“Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono”
La fragile pace in Terra Santa è una «scintilla di speranza» [1] che va custodita e sostenuta. Troppo elevato, infatti, appare il rischio che l’accordo raggiunto si tramuti in una fioca illusione, in una futile tregua, prima che l’odio torni a deflagrare su quella terra in cui, da decenni, sembra abbattersi impietoso tutto il male di cui l’uomo è capace.
Profetiche, oggi come allora, riecheggiano quelle parole di Giovanni Paolo II che, aggrovigliati alla ricerca di sterili torti e ragioni, tuttora facciamo fatica a comprendere: «Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono» [2].
Al di là dello scalpore che questi termini così forti possono provocare ― a testimonianza di quanto ci siamo resi incapaci di costruire la pace, avviluppati alla implacabile legge del taglione ― in cuor nostro siamo, tutti e ciascuno, perfettamente consapevoli che senza una seria opera di pacificazione sociale e di riconciliazione tra il popolo palestinese e quello israeliano, questa pace avrà l’orologio in mano: presto o tardi, i figli cresciuti nell’odio e nel desiderio di vendetta, torneranno a insanguinare le loro mani e a seminare distruzione.
È lo stesso Santo Padre a rispondere alle perplessità dell’uomo di sempre: «Ma come parlare, nelle circostanze attuali, di giustizia e insieme di perdono quali fonti e condizioni della pace? La mia risposta è che si può e si deve parlarne, nonostante la difficoltà che questo discorso comporta, anche perché si tende a pensare alla giustizia e al perdono in termini alternativi. Ma il perdono si oppone al rancore e alla vendetta, non alla giustizia».
Più facile ci sembra, infatti, concepire l’esigenza di una pace che sia giusta affinché sia duratura: se essa, invece, si fonda sulla forza, sorge naturale la amara frase: «Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant» [3] [«Dove fanno il deserto, lo chiamano pace»]. Lo sguardo attento di Papa Wojtyła ci desta, però, a una riflessione ulteriore: «poiché la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com’è ai limiti e agli egoismi personali e di gruppo, essa va esercitata e in certo senso completata con il perdono che risana le ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati. Ciò vale tanto nelle tensioni che coinvolgono i singoli quanto in quelle di portata più generale ed anche internazionale. Il perdono non si contrappone in alcun modo alla giustizia, perché non consiste nel soprassedere alle legittime esigenze di riparazione dell’ordine leso. Il perdono mira piuttosto a quella pienezza di giustizia che conduce alla tranquillità dell’ordine, la quale è ben più che una fragile e temporanea cessazione delle ostilità, ma è risanamento in profondità delle ferite che sanguinano negli animi. Per un tale risanamento la giustizia e il perdono sono ambedue essenziali».

Il lucidissimo discorso del Papa polacco colpisce per la sua tremenda attualità: sembrano scritte in questi ultimi mesi, davanti alle atrocità che ben conosciamo, le sue riflessioni ormai ventennali sulla barbarie del terrorismo e sul diritto a difendersi da esso, «diritto che deve, come ogni altro, rispondere a regole morali e giuridiche nella scelta sia degli obiettivi che dei mezzi. L’identificazione dei colpevoli va debitamente provata, perché la responsabilità penale è sempre personale e quindi non può essere estesa alle nazioni, alle etnie, alle religioni, alle quali appartengono i terroristi».
Ebbene, ma che senso ha questo perdono? «Che cosa significa, in concreto, perdonare? E perché perdonare?», ci chiede il Papa dal lontano 2002, suggerendo poi la risposta: «In realtà, il perdono è innanzitutto una scelta personale, una opzione del cuore che va contro l’istinto spontaneo di ripagare il male col male». Per il cristiano, la fonte di questo gesto ― totalmente folle perché totalmente gratuito e anzi, in perdita ― sta certamente in Cristo Gesù. Ciò, però, non rende il perdono una esclusività dei credenti: quanto detto, infatti, «non esclude che se ne possa cogliere il valore anche alla luce di considerazioni di umana ragionevolezza. Prima fra tutte, quella relativa all’esperienza che l’essere umano vive in se stesso quando commette il male. Egli si rende allora conto della sua fragilità e desidera che gli altri siano indulgenti con lui. Perché dunque non fare agli altri ciò che ciascuno desidera sia fatto a se stesso?».
Caliamo tutto ciò nella concretezza di quelle terre, tutte sante, in giro per il mondo, perché bagnate dal sangue sacro di ogni vita. Il perdono che si rende necessario non riguarda solo le nazioni e i loro popoli, né solo i potenti governanti; riguarda ogni uomo, riguarda anche noi. Potremo essere davvero costruttori di pace quando, ben prima di risolvere i conflitti internazionali, impareremo a estinguere, nel nostro piccolo, le discordie della quotidianità: popoli e governanti così abituati nelle relazioni personali, avranno un approccio di pace anche nelle relazioni tra gli Stati. Ce lo ha ricordato anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: «la pace vera, duratura, risiede nell’animo dei popoli. Diversamente, sotto la cenere della fine delle violenze cova il rancore, pronto a divampare nuovamente alla prima occasione che possa essere sfruttata, per rendersi conto allora che la fine delle violenze si trasforma, purtroppo, in una parentesi tra due esplosioni» [4]. Saldo in questa verità, il Papa indica indistintamente lo stesso obiettivo, senza distinguere i soggetti: «le famiglie, i gruppi, gli Stati, la stessa Comunità internazionale, hanno bisogno di aprirsi al perdono per ritessere legami interrotti, per superare situazioni di sterile condanna mutua, per vincere la tentazione di escludere gli altri non concedendo loro possibilità di appello».
È chiaro a tutti, come anche a quel Pontefice che conosceva bene l’uomo, che «la proposta del perdono non è di immediata comprensione né di facile accettazione; è un messaggio per certi versi paradossale. Il perdono infatti comporta sempre un’apparente perdita a breve termine, mentre assicura un guadagno reale a lungo termine. La violenza è l’esatto opposto: opta per un guadagno a scadenza ravvicinata, ma prepara a distanza una perdita reale e permanente. Il perdono potrebbe sembrare una debolezza; in realtà, sia per essere concesso che per essere accettato, suppone una grande forza spirituale e un coraggio morale a tutta prova».
Ventitré anni dopo, questo Messaggio torna a interrogarci, proponendosi come serio e fecondo progetto di pace, sussurrando lo stesso suggerimento: «i diritti e le esigenze di ciascuno potranno essere tenuti in debito conto e contemperati in modo equo, se e quando prevarrà in tutti la volontà di giustizia e di riconciliazione».
[1] Papa Leone XIV, Angelus di domenica 12 ottobre 2025
[2] Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la XXXV Giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2002. Pochi mesi prima, l’11 settembre 2001, si era consumato il drammatico attentato alle Torri Gemelle; il successivo 7 ottobre, gli Stati Uniti avevano dato inizio alla Guerra in Afghanistan. Da questo testo vengono tutte le successive citazioni del santo polacco. La versione integrale è reperibile qui.
[3] Publico Cornelio Tacito, Agricola, 30.
[4] Discorso del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione dell’incontro con Papa Leone XIV, in visita ufficiale al Quirinale, 14 ottobre 2025.

