Le piccole chiese de “La grande bellezza”
Qualcuno ha scritto, nei giorni scorsi, che oggi in Italia ciascuno ha due mestieri: il primo è quello che fa e per cui (se gli va bene) viene pagato; il secondo è, invariabilmente, “critico cinematografico de La grande bellezza”. Sembra infatti che a pochi sembri un problema come un popolo pasciuto con le scialbe e trite pagine di Fabio Volo e di Federico Moccia possa improvvisamente comprendere, apprezzare e criticare una pellicola che rivendica natali felliniani o giù di lì.
E fin qui, in fondo, nulla di particolarmente eclatante: il mestiere dei critici è, manifestamente, argomentare il loro reciproco disaccordo (possibilmente facendo ricorso a paroloni incomprensibili e rifacendosi ad autori sconosciuti e dati per indispensabili). Il fatto, poi, che un critico d’arte non debba necessariamente essere un artista lascia aperto uno spiraglio fatale a chi, forse anche in cerca di un riscatto personale, non avendo mai girato una pellicola (tantomeno una complessa e ricca come La grande bellezza), «si prese la briga e di certo il gusto – diremmo con De Andre’ – di dare a tutt[i] il consiglio giusto».
Memore di questo rischio ineluttabile, e certamente timoroso di restarvi avviluppato, m’ero tenuto nel più stretto riserbo, vietandomi categoricamente di produrre esternazioni in merito – anche perché trovo culturalmente insopportabile lo sciacallaggio mediatico di una televisione e di una radio che, diventati forse più grandi del necessario e dell’opportuno, fanno sforzi sovrumani per riempire le caselle di un palinsesto tirannico, i cui languori pretendono audience e share: così bisogna “stare sul pezzo”, e “dire anche noi la nostra” su “l’argomento di cui parlano tutti”. Che importa, poi, se “la nostra” non si regge in piedi e non ha un filo di argomentazione? Per riempire i venti minuti della diretta basta, e cinque minuti dopo nessuno ricorderà le cose – ragionevoli o meno – che avremo detto, perché saremo tutti ipnotizzati dal seguente “argomento di cui parlano tutti”.
Eppure infine sto scrivendo anch’io un articolo su La grande bellezza – dunque tutta questa premessa era forse inopportuna. No, credo: in realtà, più che scrivere un articolo sul film, sto cercando di rispondere a una sola, semplice e difficile domanda, che mi è stata rivolta nell’àmbito del mio lavoro e con riferimento alle mie specifiche competenze. La domanda è: «Qual è l’immagine della Chiesa che emerge da La grande bellezza?».
Poiché ho speso mezza pagina per delimitare esattamente l’argomento, aggiungo ancora una postilla alla mia apologia – dare anche solo l’impressione di adeguarsi alla “cultura” (si fa per dire) del talk show è una colpa grave –: ho visto il film in autunno, nei giorni della sua uscita al cinema, restandone molto impressionato (e sollecitato in sensi varî e contrastanti), né l’ho voluto rivedere nei recenti giorni dell’isteria collettiva. I miei ricordi sono, tuttavia, piuttosto nitidi. Sulla base di questi scrivo le seguenti considerazioni.
L’immagine della Chiesa nel film è così ambigua e sfuggente che ha potuto dar àdito, e comprensibilmente, a molteplici interpretazioni: c’è stato chi ha ravvisato nella pellicola l’insufficienza della rappresentazione di una Chiesa che, seppure presente, non sembra foriera di una proposta realmente incisiva; c’è stato chi vi ha scorto il bacino esistenziale in cui le domande di senso, per loro natura e per il contesto culturale, vanno ad approdare; c’è stato infine chi non vi ha visto altro che una caricatura stereotipata, lontanissima dalla reale essenza della Chiesa di cui asserisce di aver fatto esperienza.
Penso che tutte le posizioni che ho sentito e letto* si trovino raccolte e rappresentate in queste tre grandi varianti, pur se con (talvolta significative) differenze. Ora, la “cultura” (si fa per dire) del talk show, oggi tristemente imperante, vorrebbe che anch’io prendessi posizione tra queste tre, e che lo facessi rapidamente e con chiarezza. Proprio ciò che non faccio: «Non possiamo – con le parole di Pio VII –, non dobbiamo, non vogliamo». “Non possiamo” perché, sebbene io inclini sostanzialmente per una di quelle tre posizioni, ciascuna di esse ha le sue ragioni – anche forti – e non è possibile annullarle senza offrire loro il giusto rilievo; “non dobbiamo” perché annullarle senza vagliarle e senza comprenderle non sarebbe giusto, e perché, grazie a Dio, qui non è un talk show; “non vogliamo” perché accogliere la sfida di comprendere e conciliare le ragioni di ogni posizione senza scivolare nella china relativistica è la quintessenza della (vera) cultura.
Dunque, “la Chiesa ne La grande bellezza”: essa è costantemente presente, e sotto svariati punti di vista. Anzitutto nella scenografia (spesso le magnifiche chiese romane, soprattutto quelle barocche, vanno a dare sostanza alla bella fotografia della pellicola). Una presenza di importanza analoga, la Chiesa la ritrova nella colonna sonora (analoga, appunto, ma molto più varia e meno “scontata” di quella scenografica). Balzerà subito agli occhî che la fotografia (e con essa le scenografie) e la colonna sonora sono tra le cose più impressionanti de La grande bellezza, e siccome non di rado è un’indagine feconda quella che non teme d’indugiare su ciò che di primo acchito colpisce l’intelletto e gli affetti, sarà utile considerare anche qui qualcosa, e approfondire proprio la difformità che si divarica nell’analogia sopra menzionata (ossia quella tra come la Chiesa è presente nelle scenografie e come lo è nella colonna sonora): mentre infatti le scenografie sono continuamente riconoscibili come schiettamente romane, la colonna sonora non si caratterizza per alcunché di tipicamente romano (e sto parlando qui unicamente della parte “sacra” del soundtrack). Niente gregoriano, niente Palestrina, niente Perosi, niente Bartolucci né Miserachs: che c’è di “romano” nella musica sacra de La grande bellezza (se non vogliamo considerare musica sacra Lele Merchitelli e Antonello Venditti)? Poco o niente, e sarebbe inutilmente lungo e lungamente inutile soffermarsi su ogni brano. Se ne prendano solo due a titolo esemplare: il Beata Viscera di Mikk Üleoja e The lamb di John Kenneth Tavener.
Il primo brano è l’opera di un giovane compositore éstone, impegnato nell’orchestra filarmonica nazionale: è tratto da un disco inciso un paio d’anni fa – Filia Sion (2012) – e dedicato a raccogliere alcune tra le più famose gemme dell’innario mariologico latino. Il secondo è uno dei più popolari componimenti di un geniale e inquieto musicista inglese (peraltro deceduto da pochi mesi): anglicano, in gioventù si convertì all’ortodossia per il desiderio di una spiritualità più solida e antica (benché la sua avventura fosse destinata a guardare ancora più a Oriente). In quegli anni (precisamente nel 1982) musicò in un corale breve in quattro parti senza accompagnamento una lirica di William Blake, quel The lamb che oggi è diventato quasi la main song de La grande bellezza. Un anglicano riluttante e aspirante ortodosso, dunque, ha musicato le parole di uno dei più bizzarri artisti inglesi, tanto geniale e sottile da essere creduto al contempo pazzo e gnostico, protestante e avversario della Chiesa anglicana, nemico della religione e innamorato di Dante, araldo dell’eternal Gospel e sovvertitore della morale cristiana. Il testo di Blake musicato da Tavener, infine, è una filastrocca in cui l’autore s’impersona in un bambino che parla con un agnello al pascolo, rivelandogli che il suo creatore è quello da cui prende con l’essere anche il nome – l’Agnello (ossia Cristo) – e che il suo nome è quello che anche il bambino condivide con l’animale.
Pare forzato cercare a tutti i costi corrispondenze e dietrologie, né Sorrentino sembra globalmente in grado di cogliere la portata “ecumenica” del suo riferire alla sacralità di Roma le storie e le tradizioni del mondo non-cattolico ma, pur senza spingersi oltre, è opportuno rilevare il dato.
Tutto il variopinto “sottobosco sacro” de La grande bellezza, però, comprendente comparse di religiosi e religiose, sacerdoti e celebrazioni, preghiere e oggetti di devozione, mi sembra far capo a due figure sovreminenti: una addirittura è un’autentica “eminenza”, ovvero è il Cardinale, e l’altra è la suora. Mi pare che a queste due figure possa raccordarsi l’intero problema (e il di-lemma) della Chiesa nel film di Sorrentino. Temo però che uno dei più facili errori nel valutare la portata di queste figure stia nel giudicarli con frettolosità manichea: non rappresentano infatti “la Chiesa cattiva” (il Cardinale, “ovviamente”) e “la Chiesa buona” (la suora). Sorrentino non sembra propagare, a tal proposito, le ingenuità della “cultura” occidentale dei decennî scorsi, per la quale “gerarchia” era sempre e comunque sinonimo di malvagità e di “ka$ta”, e anzi l’amarezza agrodolce del film e delle sue atmosfere viene precisamente dall’aver perso fiducia anche in quelle (troppo) facili dicotomie.
A confermare ciò basta notare due fatti: anzitutto, la suora, benché certamente autentica (e a ciò serve la sua inverosimile vecchiaia, oltre che il radicalismo ascetico), sembra ben accolta nella “gerarchia”, e anzi porta nel suo stesso entourage una (inquietante) caricatura del “servo della ka$ta” (il segretario); in secondo luogo, Gambardella è ugualmente gentile e rispettoso nel porre le sue domande al Cardinale come alla suora. Il fatto che al primo di questi esterni francamente la sua amara (e tuttavia ancora rispettosa) delusione non toglie che, neppure dopo il ben diverso colloquio con la suora – e il di lei riferimento sibillino alle “radici” di cui bisogna nutrirsi – sembra che il “trenino della sua vita” (parafrasando un’espressione di Gambardella) si sia avviato verso una destinazione, mentre continua a vagare “allegramente” senza meta fino alla fine della pellicola.
Qui sta il punto, perché le due figure sono sufficientemente sfumate da modificare in sostanza gli stereotipi peraltro tuttora consueti: la suora non manca di un che di sgradevole, e viceversa il Cardinale non è spoglio di un che di gradevole. Anzi, la mondanità stessa di quest’ultimo non si spiega senza un contributo sostanziale, per quanto paradossale, della sua veste purpurea; e viceversa l’incidenza della suora (in quel contesto, formalmente, una disadattata) non si spiega senza un riferimento (e anche continuo!) al suo alter ego profano, il segretario. Come mai? È perché, lungi dal rappresentare “la Chiesa cattiva” e “la Chiesa buona”, il Cardinale rappresenta invece la Chiesa estetica e la suora la Chiesa etica. Chiunque abbia letto un manuale di filosofia ripenserà fulmineamente a Kierkegaard, e comprenderà senz’altro aggiungere come entrambi, per ciò stesso, non siano figure rappresentative di una Chiesa religiosa.
Il Cardinale, così preso dalle sue conversazioni di enogastronomia (in fondo in-nocenti in tutto, salvo che nella loro in-utilità), attrae gli uomini e piace loro: è il delectans ammantato di una parvenza di sacro. La suora, così rapita dalle sue inarrivabili pratiche ascetiche (in-utili anche quelle, perché dis-orientanti in quanto dis-orientate), attrae gli uomini e li edifica: è il docens ammantato di una parvenza di sacro. Manca il movens, nell’uno e nell’altro, ossia un elemento che sappia finalizzare tanto il piacere quanto il dovere – mentre essi sembrano, nell’uno e nell’altro personaggio, totalmente autoreferenziali – e contagiare profondamente le esistenze altrui, indicando una destinazione ai famosi “trenini delle nostre feste”. Il motivo per cui l’osservatore, come il protagonista, non è portato verso la suora al giudizio severo che facilmente formula contro il Cardinale, mi sembra risiedere nel fatto che la vita etica è oggettivamente migliore di quella estetica. Questa è tuttavia la considerazione (perfino banale) che sta alla base di ogni moralismo: la “grande bellezza” di cui il cuore umano ha nostalgia è profondamente “altro”, è il “totalmente Altro”. La vita etica è ancora lontana dalla vita religiosa come la bellezza del sorriso della suora è lontana da quella dei seni della ragazza amata in gioventù, e bisognerebbe essere cauti nel valutare l’accostamento dei due (che Sorrentino fa): dal punto di vista estetico non esiste continuità, ma semplice e totale frattura; dal punto di vista etico sorge il sospetto che una continuità ci sia, ma i punti del contatto sfuggono al mero raziocinio pratico.
L’arte e la morale, ciascuna nelle sue forme, possono elevare l’uomo (e di fatto lo elevano), ma esse non giungono a soddisfare l’ampiezza infinita del suo desiderio finché qualcosa – la “grande bellezza”? – non interviene a orientare l’una e l’altra verso l’Assoluto, ovvero verso l’unicum coesteso al cuore umano (ciò che nella pellicola non accade, in senso pieno, in alcun momento).
“La Chiesa de La grande bellezza” è dunque insufficiente, come Chiesa, perché si presenta come mero catalizzatore delle aspirazioni estetiche ed etiche del cuore umano, ma le manca un’autentica trascendenza, anche (e soprattutto) nel suo personaggio più “spirituale”, ossia la suora. Essa è poi discutibile come “porto cui approdano le domande di senso”, perché un porto è o una destinazione o uno scalo che permetta di proseguire il viaggio, e in nessuno dei suoi due campioni essa appare credibilmente una delle due cose. Essa è infine anche lontana dall’essere una caricatura stereotipata, quantunque i suoi principali rappresentanti siano effettivamente (e variamente) caricaturali: non sembra dato di ravvisare una particolare malizia o una particolare acredine, nell’opera di Sorrentino, tantomeno nutrita da accecamenti ideologici; la sua Chiesa risulta invece caricaturale senza essere una caricatura, perché non muove al riso né all’indignazione, ma alla tristezza e a una sconsolata com-passione (che di salvifico ha probabilmente ben poco), e a lei si rivolge tacitamente il medesimo affettuoso monito che Gambardella muove a Stefania – con lei e con tutti i personaggî, infatti (benché nel modo loro proprio), anche il Cardinale e la suora restano muti o vaghi sulla questione della destinazione dell’uomo, ovvero sul destino dei suoi desiderî.
Piccola nota metafisica: cos’è, dunque, la “grande bellezza”, e dov’è nel film? Essa è probabilmente una nostalgia e un anelito indefinito. Certo, questo è facilmente condivisibile – ma “nostalgia e anelito” a cosa? I medievali solevano elencare i loro trascendentali (“loro” perché con Kant si è smesso di farlo), ossia le proprietà peculiari di ogni ente in quanto ente, e dell’ens in quanto tale, in quest’ordine: unum, verum, bonum, pulchrum [uno, vero, buono, bello]. Agli ultimi due fanno capo proprio l’estetica, col Cardinale, e l’etica, con la suora. L’unità è il segreto della bellezza, il cui mistero è l’armonia delle parti – ossia la riconducibilità, facile e godibile, del molteplice all’uno. La bellezza è intuitiva, dà piacere e ne dà largamente, senza sforzo, ma se tutto questo è ancora molto ben comprensibile sia al Cardinale sia alla suora (che pure in gioventù aveva letto e apprezzato il libro di Gambardella), resta nondimeno inattingibile – e dunque oggetto naturale di anelito e nostalgia – perché il ponte tra l’unità dell’essere (e la sua armonia) e il binomio di buono e bello – ciò che sono, in fondo, il Cardinale e la suora – è la verità.
Questa sarebbe – si potrebbe dire – la “grande bellezza”, che riempie della sua assenza (più che di sé) tutta l’atmosfera della pellicola. Ma questa sarebbe pure la “vera Chiesa”, se nel film ve ne fosse una. In realtà, pare, non c’è una “grande Chiesa” (uso l’espressione di Celso, ironica in origine, con accezione seria e positiva) ne La grande bellezza, ma solo due “piccole Chiese”, che rappresentano le declinazioni secondarie del desiderio dell’uomo “smaltate di sacro”.
Chi ha conosciuto e conosce la “grande Chiesa” le riconosce anzitutto il pregio di conferire la libertà agli uomini – una libertà vera perché effettiva e (quindi) spendibile in un dato contesto, non aleatoria e perpetuamente totipotente – e il merito di conferirla loro tramite la somministrazione della Verità. Verità sulle cose e, anzitutto, sull’uomo in rapporto all’Assoluto che gli va incontro. Se il Cardinale e la suora fossero stati esponenti della “grande Chiesa” l’una e l’altro sarebbero stati personaggî gioiosi – ciò che nessuno dei due è. La grande bellezza sembra dunque un manifesto della nostalgia della verità (e della Verità), e se qualche biasimo si può fare alla pellicola è “soltanto” che talvolta sembra indugiare compiaciuta, come Jep che penzola sull’amaca, tra la brama estetica e l’aspirazione etica, senza trovare al tutto un punto prospettico decisivo. Eppure la vita nascosta, silenziosa e attiva, non “felliniana”, di tante, tantissime persone, sembra dire che la “grande bellezza” esiste. E che la sua casa è la “grande Chiesa”.
*: per una rassegna di alcune letture interessanti del film si vedano la pagina di D’Avenia uscita su Avvenire, altre considerazioni del medesimo autore, condivise però sul suo blog, una recensione moderatamente positiva di Marina Corradi e una, decisamente più dura e critica, di Emilio Ranzato.
Mi spiace non essermi accorto che, con il limite dei caratteri, il risultato é il mio commento spezzettato, quindi incomprensibile. Riproverò scrivendo in piu parti… Saluti. Maurizio
Condivido! Io ci leggo il drammatico grido umano (anche se in questo caso diventa disperazione dopo essere passato velocemente per la rassegnazione) di Jep (Sorrentino) che in sintesi chiede alla Chiesa Ebbene, la chiesa (usa la minuscola apposta) risponde, anzi non risponde con i due personaggi; con il Cardinale manifesta assenza di Cristo cioé codardia e futilità, con la suora Cristo tradotto in buonismo che propone la sola strada…