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Come distinguere l’adulatore dall’amico

Per quale motivo abbiamo bisogno nella nostra vita di un qualche amico che svolga il ruolo di "parresiastes", di quello che ci dice la verità? Risponde Plutarco, in un sapiente opuscolo dal titolo italiano "Come distinguere l'adulatore dall'amico".

Se non c’è sincerità, non c’è amicizia. L’amico vero ti dice sempre la verità! Di strilloni sull’utilità della franchezza in amicizia ce ne sono tanti; e ognuno di noi, almeno una volta, sarà stato un piccolo diligente apologo dell’amico sempre sincero. Eppure il parlare con franchezza può incrinare l’amicizia, se non portare addirittura alla rottura definitiva. Quando per esempio qualcuno vede un amico commettere un errore, può incorrere nelle sue ire dicendogli che dovrebbe comportarsi in un altro modo, o sta sbagliando in ciò che pensa, nel modo di agire, e così via. Chi è criticato non è sempre docile e ben predisposto verso la schiettezza dell’amico; chi parla con franchezza, del resto, non necessariamente afferma la verità o sa essere rispettoso, discreto, misurato, quando si presenta zelante con il suo “pronto soccorso verità”. Insomma: il parlare con franchezza giova all’amicizia? Come possiamo riconoscere l’amico che dice il vero per il nostro bene?

imagesEsiste un testo di Plutarco che è esplicitamente dedicato al valore della parresia – espressione greca che indica il concetto di «franchezza nel dire la verità» – proprio in riferimento all’amicizia. Etimologicamente parresiazestai significa «dire tutto». Colui che usa la parresia, il parresiastes, è qualcuno che dice tutto quello che ha in mente, esponendosi a qualsiasi rischio, perché riconosce che dire la verità è un dovere per aiutare gli altri a vivere meglio. Il titolo del testo di Plutarco, inserito nei Moralia, è Come distinguere l’adulatore dall’amico (Moralia, I, 261-395). Secondo l’Autore ci sarebbe una precisa ragione, nella vita, per allontanare gli adulatori e ricercare almeno un amico che svolga il ruolo di parressiastes, ossia di colui che dice la verità:

«Siccome ciascuno, autocompiacendosi, è il primo e principale adulatore di sé, accetta senza difficoltà un testimone esterno che venga a confermare i suoi desideri e le sue illusioni. Infatti colui che apprezza gli adulatori è in realtà una persona che ama molto se stessa, e che per questa sua propensione desidera e crede di possedere tutti i pregi. L’adulatore, opponendosi ogni istante al “conosci te stesso”, induce ciascuno a farsi proprio un’idea fallace di sé e dei beni e dei mali che lo riguardano, rendendo i beni difettosi ed i mali affatto incorreggibili» [Ibid.,49 a-b].

Noi siamo per natura gli adulatori di noi stessi, dunque, ed è proprio per proteggerci dall’«amore di sé» (philautia) che abbiamo bisogno di un parresiastes: uno capace di aiutarci nella conoscenza di ciò che siamo veramente. Plutarco associa la parresia al tema della cura di sé (epimeleia eautou), dell’educazione dell’anima, come fecero per primi gli epicurei e la scuola stoica di Epitteto, Seneca e tutti gli autori che intesero la filosofia come «arte della vita» (techne tou biou). Chiarito il motivo per cui avremmo bisogno nella vita di qualche amico che ci dica la verità su noi stessi, resta quest’altra domanda: «Come è possibile distinguere il vero parresiastes dall’adulatore?». Plutarco propone in merito due criteri. Ci deve essere corrispondenza, accordo armonico, tra ciò che il parresiastes dice e quello che fa; ancor di più bisogna considerare la continuità, stabilità, risolutezza del parresiastes nelle proprie scelte, opinioni, pensieri:

«Per prima cosa bisogna vedere la coerenza e la continuità del suo genere di vita, se si diletta sempre delle stesse cose e loda sempre le stesse cose, e se regola e indirizza la propria esistenza secondo un unico modello. Tale infatti è l’amico. L’adulatore, il cui carattere è per così dire senza fissa dimora, […] non è semplice né coerente, ma molteplice è svariato, e passa da un modello all’altro come l’acqua che si travasa, che scorre e assume la forma dei recipienti» [Ibid., 52 a-b].

Plutarco stabilisce una relazione tra l’autoinganno e la risolutezza nei propositi, la costanza o persistenza delle idee. Quando mentiamo a noi stessi ci impediamo di sapere chi siamo e cosa vogliamo, disperdendoci da un pensiero all’altro, da un sentimento all’altro, da un’opinione all’altra. L’adulatore è come uno specchio che ci rafforza nell’autoinganno, perchè lui stesso non è solido, ben piantato in sé, ma è guidato da convenienze e stimoli sempre diversi. L’amico vero non sta sempre ad occuparsi della vita dell’altro, a sommergerlo di consigli, di propositi edificanti, attenzioni compiacenti; il parresiastes, che può liberarci dai quotidiani inganni causati dal nostro amor proprio, è chi per primo conosce bene se stesso, ha una visione solida, chiara, costante della vita e del mondo, e, proprio in quanto tale, può aiutare l’amico a discernere esattamente chi sia, a raggiungere un completo dominio di sé, a non essere smosso da alcunché di esterno.

Chi trova un parresiastes, lo tenga ben stretto! Non scappa, ma è facile perderlo preferendo un adulatore che soddisfi «l’amor proprio». Chi trova un parresiastes trova un tesoro: se stesso.