“Io prete da 50 anni per fare una Chiesa viva, dove nessuno è escluso”
Mons. Francesco Santuccione, abate della Cattedrale di San Cetteo
Quella di sabato 30 agosto sarà una giornata di giubilo per la Chiesa di Pescara-Penne, ma soprattutto per la parrocchia di San Luigi Gonzaga e per la Cattedrale di San Cetteo che celebreranno i 50 anni di sacerdozio di monsignor Francesco Santuccione (ordinato presbitero il 30 agosto 1975), che della prima comunità è stato parroco per 22 anni e 100 giorni dal 1990 al 2012 e della seconda è ancora l’attuale parroco e abate. Già vicario generale dell’Arcidiocesi di Pescara-Penne, monsignor Santuccione nella sua vita sacerdotale ha ricoperto ogni genere di incarico in diocesi, potendo vantare un’esperienza immensa. L’appuntamento per festeggiare l’importante traguardo, sarà dunque sabato alle 18.15 presso la parrocchia di San Luigi Gonzaga, nella piazza omonima. Da qui una processione, animata dalla banda musicale Città di Collecorvino, attraverserà viale D’Annunzio giungendo in Cattedrale dove l’arcivescovo di Pescara-Penne monsignor Tommaso Valentinetti celebrerà un pontificale solenne – trasmesso in diretta da Radio Speranza InBlu sugli 87.60 Fm (nella zona di Pescara-Chieti) e ovunque in streaming – a cui tutti sono invitati a partecipare. In vista dell’appuntamento, monsignor Francesco Santuccione si è voluto raccontare ai taccuini di La Porzione.it e ai microfoni di Radio Speranza InBlu.
Monsignor Santuccione, era il 2023 quando ci siamo lasciati celebrando i tuoi 50 anni di ordinazione diaconale e ora ci ritroviamo a celebrare i tuoi 50 anni di ordinazione sacerdotale. Un bel traguardo che la cui genesi risiede nell’episcopato dell’arcivescovo emerito monsignor Antonio Iannucci, la cui salma riposa tra l’altro proprio nella Cattedrale di San Cetteo, dal quale la vocazione del presbitero originario di Cepagatti venne per primo riconosciuta. Come avvenne questo momento?
«Mi sembra ieri quel giorno in cui fui ordinato sacerdote da monsignor Antonio Iannucci, a Cepagatti, un sabato sera. Ed è bello che questo mio anniversario ricorra 50 anni in un altro sabato sera, per celebrare il ringraziamento con il nostro arcivescovo monsignor Tommaso Valentinetti nella Cattedrale in cui presto servizio. Riflettendo sul mio passato, ringrazio il Signore e i genitori per il dono della vita. Poi, fin da piccolo, sentì la chiamata al sacerdozio e insieme al mio parroco, l’allora parroco Don Peppino Di Francesco, cominciai a compiere i primi passi e chiesi poi ufficialmente alla Chiesa, tramite il cammino del seminario, se il Signore mi chiamava, cioè se c’era la chiamata di Dio, la risposta mia e la conferma della Chiesa. L’arcivescovo ha visto che c’era la vocazione e mi consacrò dapprima diacono nel 1973 al vecchio Santuario di San Nunzio Sulprizio, e poi, nell’anno santo 1975, fui ordinato sacerdote dallo stesso arcivescovo».
Com’è arrivata questa vocazione?
«Avvenne in modo veramente misterioso perché nella mia famiglia umile e laboriosa di sei figli, con tre maschi e tre femmine di cui io sono il più piccolo – c’era pure la nonna (la mamma di papà) – e nella mia parentela di sacerdoti, suore, frati, non ce n’erano. E pure i miei fratelli e le mie sorelle si avviavano a compiere le loro scelte lavorative, poi affettive ed esistenziali. Io ho avvertito forte questa chiamata il giorno della prima comunione, durante il quale perfino svenni e ricordo che mi accompagnarono fuori le catechiste e le suore. Poi ho verificato, tramite il cammino in Seminario prima a Penne, poi a Chieti, poi con l’arcivescovo che mi ha ordinato prete, quindi vuol dire che c’è stata questa chiamata. Da questa chiamata poi è venuto tutto il resto, tutti i servizi. Solo questa cosa ho chiesto alla Chiesa, se avevo la vocazione a fare il sacerdote. Tutto il resto è venuto in obbedienza, semplicità e pace, con i vescovi che si sono alternati: gli emeriti monsignor Antonio Iannucci e monsignor Francesco Cuccarese, quindi l’attuale monsignor Tommaso Valentinetti».
Lei ha svolto ogni genere di servizio. Tra gli altri è stato rettore del Seminario di diocesano, direttore di uffici di Pastorale diocesana, di segretario arcivescovile e infine anche parroco. Un incarico, quest’ultimo, arrivato forse quando meno se lo aspettava, nel 1990, guidando per 22 anni la parrocchia di San Luigi di Gonzaga a Pescara. Poi, nel 2012, il secondo incarico da parroco come abate della Cattedrale di San Cetteo in corso ancora oggi. Ma, nel frattempo, per un periodo è stato anche vicario generale per dell’arcivescovo Valentinetti. E allora, tanti svolti in questi 50 anni, cosa le hanno lasciato?
«Monsignor Iannucci mi consacrò sacerdote il 30 agosto 1975. Poi, da allora, mi sono reso disponibile a ubbidire e a servire la Chiesa universale, ma in modo concreto la Chiesa diocesana, in cui io vivo, sono nato e opero. Mi ha sempre guidato quella frase che ho ritrovato nel libro della preghiera del mio amato parroco, monsignor Giuseppe Di Francesco, “Sognai che la vita è gioia, mi svegliai la vita è servizio, servendo ho trovato la gioia”. E allora in questi anni, con tutti i miei limiti, le mie debolezze, ma tutto il mio entusiasmo, mi sono messo a servizio dapprima della realtà diocesana nelle sue varie sfaccettature. Poi, inaspettatamente, il primo giugno del ‘90 mi sono trovato parroco e lì ho gustato il senso della paternità, della vicinanza a tutti i parrocchiani, a tutte le età e a tutte le situazioni. Poi c’erano gli universitari, i giovani, ho aperto il gruppo scout. Si era creato un clima di famiglia, di sinodalità in anteprima, perché a me piace accogliere tutto e tutti. Direbbe San Paolo, “Mi sono fatto tutto a tutti per salvarne il maggior numero”. Ho visto che la gente si è sentita unita, vivendo con gioia ed entusiasmo, dai chierichetti, ai giovani, ai ragazzi, agli anziani, anche grazie alla festa che si era creata. Vivevo in modo bello, sereno, tra l’altro monsignor Iannucci mi aveva fatto anche la nomina a vita come parroco. Poi, inaspettatamente, l’arcivescovo mi ha chiamato a prestare servizio in Cattedrale. Ho cercato di evitare, ho provato a dire di no, però poi ho chiesto a lui se questa fosse la volontà di Dio e lui mi ha citato gli Atti degli apostoli “Poiché è parso bene allo Spirito Santo e a noi”. Quindi sono andato in Cattedrale. E qui mi trovo da quasi tredici anni. I primi anni sono stati un po’ sofferti, ma poi ho capito che la Cattedrale non era la parola di San Luigi, ma era la sede della Chiesa diocesana, la sede del vescovo. Non a caso qui ci sono cinque porte, metafora di un’apertura maggiore da attuare dapprima coinvolgendo nuovi collaboratori. Alcuni li ho trovati, altri li ho coinvolti al fine di creare una parrocchia-cattedrale aperta a tutti, nessuno escluso, a cominciare dai poveri. Infatti da 12 anni ogni mattina offriamo a questi ultimi la colazione, grazie all’aiuto di tanti volontari che si mettono al servizio accoglienza di ogni mattina, offrire la colazione tutte le mattine, tanti volontari che si prestano a questo. Si tratta di un’opera delicata, così come quella dell’ascolto e della vicinanza alle persone che portiamo avanti aprendoci a tutte le realtà. L’ultima nata, a giugno, è stata quella del terz’ordine francescano. Io vengo da una famiglia numerosa e mi piace una Chiesa viva, partecipe, nella quale nessuno è escluso e tutti sono protagonisti nel servire il Signore e nel testimoniare il Vangelo».
In questo mondo, in questa società moderna in cui tutto si consuma in fretta, lei è riuscito a rimanere fedele a Cristo e alla Chiesa, come sacerdote, per 50 anni. Qual è il segreto per questo cammino così longevo?
«Per i primi 50 anni, perché di fronte a Dio mille anni sono come un giorno. Poi sulla città di mio padre, vissuto per 95 anni, che diceva sempre “se Dio me lo dà, io lo prendo”. Grazie. Appena divenuto prete mi sentivo già arrivato, perfetto, santo. In seguito, invece, ho visto che avevo tanti limiti. Ho imparato che sono una persona come un’altra, che porto tesori enormi – come il ministero sacerdotale – in vasi di creta. Ho scoperto i limiti, le debolezze, ho imparato a chiedere perdono, ad accogliere gli altri e, soprattutto, sento forte questo segreto, ovvero di rimanere attaccato al Signore. Cerco di stare con Gesù, nella preghiera e nell’ascolto della Parola. Stare col Signore e con lui andare. Allo stesso tempo mi rapporto con la realtà in cui vivo, con il vescovo, i miei confratelli sacerdoti, i diaconi, la realtà ecclesiale, i fedeli, anche quelli che non vengono. Ecco, sento questa apertura verso tutti, nessuno escluso. Un sacerdozio che un po’ ricomincia da capo dopo cinquant’anni, verso l’universalità, vivendo la cattolicità nella concretezza della nostra Chiesa diocesana».



