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Dentro la Sindone

Un oggetto misterioso e affascinante, una speranza, un’illusione… Cosa c’è dietro il lenzuolo di Torino?

Qualche settimana fa, un nostro lettore poneva la questione della Sindone di Torino e della posizione assunta dalla Chiesa in merito alla sua autenticità. Ho tentato in questi giorni di informarmi sull’argomento e intendo presentare oggi una sintesi di quanto ho scoperto, pur nella consapevolezza che servirebbero studi ben più approfonditi e impostati su tecniche scientifiche di cui in larga parte mi sfugge il funzionamento. Quanto affermerò dovrà dunque essere preso con le dovute cautele, partendo dal presupposto che chi parla non è certamente un esperto del settore.

Prima di tutto, cos’è la Sindone.

La Sindone è un lenzuolo di lino, tessuto a spina di pesce, lungo circa m. 4,41 e largo m. 1,13. Sul lenzuolo è visibile la doppia immagine (una frontale, l’altra dorsale) del corpo di un uomo, che pare morto in seguito ad una serie di torture culminate con la crocifissione. Il corpo appare quello di un maschio adulto, nudo, a grandezza naturale, con barba e capelli lunghi.

Di fronte a un’immagine del genere, l’osservatore è inevitabilmente colpito da grande meraviglia e comincia a porsi domande che ben presto portano a uno scontro frontale tra quanto il cuore, ispirato dalla fede o dalla devozione, vorrebbe suggerire e quanto, invece, la ragione, sostenuta dall’esperienza empirica, sembrerebbe smentire senza possibilità di appello.

Chi è l’uomo della Sindone?

Le testimonianze più antiche relative alla Sindone di Torino risalgono alla metà del XIV secolo, quando Geoffroy de Charny la collocò nella chiesa da lui fondata nei pressi di Troyes. Nel Quattrocento il lenzuolo trovò accoglienza presso la corte dei duchi di Savoia, i quali la posero in una cappella appositamente allestita nel castello di Chambéry, e, agli inizi del Cinquecento ottennero da papa Giulio II il riconoscimento di una festa liturgica propria, da celebrare ogni 4 maggio. Nel 1578 Emanuele Filiberto trasferì la Sindone a Torino: la città l’accolse con grande entusiasmo e riti solenni; da allora si moltiplicarono le ostensioni, pubbliche e private, fino ai nostri giorni.

I documenti del passato non hanno dubbi nel riconoscere in quell’oggetto la Sacra Sindone di nostro Signore Gesù Cristo, cioè il lenzuolo (syndon) che, secondo i Vangeli, avrebbe avvolto il corpo di Gesù dopo la sua deposizione dalla croce e che i suoi discepoli avrebbero rinvenuto nel sepolcro vuoto dopo la sua Risurrezione. Eppure, quest’oggetto nasconde molti affascinanti enigmi.

Osservando la Sindone, si potrebbe ipotizzare, di primo acchito, che l’immagine sia rimasta impressa in qualche modo sul lenzuolo dal contatto con il cadavere in esso avvolto. Ma, se così fosse, essa non apparirebbe così come si vede – cioè con proporzioni perfette, come se si stesse osservando una persona a occhio nudo o in fotografia – ma apparirebbe distorta, allargata (per esempio nel viso si formerebbe l’effetto «maschera di Agamennone», che si può osservare nella foto).

L’immagine sindonica sembrerebbe piuttosto la proiezione verticale di una figura umana. Insomma, si dovrebbe ipotizzare che il lenzuolo sia stato steso a distanza dal cadavere, non in modo da avvolgerlo, ma in modo tale da accogliere verticalmente l’immagine che, in qualche modo, dal corpo sarebbe stata proiettata verso l’esterno, rimanendo impressa sul telo (un po’ come avviene quando si proietta l’immagine della terra con il metodo di Mercatore). Inoltre, se il lenzuolo avesse avvolto il cadavere, l’immagine frontale e quella dorsale sarebbero unite al livello del capo, mentre nella Sindone esse sono semplicemente allineate testa contro testa e separate da uno spazio che non reca tracce corporee. Neppure se il lenzuolo fosse stato «teso a ponte sul cadavere irrigidito dal rigor mortis» (come sostenne B. Bollone) si sarebbe potuta ottenere un’immagine del genere. Insomma, l’immagine sindonica non può essersi formata dal contatto tra un corpo e un lenzuolo.

A ciò si aggiunge il fatto che la posizione in cui appare il corpo è del tutto innaturale. Essa non è giustificabile neppure con la rigidità cadaverica: le mani non potrebbero reggersi sovrapposte sul pube (a meno che non fossero legate, ma sulla Sindone non v’è traccia di legacci); semmai potrebbero tenersi all’altezza dello stomaco, ma le braccia ricadrebbero verso il basso e non sarebbero così rigidamente tese accanto al busto; così le gambe appaiono innaturalmente piegate, come se ancora conservassero la posizione assunta sulla croce, con le ginocchia strette e i piedi uniti. Tengo a precisare che io non so nulla di medicina: mi limito a riportare le obiezioni sollevate da alcuni medici in proposito.

Le macchie rosse.

Se il lenzuolo, almeno a quanto sembra, non è stato a contatto con il corpo di cui reca l’immagine, che possiamo dire delle presunte tracce ematiche presenti sulla Sindone? Anche queste costituiscono un bel mistero, a cui gli studiosi hanno dato risposte a dir poco contrastanti.

I primi esami, condotti negli anni Settanta dalla commissione scientifica nominata dal cardinal Pellegrino, diedero risultati negativi, ma non esclusero del tutto la possibilità che sul lenzulo potessero trovarsi macchie di sangue. Gli esami continuarono con vari esiti. Negli anni Ottanta, sulla base di osservazioni microscopiche e analisi chimiche, McCrone annunciò di aver trovato tracce di ocra rossa, cinabro (solfuro di mercurio, un colorante rosso molto diffuso nel Medioevo) e alizarina (un pigmento rosato di origine vegetale, al giorno d’oggi prodotto sinteticamente): da ciò deduceva che la sindone fosse un dipinto – forse medievale, vista la presenza di cinabro –. Questa ipotesi fu respinta dallo STURP (Shroud of Turin Research Project), che assengò l’incarico ad altri studiosi. Alcuni di questi, tramite test chimici e fisici, avrebbero rilevato sul lenzuolo la presenza di emoglobina, albumina e bilirubina, e avrebbero dimostrato la presenza di sangue umano e siero sulla Sindone. Altri, pur ritrovando sostanze analoghe a quelle rinvenute da McCrone, giunsero a conclusioni del tutto opposte, e attribuirono la presenza di pigmenti a contaminazioni successive, mentre le particelle di ossido di ferro (che per McCrone erano ocra rossa) costituirebbero residui di ferro presenti nel sangue. Chi fosse interessato a questi studi potrebbe procurarseli ed esaminarli a fondo. Noi ci limitiamo a constatare che il problema resta aperto e lo resterà, purtroppo, fino a quando non si avranno strumenti in grado di asserire con assoluta certezza la natura delle macchie rosse presenti sulla Sindone.

La storia, cattiva alleata.

Lo stesso atteggiamento di cautela sarebbe consigliabile anche a proposito dei presunti segni di chiodi, di flagelli, di spine sul capo, di monete sugli occhi, e delle tracce di strumenti della passione che alcuni vorrebbero vedere accanto al cadavere e interpretare come prove dell’autenticità della Sindone (su questi aspetti rimando a per es. a Cathopedia, in cui si possono trovare altri link interessanti). L’immagine sindonica è talmente lieve, quasi evanescente, e attorno ad essa ruotano tante di quelle attese che – come affermò una volta Ray Rogers – «molti osservatori la guardano per così tanto tempo che iniziano a vedere cose che altri non vedono».

Inoltre, non è affatto da sottovalutare la questione delle contaminazioni a cui il lenzuolo è stato sottoposto in secoli di ostensioni, viaggi, spostamenti, cerimonie e atti di culto, durante i quali, per esempio, pellegrini di ogni parte del Mediterraneo avrebbero potuto toccare l’oggetto e poggiare fiori, pollini, particelle di terriccio, oggetti simili a quelli adoperati per la flagellazione e la crocifissione ecc.: la loro presenza (in alcuni casi solo ipotetica) sul telo non prova certo l’autenticità dell’oggetto, né tantomeno offre indizi significativi circa la sua origine geografica e cronologica; anzi, ne moltiplica in misura esponenziale le ipotesi possibili di datazione. Senza contare gli incendi (soprattutto quello di Chambéry del 1532), i restauri a cui il lenzuolo fu sottoposto da parte di mani più o meno esperte (più esperte forse quelle dei tecnici del 2002, molto meno – credo – quelle delle suore francesi che lo rattopparono, togliendo le bruciature del 1532), e – temo – infinite altre disavventure, che ne hanno alterato le caratteristiche originarie. Chi indaga sulla Sindone di Torino si trova a fare i conti con una scena del crimine irreparabilmente contaminata, dalla quale è molto difficile – se non impossibile – uscire con prove stringenti e idee chiare.

Limitiamoci, dunque, ad osservare l’oggetto così come ci permettono di vederlo gli strumenti attualmente a nostra disposizione. Strumenti che – bisogna comunque tenerlo a mente – non sono affatto infallibili e non riescono a condurre a risultati unanimi. Abbiamo già detto delle conclusioni diametralmente opposte a cui sono giunti gli studiosi in merito alle presunte tracce ematiche sul telo. Vediamo in che direzione portano i mezzi archeologici.

La datazione della Sindone.

Il lenzuolo ha una forma pressoché rettangolare; è lungo circa 4 metri e mezzo, largo poco più di uno, pesante circa 2 kg e mezzo. Il tessuto è di lino e presenta irregolarità tipiche della lavorazione manuale. La filatura è in senso orario o «a Z»; la struttura a spina di pesce con trama 3:1. Questi caratteri sono ben lontani da quelli rintracciabili in altre sindoni giudaiche di I secolo per quanto riguarda sia il tessuto (in genere era in lana), sia la struttura (1:1), sia la trama («a S»), sia la posizione del corpo (nella Giudea del I sec., i defunti erano avvolti con le braccia distese ai lati, mentre collo, polsi e caviglie erano fermati con appositi bendaggi). Inoltre, pare che in area palestinese i cadaveri fossero avvolti in due lenzuoli, di cui uno più piccolo per il volto; questo particolare coincide tra l’altro con quanto si legge nel Vangelo di Giovanni a proposito del ritrovamento del sepolcro vuoto:

 

«Simon Pietro … entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte» (Gv 20,6-7).

 

Insomma, l’archeologia solleva seri dubbi circa l’appartenenza della Sindone al periodo di Cristo, e persino la testimonianza evangelica sembra smentirne autorevolmente l’autenticità.

Si conoscono, invece, lenzuoli di epoca medievale intessuti con intreccio identico a quello sindonico, come quello custodito al «Victoria and Albert Museum di Londra» (di cui però non si parla praticamente mai), risalente al XIV secolo. Questo punto è molto importante, se si considera che gli studi effettuati sulla Sindone con il metodo del carbonio14 hanno stabilito, con un intervallo di confidenza di almeno il 95% e un’approssimazione di 10 anni, che il telo della Sindone risale a un periodo compreso tra il 1260 e il 1390. Questa datazione, generalmente accettata dalla comunità scientifica oltre che da diversi esponenti della Chiesa cattolica (sebbene non siano mancate obiezioni anche in questo senso), è compatibile anche con le prime testimonianze storiche certe sulla Sindone, che – come abbiamo detto – risalgono al 1353 circa.

L’ipotesi del falsario medievale e altre fantasticherie.

Poiché molti indizi sembrano negare ogni legame tra la Sindone di Torino e il lenzuolo che avvolse il corpo di Cristo, indirizzando piuttosto le ricerche verso un periodo medievale anteriore alla metà del Tredicesimo secolo, si è fatta strada l’ipotesi che il lenzuolo non sia altro che il prodotto di un abile falsario medievale: costui avrebbe preso un telo di quelli usati ai suoi tempi per la sepoltura dei cadaveri e vi avrebbe impresso in qualche modo un’immagine che – per tratti somatici, posizione del corpo e altri dettagli che rimandano alla flagellazione e alla croficissione – si avvicina molto alla figura del Crocifisso, così come è possibile immaginarla alla luce dei Vangeli e della comune iconografia sul Cristo morto.

Questa l’ipotesi vulgata. Sul modo in cui questo falsario avrebbe prodotto l’immagine sul telo, si è scatenata la fantasia di molti scienziati, mitomani e inventori di semplicionerie, che hanno avanzato le ipotesi più assurde. Per dimostrare che sarebbe possibile riprodurre la Sindone in laboratorio, qualcuno si è servito di un semplice pirografo; altri hanno spalmato un uomo con un pigmento liquido a base di ocra rossa e gli hanno poi strofinato sopra un lenzuolo; c’è chi ha dipinto un telo con tempera e soluzioni a base di acido solforico e chi ha sfruttato l’energia termica generata da un bassorilievo riscaldato; i più sfacciati sostengono che la Sindone sia l’autoritratto di Leonardo da Vinci, realizzato in una vera e propria camera oscura, imprimendo un busto con le proprie fattezze su di un telo trattato con chiara d’uovo e gelatina …

Per quanto alcune delle immagini prodotte con questi mezzi possano risultare simili – almeno ad un esame visivo – a quella della Sindone, nessuna di esse è perfettamente uguale ad essa per forma, colore, composizione chimica ecc.

Ricerche ben più interessanti e degne di attenzione sono state realizzate dall’ENEA (l’Agenzia Nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile). Un team di ricercatori guidato da Giulio Fanti è riuscito a colorare superfici di tessuti di lino con risultati che riproducono perfettamente – almeno così dicono – le caratteristiche dell’immagine sindonica quali emergono dagli esami effettuati dallo STURP: l’estrema superficialità della colorazione, la mancanza di fluorescenza, l’assenza di colorazione al di sotto delle macchie ematiche (su questo aspetto varrà la pena tornare tra poco), la relazione inversamente proporzionale tra intensità della colorazione e distanza tra sorgente e telo (chi volesse approfondire l’argomento, può visitare il sito della Sindone). Per ottenere questi risultati è stato utilizzato un laser a eccimeri.

Viaggiando con la fantasia.

Io non ho la più pallida idea di cosa sia un laser a eccimeri, ma dubito fortemente che un falsario medievale possa averne avuto uno a portata di mano. Le ricerche dell’ENEA non portano certo a una soluzione definitiva circa la natura della Sindone, ma quanto meno – almeno a mio avviso – rimettono in gioco il problema della sua autenticità o della sua soprannaturalità. Per cui mi chiedo:

1) È possibile che l’immagine della Sindone sia stata prodotta da una radiazione o da una serie di lampi di luce ultravioletta emessa da una specie di laser?

2) Dicevamo poco sopra che, alla luce delle ricerche dello STURP, l’immagine della Sindone non compare al di sotto delle presunte macchie ematiche presenti sul lenzuolo: ciò significa che essa si sarebbe prodotta solo in un secondo momento. E, allora, è possibile che il lenzuolo, che precedentemente era posto a contatto con il corpo insanguinato di Cristo in modo da assorbirne il sangue, al momento della Risurrezione, sia stato sollevato da una sorta di energia che al contempo ne ha fissato in modo miracoloso l’immagine sul telo?

3) Ma allora come si spiegano la datazione probabilmente medievale del telo confermata dalle indagini archeologiche e dal C14? Forse la Sindone – come ha sostenuto qualcuno – non si è prodotta all’atto della Risurrezione, ma rappresenta un miracolo verificatosi in un altro momento storico per alimentare la fede e la devozione nel Crocifisso?

Non vi sarebbe proprio nulla di male a credere in qualcosa del genere, anche senza che ve ne siano convincenti e definitive prove scientifiche. D’altra parte, noi asseriamo di credere nella Risurrezione, eppure non mi risulta che finora alcuno scienziato ne abbia fornito una spiegazione razionale, empirica e accettata dalla comunità scientifica.

Ma torniamo con i piedi per terra.

Non v’è dubbio che la questione della Sindone sia un argomento quanto mai affascinante, sul quale ho il sospetto che influisca molto la dialettica tra le pretese della scienza e le attese della fede. Io non so se la Sindone di Torino sia il vero lenzuolo che ha avvolto il corpo di Cristo e reca le tracce visibili e ineffabili della sua Risurrezione, o un miracolo che il Signore, in un altro momento storico, ha voluto lasciare come segno per i suoi fedeli, o un falso sul quale qualcuno – in vista di non so quali interessi – ricama storie meravigliose e piene di fascino devozionale. Vorrei però soffermarmi solo un istante su una definizione che tempo fa il nostro papa emerito Benedetto XVI applicò a questo straordinario e misterioso oggetto.

Nel secondo volume su «Gesù di Nazaret», Ratzinger, parlando della sepoltura di Gesù e delle differenze tra sinottici e Quarto Vangelo in merito all’uso del lenzuolo nei primi, delle bende e del sudario nel secondo, affermò:

 

«La questione circa la concordanza con la Sindone di Torino non deve qui occuparci; in ogni caso, l’aspetto di tale reliquia [grassetto mio] è in linea di massima conciliabile con ambedue i rapporti».

 

Il presidente della Commissione diocesana per la Sindone, mons. Giuseppe Ghiberti, in una nota in merito a questa affermazione, osservava che l’uso del termine «reliquia» per indicare la Sindone aveva suscitato stupore, tanto da indurre molti a interrogarsi su quali fossero realmente le intenzioni e l’opinione del Papa. Rilevava come il Santo Padre da una parte avesse riconosciuto una relazione tra il lenzuolo conservato a Torino e i racconti evangelici, sostenendo che tra essi non vi fosse «incompatibilità»; dall’altra, però, si era astenuto da un giudizio definitivo in merito all’autenticità dell’oggetto. Per mons. Ghiberti, il termine «reliquia» equivaleva ad altri appellativi parimenti usati dal Pontefice, come «icona del sabato santo» che alludeva al fatto che la Sindone fosse un’immagine utile a contemplare e meditare il mistero della Passione e Morte di Cristo. Il prelato concludeva affermando che:

 

«per la nostra fede chiamare la Sindone reliquia o icona non ha particolari conseguenze: la Sindone non è Gesù bensì un segno straordinariamente “efficace” del suo amore, del mistero della redenzione; non è oggetto della fede bensì un aiuto eccezionale per approfondire la realtà di Cristo».

 

Su questo punto sono pienamente d’accordo: la Sindone, vera o falsa che sia, non è oggetto della fede, ma le offre un aiuto e uno stimolo. D’altra parte, però, non sottovaluterei la scelta del termine «reliquia» da parte del papa emerito, che ben conosce il vocabolario e non lo usa mai in maniera inappropriata né approssimativa. Chi abbia una certa dimestichezza con il mondo delle reliquie ed i culti ad esse collegati, sa che la reliquia è un oggetto che si presume appartenuto a un certo personaggio santo o essere venuto in qualche modo a contatto con esso; sa altrettanto bene che esistono nel mondo moltissime reliquie, di tipologie assai varie, e non tutte autentiche. Eppure esistono, e al popolo è concesso venerarle assieme ai santi che rappresentano, anche quando la loro autenticità fosse dubbia o palesemente falsa. Ciò appunto perché la reliquia non è oggetto della fede, ma le offre un aiuto e uno stimolo. Ecco, la Sindone può essere considerata alla stregua di una reliquia: sia che sia il vero lenzuolo in cui fu avvolto Cristo, sia che sia frutto di un miracolo posteriore, sia che sia altro, essa offre un aiuto ai fedeli nel contemplare il mistero della Morte di Cristo.

Ratzinger non si è astenuto dal giudicare sulla Sindone. Ne ha offerto una chiave di lettura che – almeno a me – pare cauta, onesta e rispettosa tanto della scienza quanto della devozione, e che meriterebbe di essere adottata almeno finché il velo del mistero non sarà squarciato su questo argomento.

About Sabrina Antonella Robbe (68 Articles)
Laureata in Filologia e Letterature del Mondo Antico, è Dottore di Ricerca in Studi Filologico-Letterari Classici (Università di Chieti). I suoi interessi spaziano dal mondo classico a quello cristiano medievale, con particolare attenzione alla storia e letteratura del cristianesimo tardo-antico e all’agiografia.
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1 Comment on Dentro la Sindone

  1. Mauro Valente // 26 Gennaio 2014 a 16:22 //

    Quella di Sabrina è una posizione onesta ed equilibrata, apprezzabile perchè priva di ogni faziosità.

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