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C’è chi canta bene… e predica male

Quando far stare lo Spirito Santo nella Trinità e più facile con un trifoglio e con la poesia…

Qualche volta capita il contrario, come abbiamo visto, ma è di gran lunga più frequente e attestato il caso in cui le sciocchezze, in chiesa, non vengono proferite dal coro, bensì dall’ambone. Non è per intento polemico che si dice questo, né si sta pensando a predicatori poco istruiti o poco abili nel parlare: no, c’è proprio una vasta e diffusa tendenza, nella storia della Chiesa, all’anteriorità della poesia sulla teologia.

In molti casi, è vero, i teologi sono stati e sono dei poeti ma, anche dove questo si dà, permane un’innegabile e radicale differenza epistemologica tra la poesia e la teologia: la prima è arte di intuizione e forma, la seconda di posizione e speculazione (normalmente deduttiva), e l’unico campo veramente affine a entrambe è la mistica, che – come le grandi vette che separano le nazioni sulla crosta terrestre – appartiene un po’ a entrambe e un po’ a se stessa soltanto, così vicina al cielo com’è.

Prospero d’Aquitania sapeva comunque il fatto suo, quando registrava che è «la legge del pregare che stabilisce la legge del credere», e non viceversa. Ecco perché è da sconsiderati non far caso al contenuto delle preghiere (come se una preghiera valesse l’altra), che per buona parte viene espresso in musica, almeno a livello comunitario.

Una buona esemplificazione di questa dinamica si ritrova proprio nel clamoroso ritardo che la dottrina dello Spirito Santo porta sulla coscienza che i cristiani hanno avuto dell’esistenza e dell’attività dello stesso. Erano gli albori della cristianità, molto prima della stesura dei Vangeli, quando Paolo, dall’entroterra della Turchia, giunse a Efeso. Lì – meraviglia delle meraviglie (ma Paolo non se ne stupiva più di tanto) – trovò già dei cristiani, e trovò una cosa non scontata che questi sapessero dello Spirito Santo, o meglio che l’avessero ricevuto, come l’avevano ricevuto gli Apostoli a Pentecoste. Fece bene a non dare per scontata la cosa, perché la risposta fu: «Non abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo» (At 19,2). Poco male, Paolo rimediò all’una e all’altra cosa, e scorrendo le pagine degli Atti degli Apostoli si vede come lo Spirito giochi nella trama del racconto un ruolo non meno attivo di quello di Gesù nei Vangeli: si sa da sempre che Luca è l’autore sia del terzo vangelo sia degli Atti (nell’antichità i due libri venivano anche rilegati insieme, specie da taluni eretici che escludevano gli altri Vangeli), e proprio in lui si deve notare che lo Spirito non è un utile escamotage tirato fuori dal cilindro per far quadrare i conti della Chiesa al momento della scomparsa di Gesù dal dominio dei sensi. Da che lo si vede? È proprio Luca l’autore che fa cominciare il secondo dei suoi due libri (ossia gli Atti) con Gesù che promette agli Apostoli: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi…» (At 1,8); lo stesso che Gabriele aveva promesso, all’inizio del Vangelo, a Maria: «Lo Spirito Santo scenderà su di te…» (Lc 1,35).

Nessun imprevisto, dunque: lo Spirito, che dispiegherà la sua grande potenza dopo l’ascensione di Gesù (precisamente a partire dalla festa di Pentecoste), tirava i fili della storia della salvezza fin da sempre. Di questo Spirito avevano fatto esperienza Pietro, Paolo e tutti gli apostoli, in un modo così forte e inaspettato (anche per chi s’era nutrito a scritti profetici per tutta la vita) che Luca fu costretto ad annotare cose come: «Attraversarono quindi la Frigia e la regione della Galazia, avendo lo Spirito Santo vietato loro di predicare la parola nella provincia d’Asia. Raggiunta la Misia, si dirigevano verso la Bitinia, ma lo Spirito di Gesù non lo permise loro» (At 16,6-7).

Lo Spirito dirige, lo Spirito costringe, lo Spirito vieta… questo è il cuore dell’esperienza apostolica, tanto che – ancor prima che Luca e gli altri scrivessero i loro vangeli – era stato Paolo a esaltare lo Spirito di cui stava facendo esperienza addirittura inserendolo all’interno del cuore dell’annuncio cristiano: la risurrezione di Gesù. Paolo passa infatti dal semplice attestare che «Cristo è risorto dai morti» al precisare che «Dio ha risuscitato Gesù dai morti» (non è dunque una faccenda semplicemente autonoma di Gesù), e a cesellare infine il concetto in senso schiettamente trinitario (quando il concetto di “Trinità” era davvero solo nella mente di Dio!): «Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Cristo dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (Rm 8,11).

C’è dunque Cristo, un altro che l’ha risuscitato, e uno Spirito per mezzo del quale il secondo ha risuscitato il primo. Passeranno tre secoli buoni prima che qualcuno cominci a capire qualcosa di questa faccenda (Tertulliano e Origene c’erano già arrivati, ma due rondini non fanno primavera). Nel frattempo che succede? Niente: nel frattempo si continua a «battezzare nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» come il Signore ha comandato e come Matteo ha registrato (Mt 28,19). Senza sapere che cosa significhi? Qualcosa del genere, sì: si battezza con quella formula qualunque cosa quella formula significhi, e qualunque cosa/persona siano il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

Ora, è facile immaginare che ci fosse ben poca difficoltà a comprendere come persone due che sono definiti “Padre” e “Figlio”, e non solo a motivo del grado di parentela. Errori sono stati fatti anche su questo versante, ma qui il grosso della difficoltà era rappresentato dal problema di far quadrare questi dati con l’asserzione dell’unità e dell’unicità di Dio: se sono due e se sono divini, sono due dèi, ma se sono due dèi non possiamo dirci monoteisti. Di qui nascono – in tempi e per processi diversi – adozionismo, modalismo e arianesimo.

Ma lasciamo stare queste eresie, perché riguardano ancora, sempre e solo, il rapporto tra Padre e Figlio. Che ne è stato dello Spirito Santo? Avevamo accennato, appunto che soltanto Tertulliano e Origene erano state le aquile che, tra secondo e terzo secolo, erano arrivate a vedere tanto lontano, tanto a fondo, tanto chiaro. Non fu per questo che entrambi finirono eretici (ironia della storia!), è vero, ma la loro caduta in disgrazia pregiudicò (almeno in parte) la facilità con cui le loro dottrine venivano recepite. Per questo motivo, nel 325, i 318 Padri radunati a Nicea da Costantino (padre più, padre meno) non si pronunciarono sullo Spirito Santo se non con un laconico: «Crediamo nello Spirito Santo». Poche parole, appena un quarto di quanto era stato detto del Padre e un ventesimo di quanto era stato detto del Figlio! Perché tanta paura? Naturalmente, trovandosi il concilio di Nicea a fronteggiare eretici che ritenevano che già il Figlio fosse di troppo, nel mondo della divinità, ogni parola sullo Spirito sarebbe potuta essere quella che faceva traboccare il vaso. Più di mezzo secolo dopo, 150 Padri avrebbero ripreso in mano quel testo, a Costantinopoli, aggiungendo sullo Spirito tutto quello che ancora oggi viene recitato a messa (a parte la faccenda della processione “dal Padre e dal Figlio”, ma questa è un’altra storia). Comunque “poca roba”, in confronto alle grandi cose dette del Figlio: «Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero».

Perché dunque tanta timidezza della Chiesa, nei confronti dello Spirito, se fin dai tempi dei viaggî apostolici di Pietro e Paolo questa faceva l’esperienza di essere spronata, frenata, incitata e strattonata da uno Spirito che certo non poteva dirsi timido, tanto che i discepoli di Paolo si ricordavano a vicenda che «Dio non ci ha dato uno Spirito di timidezza…» (2Tm 1,7)? Una risposta veramente esauriente non può che trovarsi in volumi del calibro di La crisi ariana nel IV secolo (di Manlio Simonetti), ma la cosa che qui c’interessa sottolineare è che nonostante la dottrina e la teologia fossero così titubanti nel parlare dello Spirito, mai l’innografia aveva smesso di tematizzare lo Spirito nel cantare «a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali» (Col 3,16).

Dove lo si può constatare? Ma dappertutto, confrontando gli antichi inni liturgici (attenzione, non le semplici poesie non recepite dalle comunità!) con le omelie e i trattati teologici (lo pseudo-Ippolito, Novaziano…), e si pensi che perfino nella lontana Irlanda il famoso san Patrizio era incorso in un’impasse del genere: nell’inno composto in suo onore (quand’egli era ancora vivo!) dal discepolo e amico Isernino si legge infatti che Patrizio avrebbe insegnato una dottrina trinitaria (ortodossa) di Dio; dalla sua stessa Confessione di fede, invece, prendiamo atto di una trinitaria incapace di comprendere lo Spirito Santo (una “binitaria”, quindi). Niente di anomalo, niente di isolato, niente di scandaloso: semplicemente, è sempre possibile cantare male e predicare bene, ma è molto più comune cantare bene e predicare male. E dire che è pure famoso, san Patrizio, per aver spiegato la Trinità con un trifoglio!

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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