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Tra identità e alterità c’è “Fuocoammare”

La tragedia dei migranti morti in mare raccontata con un occhio al mistero della vita.

rosi9-200x160Il film-documentario di Gianfranco Rosi Fuocoammare, premiato con l’Orso d’oro al festival internazionale del cinema di Berlino, è un film da non perdere, perché affronta un problema – dire “immigrazione” è riduttivo – che ci riguarda da vicino, così da vicino che diventa difficile farsene un’idea chiara, dai contorni nitidi, lungimirante. Proprio questa impressione di horror vacui, alla fine del film, accompagna lo spettatore come un migrante verso l’ignoto. La protagonista di Fuocoammare è Lampedusa, quindi un’isola; un posto dove la terra non è mai veramente terra, perché dovunque sei vedi «sempre cielo e mare» ma proprio sempre. Il cielo e il mare sono invadenti su un’isola, e la terra diventa un elemento inferiore al loro cospetto. Se l’isola è una, Rosi guarda Lampedusa da due prospettive: una è quella dell’identità, l’altra è quella dell’alterità.

Da una parte c’è la Lampedusa dell’identità, degli stanziali che hanno radici tanto radicate da sembrare immobili. È la Lampedusa della quotidianità sempre uguale a sé stessa; dove gli uomini sono tutti pescatori, mentre le donne fanno quel tipo di vita casalinga che si concede il lusso di spendere mezz’ora per ricomporre un letto come fosse un altare. Tutti parlano il dialetto, sull’isola, anche se a scuola si insegna l’inglese; tutti ascoltano una trasmissione radiofonica di una radio locale, e dedicano canzoni della tradizione siciliana come è “fuoco a mare” – una espressione gergale per indicare che “c’è mare agitato”. Questo è il microcosmo dell’identità nel quale Rosi non fa entrare gli immigrati, perché potranno pure sbarcare sulla terra ma l’identità dell’isola è un’altra cosa. E poi c’è un bambino, un “teppistello” adolescente, che ha una fionda rudimentale con la quale vuole fare centro e un problema ad un occhio pigro che gli rende difficile prendere la mira. Anche nell’identità tranquilla e immobile entra il “problema”, l’imprevisto. In fondo, nella vita siamo tutti sulla stessa “barca”: vogliamo fare “centro” ma qualche “problema” ci rende difficile raggiungere il “bersaglio”. Ad un certo punto il bambino comincerà a mimare di sparare all’aria, perché, se la natura ti impedisce di fare centro con un occhio pigro, ti dovrai pure arrangiare; e, quando ti devi arrangiare, si sa che la rabbia prima o poi sale. Anche il microcosmo dell’identità, in fondo, non è immune da problemi; anzi, ha “i suoi problemi”.

Unknown-300x168Dall’altra parte c’è la Lampedusa dell’alterità: quella dei migranti, degli scafisti che parlano inglese, dei barconi fatti di carne ed ossa, di nafta ed olio. Ci sono anche i moribondi trascinati giù dalle navi, mezzi morti, e quelli morti chiusi nei sacchi. Tanti primi piani: sono volti e sguardi, che ti fissano. Su tanto mistero di dolore, che non si sa da dove viene e dove va, stride quel dorato brillante, come vestiti a feste, delle coperte isotermiche. Perché l’alterità è venuta a sconvolgere l’identità? Alla domanda risponde – in una delle scene più caratterizzanti e suggestive del film – un profugo nigeriano, che nel centro di accoglienza intona un rap ritmato, molto ritmato, che ripete: «il deserto, la prigione, gli stenti, il mare non ci hanno fermato», «la vita è R-I-S-C-H-I-A-R-E». Quando i migranti si sfidano a calcio, sono uomini come tutti, per giocare formano le squadre: nigeriani, eritrei, libici…ecc., perché anche nell’alterità c’è identità, e l’identità difende sempre la parte “sua”.

La Lampedusa dell’identità e quella dell’alterità, che non sono poi così diverse, s’incontrano attraverso la figura di un medico del posto la cui quotidianità ormai è scandita minuto per minuto dall’immigrazione. Nei minuti più belli del film, come fosse una confessione, il medico racconta le due facce della sua professione a servizio dei profughi: accogliere la vita, quando rianimi uomini, salvi bambini, fai partorire donne, tagli i cordoni ombelicali sulle barche; dover accogliere la morte, quando la constati irrimediabilmente, ancor più se muoiono tra le tue mani – donne, bambini, uomini – e niente puoi più fare. Con la battuta in cui il medico ricorda che «quando si hanno quelle vite tra le mani, si capisce che è un dovere di ciascun uomo salvarle», Rosi dedica il miglior tributo a tutti i cittadini di Lampedusa, ai volontari, ai sanitari, agli operatori, ai militari e marinai – presenti nel film come folla anonima coperta da tute e mascherine, ma che anonima non è – per il bene che hanno compiuto e continuano a compiere. L’Europa ed il mondo devono almeno un nobel per la pace a Lampedusa e ai suoi miracoli quotidiani, e questo film lo ricorda immagine dopo immagine, tra un tramonto, un’alba, il dinoccolare delle navi e la spuma del mare.

Gli immigrati e gli stanziali, l’ingiustizia e la solidarietà, le lacrime e l’indifferenza, i giovani e i vecchi, le donne e gli uomini, la fame e la sazietà, ridere e piangere, giocare e annoiarsi, su tutto la vita e la morte. Insomma, tutto – proprio tutto – non è un problema di identità e di alterità, di accoglienza o di chiusura. Lo è in parte, ma è anche di più della retorica delle parti avverse: è un mistero, è il mistero stesso della vita. E davanti al mistero un film serve a tenere alte le domande, mica a dare le risposte. Tenere alte le domande, come l’ultima splendida immagine del film che non è terra né mare e sembra dire:

«Dimmi, o luna: a che vale

Al pastor la sua vita,

La vostra vita a voi? dimmi: ove tende

Questo vagar mio breve,

Il tuo corso immortale?»

Trailer Fuocoammare

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I versi sono tratti da: G. Leopardi, in Canti (1831), Canto di un pastore errante nell’Asia, vv.16-20.