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Santo Tito Brandsma: il giornalista carmelitano con la vocazione per la verità nella carità

Sacerdote, giornalista, editore, professore di filosofia e di storia della mistica nell’Università di Nimega, rettore della stessa università nel 1932, p. Tito Brandsma fu assistente ecclesiastico dell'Associazione dei giornalisti olandesi, con l'incarico di seguire circa una trentina di testate, difendendole dalla censura del regime nazionalsocialista. Fu ucciso da un'iniezione di acido fenico, il 26 luglio 1942, a Dachau.

Il prossimo 15 maggio papa Francesco proclamerà santo Tito Brandsma, il sacerdote carmelitano olandese, ucciso in odio alla fede, nel 1942, nel campo di sterminio di Dachau per ordine delle Ss. Sacerdote, giornalista, editore, professore di filosofia e di storia della mistica nell’Università di Nimega, rettore della stessa università nel 1932, p. Tito ha predicato e proclamato la cultura cristiana di fronte alla filosofia neopagana del nazionalsocialismo, servendo la verità e offrendo un esempio insigne di carità verso i compagni di detenzione e verso gli stessi carnefici. Per contribuire a diffondere la conoscenza di Tito Brandsma, la collana «Voci dal Carmelo» dell’editrice Àncora ha da poco pubblicato, in una edizione riveduta e ampliata, il volume intitolato «Il coraggio della verità»: una appassionante biografia che è la traduzione, ad opera di p. Giovanni Grosso, dell’originale spagnolo di Fernando Millàn Romeral, Tito Brandsma, apparso per la prima volta in Spagna, nel 2008, nella collana Sinergia, Serie Verde, 33, della Fundación Emmanel Mounier.

Secondo quanto riportato dall’agenzia Acistampa, più di 60 giornalisti provenienti dai Paesi Bassi hanno presentato, lo scorso 10 maggio, una petizione a Papa Francesco per fare di Tito Brandsma un patrono ufficiale del giornalismo, riconoscendo nel sacerdote carmelitano – si legge nella lettera – «qualcuno che ha condiviso la missione più profonda che dovrebbe guidare il giornalismo in tempi moderni: la ricerca della verità e della veridicità, la promozione della pace e del dialogo tra le persone». Molti anni prima, il 3 novembre 1985, il giorno in cui p. Tito veniva beatificato da papa Giovanni Paolo II, il telegiornale RAI cominciava con queste parole: «Oggi uno dei nostri colleghi è asceso alla gloria del Bernini».

Padre Tito, al secolo Anno Sjoerd, nato il 23 febbraio 1881 ad Ugokloster, nella Frisia orientale, Paesi Bassi, davvero sin da giovane aveva nutrito interesse per il giornalismo. Nel 1912 fondò il periodico Karmelrozen (Rose del Carmelo), che avrebbe raggiunto una tiratura di oltre 13.000 copie. Dal 1919 al 1923 diresse il periodico locale della città di Oss donandogli un grande prestigio e successo. Nel 1935 l’Arcivescovo di Utrecht, sua Ecc.za Mons. Johannes De Jong, nominò p. Tito assistente ecclesiastico dell’Associazione giornalisti cattolici, con l’incarico di seguire circa una trentina di testate giornalistiche. Ottenne anche la tessera della Federazione internazionale dei giornalisti. Nel discorso che pronunciò il giorno dell’insediamento, il carmelitano insistette su quelli che possiamo considerare i tre principi ispiratori del suo lavoro di giornalista: la ricerca rigorosa della verità, la profonda empatia con gli altri e la difesa della fede cristiana. Il giornalismo per Tito era una vera vocazione al servizio della verità nella carità. In una conferenza intitolata Nuove forme di giornalismo, così come in una serie di conversazioni radiofoniche nel settembre del 1936, alcune delle quali si conservano ancora oggi, il carmelitano insistette sul tono pacifico e conciliante che la stampa cattolica deve apportare nel campo generale dell’informazione. Leggiamo le sue parole nella citata biografia «Il coraggio della verità», p.32: «Tale carattere conciliatore non deve sorgere certamente da maneggi o dall’occultamento della verità, ma piuttosto dal mostrarla in tutte le sue dimensioni però nella carità e nel rispetto che devono sempre brillare in questo tipo di pubblicazioni». Non è difficile immaginare quanto tutto ciò risulti attuale per chi svolga oggi la professione giornalistica, e per la stampa cattolica, in particolare, considerando che p. Tito morirà per difendere la libertà di stampa dalla quale, vale la pena ricordarlo, anche la Chiesa non deve essere esclusa.

Con l’invasione tedesca dell’Olanda, il 10 giugno 1940, quando i nazisti danno inizio alla persecuzione degli ebrei e alla repressione dei cattolici, dalla cattedra di filosofia e storia della mistica nella Università Cattolica di Nimega, della quale il carmelitano fu eletto anche Rettore Magnifico nel 1932-33, partono i suoi primi attacchi all’ideologia nazista, che egli definisce «neopagana» e «peste nera» opponendovi la concezione cristiana della vita basata sulla carità. Intanto i nazisti promulgano una normativa per escludere i bambini ebrei dalle scuole cattoliche. Brandsma, in qualità di presidente delle scuole cattoliche, invierà una lettera ai collegi cattolici in cui respinge duramente questa normativa. Ma il vero calvario di resistenza al nazismo inizia sul fronte della difesa della libertà di espressione per la Chiesa cattolica. I nazisti danno vita ad una vera e propria persecuzione contro la stampa cattolica, che viene censurata e obbligata a pubblicare proclami ufficiali emanati dal governo di occupazione. Per incarico dei vescovi olandesi, p. Tito accetta – liberamente – un compito evidentemente pericoloso: recapitare a ciascun direttore di testate cattoliche una lettera che illustri le direttive della chiesa olandese per combattere il nazismo e l’ideologia che propugna perché ritenuta «completamente contraria alla concezione cristiana della vita e ai valori umani essenziali». In dieci giorni, viaggiando in treno, p. Tito contatta 14 direttori di giornali. Il quindicesimo lo attenderà invano. All’alba del 19 gennaio 1942 la polizia lo arresta nel convento di Boxmeer. Il carmelitano sarà portato prima nel carcere di Scheveningen. Qui scrive Il mio orario e La mia cella. Ambedue sarebbero stati uniti in seguito nel Diario di un prigioniero. Padre Tito continua anche in prigionia la sua febbrile attività intellettuale, che lo contraddistinse lungo tutta una vita, nonostante la salute fortemente cagionevole. In carcere comincia a scrivere anche la vita di Santa Teresa di Avila, tante volte programmata e sospesa per i troppi impegni e per i problemi di salute. Riuscì a scrivere 300 pagine: i manoscritti recuperati sono ancora conservati come reliquie dai carmelitani olandesi. Tuttavia, la testimonianza più evidente della sua fede, e della sua pietà eminentemente carmelitana per la passione di Cristo e per la croce, si ritrovano nella celebre poesia Davanti all’immagine di Gesù nella mia cella, che il prigioniero scrisse sempre a Scheveningen nel febbraio 1942.

Il 12 marzo 1942 è trasferito ad Amersfoort ai lavori forzati. Un inferno. Di nascosto consola i compagni, confessa i malati e i moribondi. All’ultimo interrogatorio risponde: «Se potessi, rifarei tutto ciò che ho fatto». Lo spediscono nel campo di Dachau: «A Dachau incontrerò nuovi amici. Il Signore è dovunque». In quell’«immenso serbatoio di lacrime» resta poco più di un mese, dal 19 giugno al 26 luglio 1942, nel periodo più disumano. Infonde coraggio e speranza nei compagni. Nell’ultima lettera ai confratelli carmelitani: «Per me ogni cosa è bella. Con l’aiuto di Dio tutto si risolverà. Siamo in un tunnel oscuro come Cristo nel sepolcro. Ma alla fine la luce brillerà anche per noi». Narra un sopravvissuto: «Nessuno è riuscito a metterlo in ginocchio». E un altro: «Mentre tutti camminavano curvi, camminava sempre dritto, sereno e libero interiormente». A p. Tito la solitudine non pesa e il carcere non spegne la sua vena di ottimismo e fine umorismo: «Dove io sto bisogna far festa».  

    Dal 19 giugno al 18 luglio 1942 padre Tito si trovò nel blocco 28, in cui erano radunati numerosi religiosi e sacerdoti. Il 18 luglio entrò nell’ospedale del campo, detto Revier, e vi rimase fino a dome­nica 26 luglio. Quel giorno, alle ore 14, venne ucciso da un’iniezione di acido fenico. Poco prima di morire, il sacerdote donò all’infermiera che lo stava uccidendo la propria corona del Rosario, fabbricata per lui da un internato. La donna, una giovane olandese infatuata dell’ideologia nazista, gli disse di non saper pregare ed egli le rispose che per farlo le sarebbe bastato dire: «Prega per noi peccatori!». Ella poi si convertì e, durante il Processo per la Beatificazione e Canonizzazione, rese la propria preziosa testimo­nianza sulle ultime ore di vita del carmelitano.

Il corpo di Brandsma, come quello di migliaia di altri prigionieri deceduti, venne verosimilmente cremato negli ince­ne­ritori del campo di Dachau. E con il suo corpo andarono dispersi anche molti suoi scritti sui temi più vari, da Sant’Agostino a Gemma Galgani, insieme a articoli sulla storia della spiritualità.

Tito Brandsma sarà patrono dei giornalisti cattolici, come richiesto dalla petizione presentata a papa Francesco? La figura sarebbe di certo adatta a questo speciale patrocinio. Senza dimenticare che egli fu un sacerdote, soprattutto, e un carmelitano, che aveva tratti tipici della spiritualità del suo ordine, prima di tutto per la devozione a Maria. A questo proposito, bisognerebbe mettere in evidenza una bella idea che egli ripeteva di frequente nei suoi scritti: «noi dobbiamo imitare Maria ed essere Theothokoi (generatori di Dio)». Tito Brandsma fu generatore di Dio in molteplici occupazioni, per tutta la vita, dovunque si andasse propugnando l’oblio di Dio nelle idee e nella pratica. Del resto, quando fu eletto sacerdote, il 17 giugno 1905, per il ricordino scelse una frase che sembra la migliore sintesi della sua biografia: «Sarà chiesto molto a chi è stato dato molto». Una vera profezia.