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Tra credenti e atei il verbo più usato è «credere»

Nella domanda su Dio, il verbo più usato è «credere». Tra credenti e atei, la quaestio è: «Credi in Dio?», oppure uno dice «Io non credo in Dio». È necessario intendersi innanzitutto sul significato del verbo «credere».

Esiste un uomo che non si sia mai interrogato su Dio? Talvolta colui che si dichiara ateo non è semplicemente chi non crede in Dio perché non vuole credere, o perché gli è indifferente credere, ma è anche quello che adduce (o deduce) motivi razionali per non credere in Dio. Tali motivi devono essere presi in seria considerazione e l’unico modo è quello di rendere ragione della fede, con argomenti razionalmente validi rispetto alle obiezioni.

Nella domanda su Dio, il verbo più usato è «credere». Tra credenti e atei, la quaestio è: «Credi in Dio?», oppure uno dice «Io non credo in Dio». È necessario intendersi innanzitutto sul significato del verbo «credere». Nel linguaggio corrente tale verbo è usato come forma debole di conoscenza (credo sia così… anche se). Nella quaestio «Dio» il ricorso al verbo «credere» ha invece tutt’altro significato: sta a indicare che la domanda riguarda la totalità dell’uomo, tutte le sue facoltà, non soltanto l’intelligenza, non soltanto la volontà, non soltanto il sentimento. Scrive J. Ratzinger, in Il problema di Dio nel mondo contemporaneo [a cura di Umbero Casale, Lindau, 2011, pp. 36-37]:

«Senza questa totalità, la domanda su Dio risulterebbe monca: soltanto una questione razionale o scientifica (fraintendimento in chiave intellettualistica) qualora fosse soltanto la ragione a esserne coinvolta; soltanto un problema della volontà (fraintendimento in chiave volontaristica) qualora fosse soltanto la volontà umana a essere chiamata in causa; soltanto un affetto (fraintendimento in chiave sentimentalista) qualora fosse solo il sentimento a essere attrezzato per la risposta».

La scelta del verbo «credere» ha dunque un motivo preciso: rispettare questa esigenza di totalità. Usando le parole di Ratzinger: «Credere indica, a un tempo, stabilità di posizione e di relazione, scoperta del fondamento, fiducia e abbandono in un altro, aderire a qualcuno scegliendolo come contenuto dominante della propria esistenza» [Ivi, p. 37]. La domanda su Dio va dunque affrontata con l’intervento della ragione e del conoscere, della volontà e del decidere, del sentimento e dell’amare. «Con il cuore si crede» (Rm 10, 10) – direbbe il lessico biblico – intendendolo come la «facoltà delle facoltà», il «centro organizzativo di tutto l’uomo».

Il «non credente» in Dio potrebbe contestare al «credente» di fondare le proprie argomentazioni su un presupposto non (solamente) razionale – il «cuore»; e considerare questo motivo più che sufficiente per viziare in partenza il valore veritativo dell’argomentazione addotta.

A ben guardare, la verità dell’argomentazione è svelata dagli stessi negatori di Dio: anche la negazione di Dio mette in modo la totalità dell’uomo; nella critica della religione propria dell’epoca modera, e contemporanea, c’è sempre un motivo che coinvolge l’intelletto, la volontà e il sentimento. In fondo, scrive Ratzinger, «la scelta a favore e la scelta contro Dio hanno sempre un carattere di totalità (di fede, appunto)».

Perché abbiamo voluto mettere in risalto questa “fede” comune a credenti e non credenti, senza dimenticare i “dubbiosi”? Per mostrare come credere o non credere siano, entrambi, questione di responsabilità: un atto dell’intelligenza e della libertà, che chiama in causa il nucleo più profondo di ogni esistenza (se è responsabile). Il credente e il non credente non sono chiamati a rendere ragione esclusivamente del proprio intelletto, ma di tutte le facoltà umane, perché è questa totalità che determina sempre la scelta a favore o contro Dio. La responsabilità è totale, per gli uni e per gli altri. Nessuno sfugge a questo; e tale responsabilità dura tanto quanto la vita di ciascuno, perché: «Chi pretende di sfuggire l’incertezza della fede, dovrà fare i conti con l’incertezza della incredulità, la quale, dal canto suo, non potrà mai nemmeno dire con inoppugnabile certezza se la fede non sia veramente la verità». È proprio nel rifiuto che si rende visibile l’irrefutabilità della fede». [J.Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo, Queriniana, pp.17-18].