“Le parrocchie abbiano meno messe e più messa partecipata dai fedeli”
"Portare nel cuore la speranza - raccomanda l'arcivescovo Valentinetti -, una speranza viva, bella, piena d'amore. Ecco la fede in Cristo Gesù, che non ha perso la speranza sulla croce, ma ha dato la suprema testimonianza di amore… “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”
Tutta la Chiesa di Pescara-Penne, attraverso la presenza delle sue 121 parrocchie, ha gremito il Santuario di San Gabriele dell’Addolorata a Isola del Gran Sasso sabato 13 settembre, in occasione del pellegrinaggio giubilare diocesano promosso e guidato dall’arcivescovo di Pescara-Penne monsignor Tommaso Valentinetti.

L’evento ha avuto inizio alle ore 9, con l’ingresso nel santuario per ascoltare dapprima la meditazione del presule, introdotta dal canto del Coro diocesano diretto da Roberta Fioravanti e, inizialmente, dallo stesso arcivescovo: «Introduco queste parole di meditazione con una domanda – afferma l’arcivescovo Valentinetti -. Perché il Giubileo? Perché il Giubileo ogni 25 anni o, in via straordinaria, anche a metà nel venticinquesimo di corrispondenza? E perché, soprattutto, oggi ci siamo ritrovati qui nel Santuario di San Gabriele, dov’è possibile lucrare l’indulgenza plenaria? Perché possiamo vivere in profondità, in semplicità e soprattutto con tanto raccoglimento questo evento giubilare che Papa Francesco ha voluto come evento della speranza, in un mondo in cui sembra che la speranza sia definitivamente tramontata. Basta pensare agli orrori delle guerre, agli orrori degli omicidi, basta pensare alle disuguaglianze, ai suicidi. Basta pensare alla mancanza di lavoro, basta pensare a tutte le negatività che la vita può comportare con sé. Papa Francesco ci ha invitato di nuovo a recuperare la speranza allora il Giubileo che stiamo vivendo, è essenzialmente il Giubileo della speranza e, come tutti i giubilei, è tempo di conversione. È tempo in cui ci si riconcilia con Dio, ma non tanto perché siamo bravi noi e ci andiamo a riconciliare con Dio, anche se è consigliata fortemente una buona e santa confessione. Ma perché? Perché il Signore si riconcilia con noi. “Lasciatevi riconciliare con Dio”, dice San Paolo. Ma quale riconciliazione e quale conversione? Innanzitutto una riconciliazione e una conversione personale. Siamo chiamati in prima persona a comprendere che cosa dobbiamo lasciare che Dio ci perdoni, che cosa dobbiamo deporre ai piedi del confessore perché il Signore, ancora una volta si mostri buono e grande nell’amore e fonte di misericordia e di pace. Ma non solo una conversione personale, dobbiamo camminare verso una conversione di Chiesa, di comunità. Convertire le nostre comunità. Nella meditazione che faccio, darò alcuni input di conversione comunitaria, perché possiamo sul serio essere pronti ad affrontare le sfide del domani. Io sono molto contento questa mattina, perché mai ho visto la chiesa di San Gabriele così piena di gente ed è la mia gente. Sono i miei fedeli, sono i miei credenti in Cristo Gesù nostro Signore, che sono ritenuti qui rispondendo ad un appello per realizzare un momento di riconciliazione e un momento di pace. Ma basta? È sufficiente?
Dapprima monsignor Valentinetti ha affrontato il tema della conversione personale: «Qual è la strada per una conversione personale? Io indico tre strade: ascolto, preghiera e fede. La prima strada, la strada dell’ascolto. Quale ascolto? Innanzitutto ascolto della Parola di Dio. Se noi non ci radichiamo nell’ascolto della Parola di Dio, particolarmente la Parola del Vangelo che diventa la nostra vita, la nostra esistenza, noi non troviamo la strada per metterci in ascolto del Signore che parla del Signore che parla continuamente, che parla in ogni circostanza e in ogni momento della nostra vita. Ma bisogna saper drizzare l’orecchio. Il Signore parla “Parla o Signore parla uscita dal Signore, perché il tuo servo ti ascolta”. Non una lettura distratta della Parola, ma una lettura che possa essere realmente interiorizzata. Non occorre leggere molto a lungo, basta leggere un brano, ma ci si può fare la domanda di risonanza: “che cosa questa parola ha detto al mio orecchio, al mio cuore, alla mia anima?”. Il Signore ci dà un cuore capace di ascoltare, un “lev shomea” perché con l’orecchio si sente, la Parola giunge alla mente e da questa scende al cuore. E allora, l’ascolto diventa poi possibilità di reciprocità, perché ascoltando la Parola inevitabilmente mi metto in ascolto del fratello, della sorella, della persona in difficoltà delle realtà umane che hanno bisogno della nostra testimonianza. Mi metto, in definitiva, in ascolto anche della natura, perché noi non ascoltiamo sufficientemente. Questo lo dico particolarmente ai giovani, ascoltare la natura che sta gridando, che sta morendo, che sta perdendo forza. Una natura che deve essere realmente ascoltata, se vogliamo salvare la nostra vita e quella di tante persone. Dunque il primo momento per la conversione, venire qui a San Gabriele, non è sufficiente. Ritornare a casa con il proposito di incontrare la Parola e incontrare il fratello nell’ascolto. E questo è stato anche l’esercizio del Giubileo che ci ha fatto mettere in circolo, in ascolto di quello che dovevamo veramente fare e di quello che possiamo chiedere alle nostre comunità parrocchiali. Quindi chiediamo a queste ultime ciò che possiamo fare, ciò che possiamo dire, ciò che possiamo soprattutto interiorizzare in continuazione».
La seconda fase, invece, è quella della preghiera: «Ma quale preghiera? – si interroga monsignor Valentinetti – Sicuramente la preghiera personale, che sgorga dall’ascolto della Parola di Dio. La preghiera di lode, la preghiera di ringraziamento, la preghiera di richiesta, la preghiera di propositi, la preghiera che non può mai mancare dentro la nostra vita. E come principe della preghiera, la liturgia eucaristica domenicale. La liturgia eucaristica è domenicale. Il giorno del Signore è la domenica. È la domenica che dovremo celebrare insieme, il giorno in cui il Signore è risorto dai morti. Il giorno in cui la nostra liturgia è realmente l’incontro di fratelli e di sorelle che si conoscono, che si amano, che non disdegnano di guardarsi in volto, che non disdegnano di salutarsi, che non disdegnano di vivere insieme una comunione di intenti. L’Eucaristia non è solo un precetto, andare a messa la domenica perché è un comandamento, l’Eucaristia domenicale è l’incontro della famiglia. E io insisto nel dire in maniera sempre più costante, so che qualche volta sono intollerante in quello che vi sto dicendo, che le nostre parrocchie dovrebbero avere “meno messe e più messa”. Cioè più messa partecipata da un gruppo di fedeli. Oserei dire com’è bello ritrovarsi insieme come questa mattina. Cioè un gruppo veramente coeso, che celebra la lode del Signore. So che qualche parrocchia, come sperimentazione del sogno missionario, in qualche giorno dell’anno liturgico, anche importante, ha tolto tutte le messe e ha celebrato una sola messa. Ed è stato un momento veramente straordinario, molto bello, perché il popolo di Dio quando è convocato per la bellezza della liturgia, per la profondità della liturgia, per la ricerca attenta dei testi liturgici, esso gode e prega e invoca e ringrazia e benedice. Dobbiamo avere questo coraggio. Io capisco che molte volte c’è più comodità. C’è la messa delle sette e mezza del mattino, ma chi ci viene alle sette e mezzo? C’è la messa delle otto e mezza del mattino, ma anche lì chi ci viene? Poi rendiamoci conto di come sta diminuendo il flusso alle nostre celebrazioni eucaristiche. Questo non vuol dire “togliamo le messe perché siamo pochi”, ma rendiamo belle le messe, le principali, possibilmente sempre con il servizio liturgico e con il coro, perché realmente chi partecipa alla messa possa godere della bellezza della celebrazione. Sere fa la solennità era auspicata, c’è stata l’ordinazione di un sacerdote (don Riccardo Di Ciano), ma molti mi hanno detto “Eccellenza, grazie della bella celebrazione”. E allora, io credo che qui siamo già di fronte alla conversione personale e alla conversione pastorale».

A questo punto, il presule è tornato a parlare di conversione personale, che passa attraverso due elementi: «Il primo elemento personale passa per la fede in Cristo risorto dai morti. Il secondo elemento personale passa per riconoscere che Gesù è stato un uomo come noi. Riprendere la dimestichezza, sempre nell’ascolto della Parola, dell’umanità di Gesù. Quest’ultimo non è lo stregone che fa miracoli. Gesù non è solamente Colui che ha dettato una nuova legge, ma è colui che si è innestato nella nostra umanità e, attraverso essa, ha fatto meraviglie d’amore. La cosa importante che Gesù ha vissuto nella sua esistenza e nella sua storia, è l’amore che ha portato a quel gruppo di discepoli che, in qualche modo, ha accompagnato vicino a sé. Un gruppo di discepoli di 12, forse 72, forse di più, non sappiamo. Ma l’importante è capire che era un gruppo di discepoli che stavano sempre con Lui e hanno condiviso tutto. Hanno condiviso l’amore, hanno condiviso il bene, hanno condiviso l’ospitalità, hanno condiviso i rimproveri. Hanno condiviso tutta la storia umana di Gesù. E soprattutto hanno condiviso la sua infinita misericordia, il suo accostarsi ai peccatori, il suo accostarsi ai malati, il suo accostarsi ai poveri, agli ultimi, ad ogni persona che – in qualche modo – aveva bisogno della sua presenza e del suo aiuto. La bellissima parabola del buon samaritano porta con sé tre cose. Primo. Gesù cambia la legge. Secondo. Gesù non ha paura di toccare un impuro. Gesù detta la legge della carità. Ecco che cosa ha fatto Gesù nella sua vita, nella sua esistenza. Poi è andato alla croce. Ma non è andato alla croce e non guardiamola in senso “doloristico”, di sofferenza. Guardiamola come la croce gloriosa di Cristo, dove ha espresso tutto il suo amore per i 12, per i 72 e per tutta l’umanità. La nostra fede, dunque, è dentro questo cammino. Riconoscere in Gesù Cristo, risorto dai morti, Colui che ha dato tutto e lo ha fatto per amore, senza misconoscere assolutamente niente. E ha dato tutto perché doveva camminare secondo la richiesta del Padre. L’obbedienza al Padre… “Padre, che io e te siamo una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato”. Ecco allora la fede in Cristo risorto dai morti, e qui mi collego al tema della speranza, che non può essere una fede imbastita di disperazione. La nostra fede è piena di speranza, anche nelle situazioni più difficili, anche nelle situazioni più complesse, la fede è piena di speranza. Qualsiasi prova della vita io posso affrontare, qualsiasi prova debba affrontare in ogni maniera, in ogni circostanza, la fede può essere piena di speranza.
Una conclusione che l’arcivescovo ha dimostrato con una testimonianza personale: «Adesso vi racconto che cosa mi succede e che cosa succede ai sacerdoti che hanno il servizio di esorcista. Vengono le persone chiedendo l’esorcismo. Noi cominciamo a parlare con queste e poi scopriamo che non è tanto il demonio quello che c’è dietro il disagio di costoro, ma molte una situazione di famiglia difficile, una situazione di malattia difficile, una situazione di incapacità. Il problema qual è? Che quando ci sono le difficoltà noi facciamo fatica ad affrontarle, perché non abbiamo più la speranza. E allora, non avendo più la speranza e facendo fatica ad affrontare le situazioni, vorremmo che qualcuno le affrontasse e le superasse per mezzo nostro pensando che ci fosse il diavolo, ma questo non c’è. Perciò attenti a questa dimensione di speranza, che dobbiamo coltivare nel cuore, nella preghiera, nella sensibilità. Attenzione, perché possiamo oggi istituirci sempre con un ministero di speranza nella vita dei nostri fratelli e delle nostre sorelle. Portare nel cuore la speranza, una speranza viva, bella, piena d’amore. Ecco la fede in Cristo Gesù, che non ha perso la speranza sulla croce, ma ha dato la suprema testimonianza di amore… “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. E la testimonianza piena d’amore è anche “Donna, ecco tuo figlio, figlio ecco tua madre”. Dove “donna” è Maria, immagine e modello della Chiesa. Maria è madre della Chiesa per questo “Donna ecco tuo figlio”. E in quel figlio ci siamo tutti noi, c’eravamo tutti noi presenti, perché in una situazione di vita difficile o di vita impossibile, come quella dell’impero romano, un giusto, e Gesù era giusto, non poteva non fare quella fine. E Gesù ha dato tutto se stesso per amore e per speranza».
Ma, a detta dell’arcivescovo Valentinetti, è fondamentale convertirci anche come Chiesa: «Ci è data una grande possibilità – ricorda -, quella del Sinodo che è stato celebrato, sia quello della Chiesa universale e sia quello della Chiesa italiana. Un Sinodo che ci porta a interrogarci su tre elementi importanti. Sinodalità come comunione, sinodalità come partecipazione, sinodalità come missione. Papa Francesco è stato coraggioso nell’indire un sinodo che per la prima volta non vedeva presenti solo i vescovi, ma vedeva presenti anche i sacerdoti, i laici, i religiosi e le religiose. È stato molto molto coraggioso. Ma di questo Sinodo ora che cosa resta? Nella nostra Chiesa particolare, di questo Sinodo, sta rimanendo il cammino – per quelle parrocchie che lo stanno facendo e per il cammino diocesano – del Centro Studi “Missione Emmaus” perché ci stiamo mettendo in una condizione diversa per cominciare a fare delle sperimentazioni di carattere pastorale. Questo in quanto sicuramente è ora di cambiare sistema. È ora di cambiare sistema perché la nostra catechesi, bisogna riconoscerlo, non incide più nella vita dei ragazzi, nella vita dei giovanissimi, nella vita dei giovani. Io mi meraviglio anche che questa catechesi che sto facendo io, possa arrivare al vostro cuore. Ma è una catechesi di parola “cuore a cuore”, vescovo a fedeli. Ma il Sinodo ci deve lasciare innanzitutto la dimensione dell’ascolto. La grande conversione pastorale che dobbiamo fare è ascoltarci. I sacerdoti devono ascoltare i fedeli, i fedeli devono ascoltare i sacerdoti, tutti ci dobbiamo ascoltare perché con l’ascolto. Non con le pretese, ma con l’ascolto reciproco, perché solo quest’ultimo riesce a creare comunione, sinodalità e comunione. Ma la comunione rischia sempre di essere difettosa, se si chiude in un circolo cieco. Della serie “Noi stiamo bene da soli, con il gruppo con cui camminiamo nella fede”. La comunione è essenzialmente una capacità di allargare lo spazio per poter parlare con tutti e per potersi far ascoltare da tutti, ma ci vuole anche tanta umiltà per ascoltarsi e per farsi ascoltare. E noi dobbiamo praticamente convertirci su questo cammino, perché fino adesso abbiamo fatto qualche passo, ma forse dobbiamo fare qualche passo in più».

Quindi la riflessione dell’arcivescovo si è concentrata sugli aspetti della sinodalità e della partecipazione: «Ma io – s’interroga ancora monsignor Tommaso Valentinetti – perché partecipo alla vita parrocchiale? Lo faccio per farmi grande, per farmi lodare, per farmi riconoscere? O partecipo alla vita parrocchiale mettendomi sempre all’ultimo posto e mai al primo posto, perché io possa svolgere un cammino di servizio. Partecipare come servizio, come scelta dell’ultimo posto. L’abbiamo ascoltato domenica scorsa, se non vado errato, alla liturgia. Allora una partecipazione non presuntuosa. Non una partecipazione di chi pensa di gestire la parrocchia, ma di chi è contento se nella parrocchia vengono altri parrocchiani e camminano insieme. E poi la partecipazione non è solo all’interno della parrocchia, ma è dentro la testimonianza della propria fede perché nel mondo ci sia una testimonianza di differenza di fede. Vengo in parrocchia per ascoltare il Signore che mi parla, ma il mio cristianesimo lo realizzo nella mia vita di tutti i giorni, nella mia vita continuamente. È questa la differenza cristiana. Io dico una parola un po’ brutta adesso… I “santocchiari” non hanno mai portato buon risultato alla vita della Chiesa. Vale molto più chi prende coraggio dalla parola di Dio ascoltata, dalla preghiera eucaristica e quant’altro, per poi nella vita di tutti i giorni realizzare la differenza cristiana. Ho ricevuto una lettera anonima, giorni fa, che diceva che “questo accogliere i profughi, dovevamo finirla come Chiesa”. Fratelli, sorelle, non è possibile! Se pensiamo così, non è la differenza cristiana che diventa verità».
E infine, l’aspetto che concerne sinodalità e missione: «Missione, non proselitismo – ammonisce Valentinetti -. Missione, ma non accaparramento di fedeli. Missione per dare una testimonianza soprattutto ai lontani, a chi vive una dimensione di fede non completa, ai cristiani della soglia, ai cristiani che arrivano appena appena ad entrare nell’aula liturgica. E allora, questa è la conversione di Chiesa. Questa è la conversione che tutti dobbiamo fare. Questa è la conversione di un cristianesimo che, finalmente, deve risuscitare a vita nuova».
Al termine della meditazione, ha avuto luogo un’adorazione eucaristica, presieduta dal direttore dell’Ufficio liturgico diocesano don Emilio Lonzi, che ha dato l’opportunità – a quanti volessero – di accedere al sacramento della riconciliazione. Infine, l’arcivescovo di Pescara-Penne – concelebrando con tutti i sacerdoti dell’Aricidiocesi – ha presieduto la santa messa conclusiva la quale, mediante la recita del Credo, ha consentito a tutti i partecipanti al pellegrinaggio giubilare diocesano di lucrare l’indulgenza plenaria.



