Obama in Excelsis?

«Il problema di fondo è che è passato troppo poco tempo tra il suo debutto nella politica locale e la sua ascesa nella politica nazionale» aveva detto Walter Russell Mead in un’intervista: «di conseguenza – aveva continuato – Obama rischia di apparire oscillante. Questo suscita dubbi nell’elettorato. Dei dubbi su chi sia veramente e per che cosa si batta davvero». L’intervista, a cura di Raffaello Matarazzo, fu pubblicata sul numero 42 di Aspenia, chiuso in tipografia nell’agosto 2008: difatti anche il tenore del discorso di Mead rivela che il mondo non aveva ancora conosciuto l’ascesa di Obama nella politica mondiale.
A un buon anno di distanza molte cose sono cambiate, unitamente al fatto che il nome di Obama è diventato improvvisamente noto alla maggior parte degli abitanti del Globo: la sua rampante popolarità è stata sospinta dagli entusiasmi più disparati, come se nella scia del Presidente si catalizzassero e si convogliassero le motivazioni, le aspirazioni, le rivendicazioni di “mezzo mondo”, nel senso letterale dell’espressione. Guardare oggi a dichiarazioni come quelle di Mead lascia inferire che l’oscillazione obamiana si sia rivelata convincente, e quindi vincente: a lui guardano con fiducia degna di un eroe della Marvel i governi di destra e di sinistra, i cristiani e i non cristiani, i credenti e i non credenti. Pochi mesi fa la rivista tedesca Rhein-Neckar-Zeitung ha riletto con acuta ironia l’incontro tra il Presidente nero e il Papa tedesco; del resto non mancano satire di denuncia più pesante, come le vignette raffiguranti un Obama in mise gesuana che cammina su uno specchio d’acqua sotto al cui pelo stanno le raccapriccianti cataste di feti abortiti ad ogni stadio della gestazione. La parabola pare declinarsi con una certa rapidità, e se fino a poco fa gli organismi mediatici degli stessi repubblicani avevano ancora una qualche credibilità nel minimizzare la portata delle vibranti, crescenti proteste contro la Casa Bianca, oggi mano a mano già l’aura magica del Presidente sembra incrinarsi, e anche i deputati democratici perdono quella smaltatura di aplomb che a noi europei era parsa per due secoli la forza della politica statunitense […]. Dalle statistiche impariamo infatti che l’omogeneità del popolo statunitense è, in questo settore come in altri, un trompe-l’œil: nel Paese dove nove abitanti su dieci si dicono convinti dell’esistenza di un Dio non mancano le associazioni fondate dai restanti dieci su cento; della semplice frammentazione interna di quell’ottanta per cento di statunitensi cristiani è inutile anche solo abbozzare una statistica (che voglia considerare le innumerevoli chiese che ogni settimana nascono, muoiono, si rigenerano); i musulmani sono fattore crescente e guardato con sospetto, anche perché neppure loro hanno gerarchie ed esponenti universalmente riconosciuti. Obama ha scrutato con sagacia machiavellica le possibilità di riuscita contenute nelle più differenti sacche di voti, e ha dovuto imparare l’arte del Principe a prezzo di cocenti sconfitte sul “piccolo” territorio di Chicago: quest’arte fa di lui un surfista capace di ergersi con figura snella e sicura sul mutevole passaggio delle correnti sotto i suoi piedi. È ben possibile che questo non gli riesca sempre, nonostante la meticolosa preparazione, in cui è assistito da una validissima équipe, e l’innegabile carisma personale; ma è pure possibile che i suoi avversari politici, smaliziati quanto ad astuzie ed equipaggiati di mille motivi per sospettare del suo “camaleontismo messianico”, stiano a scrutare ogni suo passo per evidenziare contraddizioni e doppi giochi a discredito della sua immagine.
Il conio dell’espressione “camaleontismo messianico” è giustificato in prima istanza dalla già menzionata poliedricità dell’elettorato su cui Obama si regge (e a cui in prima battuta deve rispondere); in seconda istanza dal fatto che il religiosum non si giustappone semplicemente all’indirizzo politico di Obama, non si giustappone semplicemente all’ufficio del Presidente degli Stati Uniti, e neppure si giustappone semplicemente al ruolo di Obama come Presidente degli Stati Uniti in questi anni. Dalla “piazza” – di guicciardiniana memoria – in cui tutti noi versiamo, chi scrive non pensa neppure di perforare l’immane nebbia frapposta tra qui e la Casa Bianca: ci atteniamo, con gli strumenti a nostra disposizione, a quanto di pubblico (e di “più pubblico”) ci è dato – analizziamo pertanto alcuni punti del discorso d’insediamento di Obama, datato al 20 gennaio 2009, e del più recente discorso all’Università Al-Azhar del Cairo, del 4 giugno 2009.
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L’inauguration speech del 20 gennaio scorso mantiene una prosa ricorsiva ma non ridondante, che per molti versi pare una versione alleggerita della prosa deuteronomistica: il riferimento è costantemente sospeso tra una lunga storia passata e un impegno presente rivolto al futuro e alle nuove generazioni; la tensione emotiva è costante ma media, con frequenti crescendo, specie dalla metà in poi. La frase « because We, the People, have remained faithful to the ideals of our forbearers, and true to our founding documents » riassume in sé i preziosi concetti di làos e di paràdosis, e già prendono a evocare quello – ancora latente – di Christòs (in senso etimologico). « That we are in the midst of crisis is now well understood », così il ruolo di chi parla richiamando un’acquisizione che il làos ha già fatto acquista rapidamente autorevolezza, ed egli può subito soffermarsi sull’indice dei responsabili: il leader sa che per spronare alla battaglia una massa euforica basta una manciata di parole, quindi evita di caricare tutta l’accusa su elementi esterni alla comunità, che sarebbero un istantaneo e molto efficace mezzo di coesione della stessa, ma a prezzo di una troppo difficilmente gestibile ondata di xenofobia. La rapida descrizione dell’ora presente apre un varco retorico alla risposta la cui domanda non viene neanche evocata: « Today I say to you that the challenges we face are real », e il fuoco del periodo non è la subordinata, bensì la principale – con il pronome personale che spicca fiero su tutto il discorso. Quindi quella che sarebbe una normale retorica da leader viene immediatamente ammantata del velo sacro della Parola di Dio: « in the words of Scripture, the time has come to set aside childish things », e immediatamente a seguire l’enunciazione aperta dell’american dream – « all are equal, all are free, and all deserve a chance to pursue their full measure of happiness » – viene titolata una « God-given promise ». Ecco perché un americano può leggere con quotidiano orgoglio su ogni banconota guadagnata, rubata o ricevuta, quello che nessun europeo (salvo gli svizzeri, per quanto li si possa dire europei) più saprebbe comprendere: “In God we trust”.
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Né mancano in questa sezione copiosi riferimenti alle categorie di “patres”, “testamentum”, “sanguinis effusio”, solo un istante prima di riversare l’indirizzo ad extra, « to all other peoples and governments who are watching today, from the grandest capitals to the small village where my father was born: know that America is a friend of each nation and every man, woman, and child who seeks a future of peace and dignity », e tutto questo appena prima di chiudere l’ouverture con un solenne « we are ready to lead once more ». L’enorme pretesa di queste parole si fa più chiara non appena ci si sofferma a pensare a quale pur grande leader di quale nazione che sia si permette mai la sfrontatezza di porre nelle allocuzioni pubbliche i suoi interlocutori esteri in tale condizione discepolare: questi sono i toni che si ritrovano nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa “Lumen gentium” laddove si legge che «populus iste messianicus […] pro toto genere humano firmissimum est germen unitatis, spei et salutis» . Ma di quel popolo, che è la Chiesa di Cristo, si dice esplicitamente che è “ut sacramentum”. Potremmo già soffermarci a chiederci in che senso e in che misura Niebuhr avrebbe suggerito a Obama l’antidoto contro il messianismo politico…
Su questo passaggio s’innesta quello che poi risulta essere il tema principale dell’allocuzione al Cairo, ovvero l’incredibile, impossibile e veramente “cattolica” formula che definisce lapidariamente il cuore dell’identità americana – “E pluribus unum”. Come tanto religioso fervore possa non farsi incendiare di gelosia dalle fedi “rivali” che coesistono nello stesso ambiente è domanda da non porre alla vecchia ragione del Vecchio Continente: “tolleranza”, così come la concepisce una mente europea, è la pace che Tacito diceva regnare dopo le devastazioni imperialistiche romane. Ora urge una precisazione: la fede cui fortemente Obama si appella quasi a ogni piè sospinto rifugge dalle “etichette confessionali”, il che – se basta a far contento l’ingenuo europeo che, nella debolezza del suo pensiero, difetta del principio di realtà e vede libertà dove c’è confusione e (forse) calcolo – rende instabile e pericolante la sua posizione su questo o quel tema a seconda dell’occasione […]. «Compresi allora – ripeteva nei comizi quando era senatore dell’Illinois – che bisogna abbracciare Gesù proprio perché dobbiamo liberarci dei peccati, perché siamo umani e abbiamo bisogno di un alleato nel nostro difficile viaggio». In questo senso era solito aggiungere che per lui «la fede arrivò come una scelta e non come un’epifania». Ma Obama porta da sempre nel suo nome arabo – Barak-Benedetto – l’ombra più pesante, unita alla fede islamica del padre: se nella campagna elettorale ha spesso dovuto difendersi dall’accusa di essere un musulmano (sic!), e se ha talvolta accuratamente evitato di farsi fotografare con ragazze velate, possiamo inferire che il Presidente senta della pressione su quest’argomento. O meglio, che ne sentisse, dal momento che al Cairo ha sfruttato l’occasione per ostendere al mondo accademico e al mondo musulmano – sotto gli occhi del mondo intero – il suo progetto d’integrazione: « a new beginning ». L’incipit è quella del “vescovo di quelli di fuori”: « I am also proud to carry with me […] a greeting of peace from Muslim communities in my country: assalaamu alaykum » […] Lo “scontro di civiltà” in atto viene smentito dall’asserzione dell’apertura dell’America all’Islam – perché « freedom in America is indivisible from the freedom to practice one’s religion » – ed è chiaro che la solenne dichiarazione – « Islam is a part of America » – può leggersi con un accento sibillino: qual è l’affermazione centrale di questo predicato? Chi scrive non teme di supporre che la teoria soggiacente a tali affermazioni, a questa politica, sia un modello di multireligiosità inclusivistico, in cui il sincretismo è scoraggiato (nel senso che se ne eviterebbero le derive estreme), e lo è per il fatto che la griglia d’inclusione delle fedi non è una fede tra le altre, ma qualcosa che è al contempo più e meno di una fede: la mistica nazional-federale degli Stati Uniti. È conforme alle fedi per quelle analogie che poco sopra sottolineavamo contestualmente al primo discorso del Presidente; è superiore alle fedi perché non è contemplato che alcuna fede ponga i propri principi al di sopra di quelli della Confederazione; è inferiore alle fedi perché storicamente nasce come sistema di accoglienza e garanzia per le stesse. Questa “conformità-supremazia-ancillarità” dei principî federali nei confronti degli insegnamenti religiosi permette loro di essere accolti al contempo per ciò che sono e non oltre ciò che è lo Spirito Federale, e solo un europeo superficiale potrebbe chiamare tutto questo “laicità” (secondo la vulgata continentale). […] « I reject the wiew of some in the West that a woman who chooses to cover her hair is somehow less equal », dice Obama, e sono tutti così contenti di sentire un occidentale così aperto e liberale che il resto della frase, durissimo per un islamico, non può istantaneamente gelare l’assemblea: « but I do believe that a woman who is denied an education is denied equality ». Il tarlo era già nella prima frase: la scelta, la libera scelta della donna – che è ormai giustamente un valore occidentale acquisito (e non negoziabile. Ma nella seconda si fa più esplicito e stridente: l’uguaglianza è un valore dell’Islam? Eppure questi non sono spacciati come “valori americani”, né semplicemente “occidentali”: se questi sono “human rights” non saranno proprio questi il prezzo della pace tra le civiltà? Ora ci si potrebbe banalmente chiedere: “se si desse alle donne islamiche un’istruzione quando mai porterebbero il velo (o il burqua), quanto ancora resterebbero sottomesse?” – vero. Ma c’è di più: se si chiedesse a una donna islamica di portare il velo solo per libera scelta e di considerarsi pari in dignità a suo padre e a suo marito, titolare di uguali diritti e di medesimi doveri… non sarebbe il suo essere musulmana un mallo vuoto?
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Sembra ironica l’omonimia etimologica del Papa e del Presidente, se si pensa che anche il Pontefice, rivolgendosi al mondo islamico, ha più volte auspicato che esso sappia di nuovo congiungersi positivamente “alle forze dell’Aufklärung” (come già nei secoli XII-XIV), e così perseguire quel cammino di rigenerazione che la Chiesa Cattolica compie da due secoli e mezzo.
Cos’è che – da più parti – si chiede al mondo islamico, e come si pone la domanda? È la richiesta malfidata di chi vuole subdolamente devitalizzare e fagocitare l’avversario senza che se ne avveda? È il suggerimento, offerto in buona fede, di cercare un rapporto non rancoroso con la modernità, che valga fecondità di vantaggi per l’intera famiglia umana? Probabilmente una risposta univoca a questa domanda non la darà che la storia, un giorno. Oggi, però, l’aver indugiato così lungamente su un tema pure tanto più complesso di quanto chi scrive sappia capire e dire è contestualmente utile a valutare cosa il mondo intenda per “pace”: perché se il Nobel per la Pace non è da paragonare a un dieci “d’incoraggiamento”, né a una cambiale in bianco sul futuro, né a una zeppa di sicurezza fissata sotto i cingoli dei carri americani… il conferimento del Nobel a Obama non sembra ad oggi – riciclando l’immagine tagliente di un giornale di Pechino – «un Oscar dato a un trailer»? […] E qualcuno ricorda che proprio del “Discorso della Montagna” – su cui si chiude la “terna abramitica” di Obama un istante prima dell’autorevole benedizione conclusiva – il Presidente aveva dichiarato trovarlo « talmente rigido da non poter essere applicato neanche dal nostro Ministero della Difesa » ? Che cosa dobbiamo aspettarci?