“L’accoglienza ai profughi è un atto di restituzione per averli impoveriti”
"Inclusione sociale dei poveri - precisa monsignor Galantino - significa fare cultura, imparare a leggere bene la storia, perché la prima spinta all’immigrazione è risultato di un certo tipo di politica. Solo con un impegno teso a restituire al povero la dignità che gli è stata sottratta e chiamando per nome le mani che gli hanno tolto questa dignità, possiamo riuscire a potenziare una cultura che capisca quello che facciamo"
«L’accoglienza ai profughi è solo un atto di restituzione per aver impoverito queste persone». Lo ha ribadito ieri monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Conferenza episcopale italiana, durante il suo intervento al trentottesimo Convegno nazionale della Caritas diocesane che si è aperto a Sacrofano (Roma).
Monsignor Galantino ha ripetuto quanto già detto ai giornalisti, in risposta a chi accusa il Papa di incentivare l’immigrazione con gesti come la visita a Lesbo: «Chi fa queste affermazioni – sottolinea – mostra di avere una intelligenza un po’ al di sotto della media. Perché chi spinge questa povera gente a scappare sono le guerre, la povertà, come quelle che si stanno combattendo in questo momento in Libia, in Siria, in Iraq. Per noi inclusione sociale dei poveri, significa anche imparare con coraggio che il primo elemento che favorisce l’immigrazione non è il Papa che va a Lampedusa o a Lesbo».
Insomma, a detta del presule, ci vuole intelligenza e capacità di capire, di convincerci e di dire che ciò che sta succedendo oggi, con molta probabilità, è anche nostra responsabilità: «Inclusione sociale dei poveri – precisa monsignor Galantino – significa fare cultura, imparare a leggere bene la storia, perché la prima spinta all’immigrazione è risultato di un certo tipo di politica. Solo con un impegno teso a restituire al povero la dignità che gli è stata sottratta e chiamando per nome le mani che gli hanno tolto questa dignità, possiamo riuscire a potenziare una cultura che capisca quello che facciamo. Noi dobbiamo essere servi della verità, senza la pretesa di possedere il monopolio dell’interpretazione della realtà sociale, la soluzione perfetta ai problemi della società. Altrimenti quello che facciamo sono solo pannicelli caldi».
Il segretario generale della Cei, ha quindi ribadito che l’inclusione dei poveri, di qualsiasi forma di povertà, non sarà mai reale e non apparterrà mai a una Chiesa che, nel suo stile, nelle sue scelte e nelle sue parole, si percepisce come un potere accanto ad altri poteri. Parlando ad oltre 600 convegnisti, ha ricordato che l’inclusione sociale dei poveri non è frutto di strategie più o meno accorte: «Ma è questione – aggiunge – e frutto di uno stile, appreso alla scuola di Gesù».
Uno stile fatto di rispetto e dolcezza, smettendo l’arroganza delle parole e dei giudizi pesanti come pietre: «L’inclusione è il contrario della esclusione – puntualizza Galantino -, ma è anche altro rispetto alla logica della separazione e della contrapposizione, perché fuggire gli altri, nascondersi agli altri e negarsi alla relazione sono altrettanti modi attraverso i quali si vive una vita comoda e non evangelica».
Per il vescovo, si tratta di una mentalità mondana, che cerca solo il possesso e, se non riesce a dominare, mette in atto strategie di rifiuto e di eliminazione: «Assumere il punto di vista dei poveri in vista della loro inclusione – conclude -, vuol dire prima di tutto ridefinirsi come Chiesa povera e per i poveri, che sa anche imparare da loro, lasciarsi evangelizzare da loro e dal loro modo di stare davanti a Dio e ai fratelli».