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Il terremoto: ieri come oggi

Il terremoto di Lisbona del 1755 innescò un acceso dibattito tra i maggior filosofi illuministi sul problema del male e sulla teodicea. Il terremoto, ieri come oggi, rinnova le eterne domande di senso dell'uomo.

Dinanzi alla furia cieca di un terremoto, allo strazio per la morte degli innocenti, aggrappato alle macerie della quotidianità, quando è persa la certezza psicologica di un riferimento stabile, ciascun uomo resta scosso dalla domanda di senso più vertiginosa: “perché il male?”; mentre altri possono spingersi fino all’estrema interrogazione: “Se Dio è buono, perché c’è il male?”. Per il filosofo, il teologo, lo scienziato, si presenta ciclicamente il problema di interpretare un fenomeno così difficile da spiegare, ma il terremoto di Lisbona del 1755 assunse un significato particolare in seguito alla pubblicazione da parte di Voltaire del «Poema sul disastro di Lisbona» (1756), destinato a provocare la vivacissima reazione intellettuale dei maggiori filosofi dell’Illuminismo.

disastro-di-lisbona-300x161Il giorno di Ognissanti del 1755, la città di Lisbona fu completamente distrutta da un terremoto pari al IX grado della scala Richter, accompagnato da un maremoto oceanico di vaste proporzioni. In circa sei minuti morirono sessantamila persone, secondo alcune fonti. Per la prima volta, grazie alla stampa, le testimonianze dei sopravvissuti e i particolari dell’evento si diffusero copiosi. Ancora più straordinaria fu la reazione intellettuale in tutta Europa: il terremoto rinnovò le eterne domande sul male, su Dio, sulla natura, sul destino dell’uomo, e i pensatori – filosofi, teologi, scienziati – espressero le proprie idee a riguardo in pubblicazioni di vario genere. L’illuminista François Marie Arouet de Voltaire (1694-1778), re dei philosophes, compone il Poema sul disastro di Lisbona nel baleno di dieci giorni, lanciando una specie di proclama contro ogni teodicea giustificazionista e consolatoria sui mali del mondo. Voltaire intende la catastrofe come un valido argomento contro la Provvidenza cristiana, perché permetterebbe mali gratuiti e orribili, sia contro Leibniz e il suo ottimismo del «tutto è bene nel migliore dei mondi» ispirato dal concetto della perfezione di Dio:

«O infelici mortali! O terra di pietà!
O cumulo spaventoso di tutti i flagelli!
Successione eterna di inutili dolori!
Filosofi illusi, che gridate “Tutto è bene“,
accorrete, contemplate queste orrende rovine,
queste macerie, questi detriti, queste ceneri miserande,
queste donne, questi bambini ammucchiati l’uno sull’altro,
queste membra disperse sotto i marmi infranti;
centomila sventurati divorati dalla terra,
che terminano i loro giorni miserevoli sanguinanti, straziati e ancora palpitanti,
sepolti sotto le loro case, senza soccorso, fra orribili tormenti! [vv. 1-12]
Direte vedendo questi orribili mucchi di vittime
“Dio si è vendicato, la loro morte è il prezzo dei loro delitti?”
Quale errore, quale delitto hanno commesso questi fanciulli
schiacciati, sanguinanti, sul seno materno?
Lisbona, che più non esiste, ebbe forse vizi maggiori
di Londra, di Parigi, immerse nei loro piaceri?
Lisbona è distrutta e a Parigi si danza». [vv. 17-23]

Tralasciando l’enfasi polemica, e le questioni squisitamente filosofiche, i versi di Voltaire sembrano esprimere bene la vertigine da cui è preso l’uomo – ieri come oggi – quando è scaraventato davanti ad una sofferenza apparentemente inspiegabile. In questi nostri giorni, nei paesi colpiti dall’ultimo terremoto, come un tempo in terra di Lisbona, la morte di bambini, vecchi, donne, uomini – che, senza alcuna colpa sono stati schiacciati dalle pareti delle loro stesse case o sono stati, in generale, vittime delle leggi di natura – ha riacceso con forza il problema del male generando in molti un solo grido, come i soccorritori hanno riferito: “Perché tanto male, e Dio dov’è in tanto dolore?”
Nella «Lettera a Voltaire sul disastro di Lisbona» del 18 agosto 1756, Rousseau rispose a Voltaire, invitandolo a rivedere il giudizio sull’insensatezza del terremoto e l’esistenza del male nel mondo, incominciando dal considerare la responsabilità dell’uomo prima di imputare la colpa del male a Dio. Alcuni pensieri espressi nella lettera di Rousseau richiamano, sorprendentemente, il discorso sulla responsabilità degli uomini pronunciato da Mons. Pompili durante i funerali per le vittime di Amatrice:

«Restando al tema del disastro di Lisbona, converrete che, per esempio, la natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto. Ciascuno sarebbe scappato alle prime scosse e si sarebbe ritrovato l’indomani a venti leghe di distanza, felice come se nulla fosse accaduto. […] Avreste voluto — e chi non l’avrebbe voluto! — che il terremoto si fosse verificato in una zona desertica, piuttosto che a Lisbona. Si può dubitare che non accadano sismi anche nei deserti? Soltanto che non se ne parla perché non provocano alcun danno ai Signori delle città, gli unici uomini di cui si tenga conto. Del resto, ne provocano poco anche agli animali e agli indigeni che abitano, sparsi, questi luoghi remoti e che non temono né la caduta dei tetti, né l’incendio delle case. Ma che significa un simile privilegio? Vorrebbe forse dire che l’ordine del mondo deve assecondare i nostri capricci, che la natura deve essere sottomessa alle nostre leggi e che per impedirle di provocare un terremoto in un certo luogo basta costruirvi sopra una città?».

JohnFoxrousseauCi sono avvenimenti che colpiscono di più o di meno secondo la prospettiva dai cui si considerano e, per Rousseau, migliore è quella della Provvidenza. Per il filosofo il male esiste, certo, ma bisogna distinguere tra «tutto è bene» e «il tutto è bene» o «tutto è bene per il tutto», dove l’articolo “il” invita a considerare la bontà del creato nel suo complesso e non nelle singole parti: «E di fronte all’evidenza di tanta utilità, basterà il danno prodotto al genere umano dalle saltuarie sventure che comporta, per esimerci dalla gratitudine che dobbiamo alla Provvidenza per tutto ciò che ha disposto?». Rousseau riconosce di credere nell’immortalità dell’anima e nella Provvidenza divina perché, in sostanza, non potendo dimostrare tanto l’esistenza di Dio quanto l’inesistenza, giova maggiormente pensare che Dio esista e che tutto sia stato ordinato in vista di un Bene eterno. Credere nella Provvidenza non ottenebra la ragione, invitando a ricercare le cause reali del male, ma apre alla speranza; vivere senza fede, invece, significa rassegnarsi al male, o, peggio, cadere nell’irragionevolezza di imputare la causa del male a quella Provvidenza nella quale si afferma di non credere: «Allora, mille motivi mi spingono di preferenza sul versante dove vi è maggior consolazione e aggiungono il peso della speranza all’equilibrio della ragione». Anche Kant s’inserì nel dibattito originato dal terremoto di Lisbona, pubblicando nel 1756: «Storia e descrizione naturale dei fenomeni più considerevoli del terremoto che alla fine del 1755 ha scosso gran parte della terra». L’analisi di Kant è una sorta di “critica del terremoto nei limiti della ragione”, volta a dimostrare che i terremoti sono fenomeni naturali prodotti dalle stesse leggi di natura che reggono ogni altro evento sulla terra.

Il terremoto di Lisbona del 1755 fu una catastrofe dagli influssi sorprendenti sul pensiero moderno, perché segnò l’inizio di un modo nuovo di affrontare il problema del male e, in particolare, la problematica compatibilità fra l’esistenza di Dio e quella del male nel mondo. L’“illuminista” che fa un buon uso della ragione non attribuisce a Dio in cui non crede la causa del male né usa il male come argomento contra l’onnipotenza o bontà di Dio, perché – come scrive Rousseau – «tali prove dipenderebbero da una conoscenza perfetta della costituzione del mondo e dei fini del suo creatore, e una conoscenza di questo tipo è incontestabilmente al di là di ogni intelligenza umana». L’uomo di fede, da parte sua, deve ricercare con la ragione le cause e i rimedi al male che incontra senza cadere nel fideismo o, peggio, in un ingenuo ottimismo, a patto che gli si lasci la libertà di guardare la realtà dalla prospettiva della Provvidenza, aperta alla speranza che «il tutto è bene» o «tutto è bene per il tutto». Ogni catastrofe, ieri a Lisbona come oggi nell’Italia Centrale, rinnova inevitabilmente le domande sul male, su Dio e sul destino dell’uomo: l’augurio è che ragione e fede soccorrano gli uomini secondo necessità, libertà e coscienza.