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Alternanza scuola-lavoro e rassegnazione

Come interpretare il malcontento mostrato dagli studenti rispetto all'alternanza scuola lavoro? I giovani hanno qualcosa da insegnare tanto alle aziende quanto alla scuola.

L’idea dell’alternanza scuola-lavoro è nata nel 2003 per gli studenti che frequentavano gli istituti tecnici. Da quel momento la scuola è stata gradualmente investita da interventi legislativi volti a promuovere un nesso sempre più forte tra scuola e lavoro. E poi è arrivata la “Buona scuola” che ha esteso l’alternanza scuola-lavoro al triennio conclusivo di tutti gli indirizzi di studio delle istituzioni secondarie di secondo grado, con l’obiettivo di avvicinare i giovani da subito al mondo del lavoro e orientare meglio le loro scelte lavorative future. Sia che alla fine delle scuole superiori si scelga di andare subito a lavorare, sia che si scelga di continuare gli studi frequentando l’università, tutti gli studenti, prima o poi, approderanno (si spera) nel mondo del lavoro, e fare esperienze lavorative già dagli istituti superiori, indipendentemente che siano istituti tecnici o licei, non può che essere un’ottima opportunità. Il ragionamento non fa una piega. L’idea dell’alternanza scuola-lavoro sembra ottima, ragionevole, realistica e lungimirante. Eppure c’è un “eppure”.

Da quello che apprendiamo dalle cronache dei giornali delle ultime settimane, e che si può scoprire anche con una semplice ricerca in rete, molti studenti si sono lamentati denunciando di essere impiegati dalle aziende in mansioni non inerenti al loro percorso di studi o in compiti che molti definiscono “umili”, e che comunque le ore spese in azienda (anche dieci consecutive) sono ore sprecate a fare qualcosa che non ha alcuna attinenza con le loro future scelte lavorative. Secondo le denunce alcune aziende sfrutterebbero l’alternanza scuola-lavoro per procurarsi manodopera gratuita, impiegherebbero gli studenti anche nelle mansioni più basse che nessuno vuole fare, e, dal momento che costoro non vengono retribuiti, si tratterebbe in buona sostanza di sfruttamento. Al di là dei singoli casi, sui quali spetta agli organi competenti indagare, la nuda cronaca mostra qualcosa d’incontrovertibile: scuola e aziende non sono unite intorno ad un comune progetto educativo e non esiste ad oggi alcun protocollo di controllo per evitare lo sfruttamento degli studenti, là dove si verificasse, certo, senza criminalizzare a priori le aziende. E su tutto questo scenario campeggia indubbiamente il malcontento mostrato dai giovani.

Partiamo dall’alleanza scuola-aziende. L’obiettivo dell’alternanza scuola-lavoro non è quello di offrire un’esperienza occasionale in contesti lavorativi in cui applicare i saperi scolastici, quanto creare un’offerta formativa integrata – tra scuola e azienda – con l’obiettivo di favorire nei giovani l’acquisizione di competenze e la valorizzazione delle vocazioni professionali. L’apprendimento per competenze richiede inoltre l’adozione di prassi valutative per verificare l’efficacia dell’offerta formativa proposta. Tutto questo implica necessariamente una progettazione condivisa tra scuola e azienda: la scuola non deve delegare parte del proprio compito educativo all’azienda; le aziende devono sentire la responsabilità educativa e sociale degli studenti che ospitano. La scuola dovrebbe in sostanza coinvolgere le aziende nella progettazione di percorsi formativi ben integrati nel piano di studi, così come gli imprenditori e i responsabili aziendali dovrebbero imparare a sentirsi veri educatori responsabili dei ragazzi ospitati. Naturalmente la collaborazione tra azienda e scuola permetterebbe un maggiore controllo, evitando eventuali casi di sfruttamento che ci sembrano imputabili più alla negligenza del sistema che a un deliberato dolo da parte delle aziende. Attualmente, in Italia, questo sistema integrato tra scuola e azienda non esiste in modo formalizzato e centralizzato, lasciando alle Regioni l’attuazione dell’alternanza scuola-lavoro, con il risultato che a qualche sparuto esempio virtuoso ne corrispondono molti fallimentari.

E veniamo ora alla questione più spinosa: il malcontento mostrato dai giovani. Sulle prime, messi di fronte alle lamentele e alle ragioni addotte dai giovani, viene un po’ voglia di salire in cattedra per far capire loro che per arrivare al lavoro ideale, qualunque esso sia, bisogna sempre partire dal basso e faticare, e che dunque affiancare precocemente alla scuola esperienze dirette con il mondo del lavoro non può che aiutare a preparare il futuro. Esistono lavori diversi, più o meno impegnativi, ma di sicuro ognuno ha il dovere di dare il proprio contributo alla società, e, qualunque lavoro svolga, anche il più “umile”, è un uomo che merita rispetto.

Bene: parole sacrosante! Chi non le condividerebbe? Eppure c’è un “eppure”.

Di ragazzi che accettano “lavoretti” per mantenersi agli studi, o concedersi qualche sfizio senza gravare sulle famiglie, ce ne sono e pure tanti. Ragazzi che lavorano nel fine settimana, in estate, nei ritagli di tempo dallo studio, con esperienze anche all’estero. Perché dovrebbero protestare, allora, se è la scuola a catapultarli nel mondo del lavoro? Qualche studente sfaticato e viziatello ci sarà, certo, eppure attraverso le proteste – secondo noi – è come se i giovani formulassero una domanda più che sensata: il compito della scuola è quello di formare un “Uomo nuovo”, portatore di un pensiero critico, capace di migliorare la società futura con le competenze e le conoscenze acquisite negli anni di studio, oppure è quello di asservire i propri studenti all’odierna logica del mercato liberista e del profitto? Gli studenti fanno bene a lamentarsi di una scuola il cui ruolo educativo sembra essere quello di svezzare gli studenti, il prima possibile, al peggio del mondo del lavoro: sperimentare la frustrazione di non trovare il lavoro per cui si è studiato e che, magari, sia anche ben retribuito, passando da un “lavoretto” all’altro (per giunta non retribuito). E quale sarebbe allora il compito della scuola?

Innanzitutto, la scuola dovrebbe insegnare agli studenti che loro hanno già un lavoro: è studiare. E questo lavoro richiede molte ore, molto impegno, tanto allenamento mentale e fisico. Da questo lavoro s’impara la puntualità, la motivazione, il senso del dovere, il mantenere la parola data, la sconfitta, la collaborazione, il merito, il rispetto dei ruoli, la responsabilità e tante altre cose che serviranno anche nel lavoro futuro. E poi la scuola dovrebbe insegnare tanto senso critico e tante conoscenze nuove con cui i giovani possono – devono – entrare nelle aziende, per fare esperienza di lavoro alternativamente alla frequenza della scuola. Dove “esperienza di lavoro” non significa assecondare il mercato e la logica d’impresa vigente, quanto piuttosto mettere a disposizione delle aziende un’adeguata formazione e un valido pensiero critico; entrambi imparati svolgendo il proprio lavoro: studiare.