Una mattina
Sabato 11 aprile 1987 Primo Levi si toglie la vita gettandosi dalle scale. Un breve racconto di quella tragedia che vuole essere un omaggio a un autore che oggi ha ancora molto da insegnarci.
Sabato 11 aprile 1987.
Le 8 del mattino. A Torino, in corso Re Umberto 75, al terzo piano una donna spinge il bottone di un campanello; Lucia arriva dalla cucina e apre il portone alla donna. Si tratta di una consuetudine in quella casa, già dall’agosto dell’anno precedente: una routine indispensabile (forse anche tranquillizzante…) visto che mamma Ester era anziana oramai e le cure si erano rese sempre più necessarie; la signora Giordanino poi si era rivelata un’ottima infermiera, attenta e sempre premurosa, anche nei suoi confronti.
Da quando però era ritornato a casa, dopo l’intervento a cui si era sottoposto, le giornate per lui si facevano sempre più difficili, quasi incomprensibili: le lancette dell’orologio camminavano, le ore passavano, ma il tempo sembrava fermo, privo di una vera consistenza. Percezione che non gli era affatto nuova: pareva di essere tornati lì, nel campo, dove gli orologi non c’erano e la parola “Wstawać” (alzarsi) era l’unica straniante e straniera “campana” atta a segnalare un tempo: quello del lavoro.
C’era un modo per uscire da quell’infinito “tempo presente”? Sì, forse più di uno. Ne aveva parlato, anche nei suoi libri. Ora però quella condizione d’immobilità stava diventando insopportabile. Un farmaco, basterà? No. Forse una storia, di quelle “fantabiologiche” (come le aveva definite Italo Calvino), trasgressioni che sovente gli avevano alleggerito il cuore. No. Era necessario qualcosa di più, che gli permettesse di allontanare le ombre, di recuperare un briciolo di significato; d’altronde era sicuro: l’infelicità perfetta non poteva esistere. Bastava quindi andare alla ricerca di quello scarto, sempre più piccolo, ma che c’era. E lo dimostrava la passeggiata dell’altro giorno con Bianca, al parco del Valentino: sembrava esistere un tempo vero, che portava con sé un significato, seppur indefinito.
Le 9:30 del mattino. La porta si chiude dietro le spalle di Lucia che esce per andare al supermercato. Scende per le scale visto che l’ascensore è occupato, ma oggi ogni passo sembra più pesante del solito; sul portone c’è Jolanda (la portiera del palazzo), di cui però lei non si accorge: i passi sono pesanti, qualcosa forse è rimasto indietro… non riesce a capire.
Torino in quel principio di primavera è quasi deserta: è la settimana di Pasqua, molti sono andati via, per passare un tempo diverso, fatto di parole e gesti leggeri. Il sole d’altronde non lascia trasparire imperfezioni e brutture, persino la Mole pare bella.
Le 10. L’uomo seduto alla sua scrivania fissava la finestra che aveva alla sua destra, un raggio di sole trafiggeva le tende penetrando in quella stanza, come un ospite tanto atteso eppure inaspettato; poi si alzò e guardò verso uno scaffale, quello dei suoi libri preferiti; visti di dorso la loro altezza regolare gli dava l’impressione di essere davanti a una scala: dalla storia di Giobbe alla scoperta dei buchi neri: cammino dell’essere umano, ma verso dove? In alto? In basso? Nessuno dei due? Di cosa parlano questi libri? Di verità? Di errori? Di speranza? Di disperazione? Domande a cui non riusciva a trovare risposte…
In Lager aveva imparato una lezione fondamentale: bisognava perseguire i propri scopi con mezzi idonei, e chi sbagliava pagava. E lui, forse aveva sbagliato, non aveva capito… che il tempo era sempre stato immobile, che i suoi mestieri (chimico e scrittore) erano stati fallimentari, non avevano modificato niente; che l’uomo non poteva arrestare la sua parabola verso il negazionismo…
Non si poteva uscire da un labirinto che non aveva vie d’uscite.
Non esistevano libri, non esistevano scale, che conducevano ad un tempo ed uno spazio migliore.
L’uomo si diresse verso la porta di casa, si girò un attimo verso la finestra: un raggio di sole illuminava il tavolo del salotto, dove c’era la corrispondenza, dei libri e una foto scattata l’anno prima dentro al laboratorio della SIVA.
Decise che era meglio spegnere l’ultimo bagliore dato da quel sole.
Il buio nell’anima è difficile vincerlo da soli …