa Francesco, che la usa anzi spesso e volentieri, e non è neppure un’espressione inventata da Benedetto XVI (né si tratta di un titolo esclusivo dei vescovi di Roma, anche se in Occidente, e “solo” da una dozzina di secoli, si ha quest’impressione). Quanto al carisma di governo, e all’orientamento politico di Papa Bergoglio, se qualcuno fosse interessato a considerazioni serie e documentate – questo esclude il Sadduceo, chiaramente ­– farebbe bene a leggere quelle di Maurizio Blondet risalenti a una settimana fa, delle quali direi, con De Andre’: «Se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato».

È però dove il Sadduceo cerca di uscire dalla melma della banalità che raggiunge l’apice di quello che Gesù chiamava il loro “grave errore”. Eccolo dunque che tenta di spiccare il volo, lanciando un grido di dolore per le gravi “dimenticanze” dell’enciclica:

La Lumen fidei spiega l’origine della fede unicamente a partire dall’alto, riconducendola a Dio e dichiarandola “dono di Dio”, “virtù soprannaturale da Lui infusa”, “dono originario”, “chiamata” (il termine dono ricorre 21 volte, chiamata 11). La domanda sorge spontanea: chi non ha la fede non ha quindi ricevuto questo dono divino? E se fosse così, non si tratterebbe in questo caso di un’inspiegabile ingiustizia? Verso la fine della vita Indro Montanelli scriveva: “Io ho sempre sentito e sento la mancanza di fede come una profonda ingiustizia che toglie alla mia vita, ora che ne sono al rendiconto finale, ogni senso. Se è per chiudere gli occhi senza aver saputo di dove vengo, dove vado, e cosa sono venuto a fare qui, tanto valeva non aprirli”. Invano il lettore cercherebbe nell’enciclica dei due papi non dico la risposta, ma anche solo l’assunzione del problema sollevato da Montanelli e da molti altri prima e dopo di lui, problema che è poi l’espressione dell’inquietudine alla base della modernità.

Il “grave errore” accusato da Gesù nei sadducei – «non conoscere le Scritture né la potenza di Dio» – si perpetua in queste parole del Sadduceo, che pone un caso individuale e domanda che la sacra dottrina sappia renderne giustizia (proprio come i suoi epigoni facevano con la storiella della moglie/vedova di sette mariti). A parte il fatto che, con tutta la sua presunta scienza, dimentica l’assunto di Aristotele per cui «non si dà scienza dell’individuale» (Arist., Metaph. XI, 8, 1064), egli rifiuta anche di valutare se per caso la proposta dell’enciclica sia capace di contenere il caso da lui proposto e darne ragione. Così suona però il testo dell’enciclica [§§ 29.33.35 passim]:

[…] San Paolo userà una formula diventata classica: fides ex auditu, « la fede viene dall’ascolto » (Rm 10,17). La conoscenza associata alla parola è sempre conoscenza personale, che riconosce la voce, si apre ad essa in libertà e la segue in obbedienza. Perciò san Paolo ha parlato dell’”obbedienza della fede” (cfr Rm 1,5; 16,26). […] Per quanto concerne la conoscenza della verità, l’ascolto è stato a volte contrapposto alla visione, che sarebbe propria della cultura greca. La luce, se da una parte offre la contemplazione del tutto, cui l’uomo ha sempre aspirato, dall’altra non sembra lasciar spazio alla libertà, perché discende dal cielo e arriva direttamente all’occhio, senza chiedere che l’occhio risponda. Essa, inoltre, sembrerebbe invitare a una contemplazione statica, separata dal tempo concreto in cui l’uomo gode e soffre. Secondo questa concezione, l’approccio biblico alla conoscenza si opporrebbe a quello greco, che, nella ricerca di una comprensione completa del reale, ha collegato la conoscenza alla visione. È invece chiaro che questa pretesa opposizione non corrisponde al dato biblico. L’Antico Testamento ha combinato ambedue i tipi di conoscenza, perché all’ascolto della Parola di Dio si unisce il desiderio di vedere il suo volto. In questo modo si è potuto sviluppare un dialogo con la cultura ellenistica, dialogo che appartiene al cuore della Scrittura. L’udito attesta la chiamata personale e l’obbedienza, e anche il fatto che la verità si rivela nel tempo; la vista offre la visione piena dell’intero percorso e permette di situarsi nel grande progetto di Dio; senza tale visione disporremmo solo di frammenti isolati di un tutto sconosciuto. […]. Nella vita di sant’Agostino, troviamo un esempio significativo di questo cammino in cui la ricerca della ragione, con il suo desiderio di verità e di chiarezza, è stata integrata nell’orizzonte della fede, da cui ha ricevuto nuova comprensione. […] Appariva così il Dio personale della Bibbia, capace di parlare all’uomo, di scendere a vivere con lui e di accompagnare il suo cammino nella storia, manifestandosi nel tempo dell’ascolto e della risposta. […] E così ha elaborato una filosofia della luce che accoglie in sé la reciprocità propria della parola e apre uno spazio alla libertà dello sguardo verso la luce. Come alla parola corrisponde una risposta libera, così la luce trova come risposta un’immagine che la riflette. […] Poiché la fede si configura come via, essa riguarda anche la vita degli uomini che, pur non credendo, desiderano credere e non cessano di cercare. Nella misura in cui si aprono all’amore con cuore sincero e si mettono in cammino con quella luce che riescono a cogliere, già vivono, senza saperlo, nella strada verso la fede. Essi cercano di agire come se Dio esistesse, a volte perché riconoscono la sua importanza per trovare orientamenti saldi nella vita comune, oppure perché sperimentano il desiderio di luce in mezzo al buio, ma anche perché, nel percepire quanto è grande e bella la vita, intuiscono che la presenza di Dio la renderebbe ancora più grande. Racconta sant’Ireneo di Lione che Abramo, prima di ascoltare la voce di Dio, già lo cercava «nell’ardente desiderio del suo cuore», e «percorreva tutto il mondo, domandandosi dove fosse Dio», finché «Dio ebbe pietà di colui che, solo, lo cercava nel silenzio».[32] Chi si mette in cammino per praticare il bene si avvicina già a Dio, è già sorretto dal suo aiuto, perché è proprio della dinamica della luce divina illuminare i nostri occhi quando camminiamo verso la pienezza dell’amore.

Una visione, questa, in grado di accogliere il sospiro di Montanelli (e di tantissimi altri) infinitamente meglio di quanto faccia la schiumata rabbiosa del Sadduceo. A lui però leggere onestamente il testo non interessa, perché la sua destinazione è già decisa fin dal principio:

Come sempre nella teologia ratzingeriana, anche in questa enciclica la modernità diviene solo un avversario da combattere, non un interlocutore con cui istituire un dialogo fecondo.

La modernità! Ecco un altro mantra del Sadduceo, uno dei suoi feticcî preferiti! È così ossessionato dall’idea di apparire moderno che non può indugiare neanche un istante a confrontarsi con i classici: la Lumen fidei cita, a sostegno di quei sospiri che il Sadduceo cita con le parole di Montanelli e fa passare per “moderne”, gli scritti di Ireneo di Lione e di Agostino d’Ippona, ovvero di un uomo del II secolo e uno a cavallo tra il IV e il V d.C. Il povero Sadduceo («povero di testa», direbbe Origene) non sa che la parola “moderno” deriva dall’avverbio latino “modo”, che significa “adesso” (se ne trova residuo nell’italiano “mo’”), e che per questo è una parente stretta della parola “moda”. Il povero Sadduceo non sa che ogni vera “modernità” (a usare per bene le parole!) è infallibilmente destinata a diventare démodé, a tramontare. Il povero Sadduceo non sa – e come potrebbe – che quello che lui chiama “modernità” non risale affatto alla modernità (infatti il moderno Lutero aveva a riguardo tutt’altre opinioni!), ma è un tema perennemente vivo e verdeggiante nei classici, i quali – insegna Leopardi (ma a chi?) – sono i soli veri “moderni”.

Ma niente, il Sadduceo è disposto a deprimere anche il desiderio dell’uomo, che dalle parole di Montanelli traspare alto, pur di attentare alla dottrina del suo avversario. Così i bei passi dell’enciclica sopra riportati vengono tagliuzzati e ridotti a poche manciate di parole, di modo che il Sadduceo possa riportarli a quell’unico paio di concetti che usa in ogni dibattito, e che in nulla sono stati evocati:

Si tratta [a proposito della soteriologia cristologica inclusivista, ossia del fatto che ogni uomo che si salva, anche non cristiano, si salva per l’unica mediazione di Gesù Cristo n.d.r.] in sostanza della teologia dei “cristiani anonimi” del gesuita Karl Rahner che papa Francesco (oppure papa Benedetto?) fa propria. Resta da vedere quanto questa posizione sia veramente rispettosa verso i non credenti o verso i fedeli di altre religioni: che cosa direbbe un cattolico di essere considerato un buddhista o un musulmano anonimo?

Alla consueta disonestà intellettuale, che chiama Rahner ciò che è stato chiaramente citato per Ireneo e Agostino, si accompagna qui un altro singolare paralogismo del Sadduceo: mentre l’individualità di Montanelli sarebbe stata sufficiente per mettere in crisi l’impianto dottrinale dell’enciclica, quella di Gesù non lo sarebbe per sostenerla. In altre parole, Dio è troppo grande perché Gesù lo esaurisca da solo, mentre Montanelli sarebbe bastato per evidenziare le presunte falle della dottrina cattolica su Dio. La questione della qualità personale e morale di Gesù e di Montanelli (ci perdonino tutti e due per il risibile accostamento) è secondaria, rispetto a quella della rilevanza dell’individualità di fronte all’assoluto – ovvero a quella di cui prima il Sadduceo aveva abusato, travolgendo il moderato e ragionevole precetto epistemologico di Aristotele. In altre parole, come si fa a conoscere Dio? Il Sadduceo pretende che Gesù non possa essere davvero l’unica via per accedere a Dio, ma gli piace l’espressione “Gesù è colui che ci spiega Dio”, contenuta nell’enciclica: poco importa che Gesù paia aver preteso di essere davvero l’unica via per Dio – il Sadduceo, che non può soffermarsi a pensare seriamente e onestamente (perché deve apparire moderno, e quindi aperto e conciliante – ma verso chi?!) – prende necessariamente quell’espressione in senso modesto e “debole”. Sì, Gesù è un brav’uomo che sapeva tante cose sulla spiritualità e su quell’energia cosmica che si può chiamare, tra l’altro, “Dio”. Così parla il Sadduceo, nel suo tentativo (prezzolato) di non scontentare nessuno e, se possibile, di compiacere tutti (o almeno quelli che pagano meglio e che sono più moderni).

Le conseguenze di ciò che dice il Sadduceo, però, spingono più a fondo, perché se dapprima dice che è Gesù che sta troppo stretto a Dio, in fondo intende che è Dio che sta troppo stretto all’uomo:

La fede cioè non è interpretata come una disposizione che sorge dal basso, come una modalità di articolare il sentimento, come un atto di fiducia verso la vita: è piuttosto pensata come una creazione unilaterale di Dio, il quale, così come è apparso nella storia di Abramo e poi degli altri protagonisti della Bibbia, si presenta allo stesso modo nell’interiorità dei singoli chiamandoli a sé.

Il Sadduceo vuole che la fede stia tutta nell’uomo per poter dire che ogni uomo ha la fede, ovvero per poter aggirare l’ostacolo proposto con la citazione di Montanelli invece di affrontarlo (come fa l’enciclica): in sostanza, l’enciclica dice (con tutta la Tradizione della Chiesa) che «il desiderio della fede è già fede» (ma deve tuttavia compiersi), mentre il Sadduceo – che crede fermamente che “sia tutto qui” – afferma che «il desiderio della fede è, tout court, la fede». Il lettore attento può facilmente giudicare chi tra i due abbia veramente rispetto dell’uomo e ne esalti il desiderio, dato da Dio per avviarlo alla conoscenza e all’amore di Sé; dei lettori superficiali e frettolosi (che di proposito si dà appuntamento sulle pagine dove scrive il Sadduceo) il Sadduceo fa man bassa.

Ciò è possibile anche perché i suoi lettori sono ignoranti come lui, che non teme di terminare il suo articolo con il più crasso e scorretto dei luoghi comuni sulla fede, spacciato per grande verità:

Ma il limite più grave del testo papale riguarda la teologia spirituale. L’enciclica infatti, insistendo così tanto sulla luce della fede e sulla sua capacità di spiegazione, finisce per ignorare abbastanza clamorosamente che l’esperienza spirituale cristiana si conclude non con la luce ma con le tenebre, come attesta la comune testimonianza della mistica dell’oriente e dell’occidente cristiano, parlando di “notte oscura”, di “silenzio”, di ingresso nella “nube della non conoscenza”, e sottolineando la necessità di andare al di là della dimensione intellettuale. Proprio in questo ignorare la fecondità delle tenebre, del non-sapere, del vuoto, del silenzio, risiede il grande limite della teologia ratzingeriana e del suo intellettualismo, che questo testo firmato da papa Francesco, come fosse un sigillo, riproduce in toto.

La tradizione mistica, che il Sadduceo tenta (invano) di saccheggiare senza conoscerla, insegna invece che le tenebre sono il principio (o quasi) dell’esperienza della fede, non il suo esito, che è invece la foce apofatica in cui tenebre e luce sono fuse e superate entrambe. Del resto l’enciclica sfiora, di passaggio, l’argomento [§ 57]:

La fede non è luce che dissipa tutte le nostre tenebre, ma lampada che guida nella notte i nostri passi, e questo basta per il cammino. All’uomo che soffre, Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce ad ogni storia di sofferenza per aprire in essa un varco di luce. In Cristo, Dio stesso ha voluto condividere con noi questa strada e offrirci il suo sguardo per vedere in essa la luce. Cristo è colui che, avendo sopportato il dolore, « dà origine alla fede e la porta a compimento » (Eb 12,2).

Il Sadduceo, però, ha già deciso che queste parole siano l’espressione di intellettualismo, di distanza dalla vita concreta, e se lo dice lui evidentemente le cose devono stare così! Gli verrebbe da procedere nella sua escalation dell’assurdo, travolgendo l’inferno e il peccato originale nel suo “sentimento” – che, abbiamo capito, è l’unica vera fede che possa darsi – ma temerebbe poi di appesantire i suoi lettori, già lungamente provati dall’esibizione di tanta sapienza e scienza, e quindi torna a volare basso, per chiudere in planata sullo stagno delle sue banalità:

Rimane da spiegare perché il papa venuto dalla fine del mondo l’abbia fatto proprio senza veramente “ritoccarlo” con il suo carisma umano e spirituale, ma a questa domanda per ora non ci sono risposte.

Lui che conosce bene il “carisma umano e spirituale” di Bergoglio, lui che solo conosce l’essenza della fede (cristiana e non), proprio lui non sa dare una risposta a questa domanda che per chiunque altro sarebbe effettivamente insolubile!

Forse è sempre perché non ha ammesso la visione del Belli e del suo sonetto, che pure è l’unica veramente ragionevole. D’altro canto anche il Belli avrebbe avuto qualcosa da imparare, ai nostri giorni, che gli avrebbe impedito di scrivere l’ultima (irriverente) terzina del sonetto:

E ppe questo oggni corpo distinato
a quella indiggnità, casca dar celo
senz’anima, e nun porta antro ch’er fiato.

Non li aveva mai visti, il mondo (e Belli con esso), due papi coesistere, convivere ed essere coautori di un documento che confermi i loro fratelli nella fede.

Due papi con due anime diverse – forti entrambe di quella di Pietro, e assistite entrambe dallo Spirito della multiforme Sapienza di Dio.

Ma queste cose sono troppo difficili, per il Sadduceo: non sono moderne, sono vere.

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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