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Gregorio alla vigilia del secondo giorno

Un antidoto contro le ansie della settimana che ricomincia: parola di Gregorio Magno

Quando si parla di “vigilia” siamo abituati a pensare a quella del 24 dicembre, o tutt’al più a quella che precede ogni singola domenica o festività (e chi frequenta la Liturgia delle Ore sa che in quelle occasioni c’è la possibilità di praticare la bella preghiera dell’ufficio vigiliare); se però è vero, come è vero, che tutta la settimana è pensata per essere la scansione globale di un unico grande e universale giorno di festa, anche la domenica si trova in qualche modo ad essere una vigilia. La vigilia, appunto, del secondo giorno della grande festa settimanale: “Feria secunda” [= “Seconda festa”] è precisamente il nome latino del lunedì, e abbiamo già avuto modo di ricordare come lingue quali il portoghese conservino questo modo “ambiguo” di chiamare quello che comunque tutti considerano (a torto!) il primo giorno della settimana.

Tra i tanti magnifici inni della tradizione innologica latina se ne trova uno, molto antico, sulle quali per varie ragioni vale la pena soffermarsi: l’“Immense cæli Conditor” risulta attestato fin dall’epoca gregoriana, e fin da allora lo si attribuisce al solito sant’Ambrogio. Ora, visto che non dovrebbe più farci impressione il procedimento per cui un autore antico (i moderni hanno altri vezzi) legava i proprî componimenti a nomi di autori più affermati di lui, nulla vieta di pensare che il grande compositore di questa meravigliosa lirica sia lo stesso Gregorio I, il Papa che paradossalmente passò alla storia come “Gregorio Magno” anche per la squisita delicatezza del tratto, per il quale usava firmarsi “servo dei servi di Dio.

Non è questo l’unico titolo col quale Gregorio è ricordato: anzi, il più celebre è probabilmente “il Console di Dio”, consacrato dall’incisione che fecero riportare nel suo epitaffio. Gregorio era stato in effetti un uomo ricco di talenti amministrativi, tanto da risultare presto lanciato verso una brillante carriera politica e diplomatica. Diventò prefetto della città di Roma molto presto, anche se ben presto si stancò di quelli che sempre più gli parevano traffici senza un vero scopo. Alla ricerca dell’essenziale, nonché dello scopo della propria vita, Gregorio si ritirò nella propria bella casa al Clivo di Scauro, conducendovi una vita dedita al silenzio e allo studio delle Scritture. Erano però tempi difficili, per la Chiesa e per l’Impero, e il fatto che l’Impero d’Occidente fosse formalmente crollato aveva sollevato più problemi di quanti sembrasse averne risolti: l’Occidente (e in particolare l’Italia) si trovava infatti al centro delle mire espansionistiche dell’Imperatore d’Oriente e dei nascenti regni “romano-barbarici”, mentre nell’incertezza generale (e nel disastro economico che ne conseguiva) la Sede del Vescovo di Roma cercava di raccogliere la sfida di una civiltà da salvare.

Come se non bastassero le difficoltà economiche e politiche, anche il panorama ecclesiale era tutto squassato dagli inesausti strascichi di una disputa cristologica che, in diverse forme, si protraeva ormai da un paio di secoli, e che non avrebbe visto un termine (molto relativo!) se non un paio di secoli dopo: Gregorio fu quindi stanato dal suo eremo cittadino e, per il bene della Chiesa, fu ordinato diacono e mandato a Costantinopoli con la carica di Apocrisario papale (gli apocrisarî erano “gli antenati dei nunzî apostolici”, in pratica gli ambasciatori del Papa). Ora non è importante per noi cosa fece Gregorio a Costantinopoli (anche se ne fece, di cose), ma che, una volta tornato, e una volta morto il Papa che ce l’aveva mandato, si trovò praticamente eletto Papa a furor di popolo e di clero: ancora una volta, Gregorio cercò disperatamente la propria pace, corse a nascondersi, inviò uomini con l’incarico di intercettare la lettera che comunicava all’Imperatore la sua elezione e che da lui doveva ricevere la ratifica (all’epoca le elezioni papali funzionavano così), ma non ce la fece. A quel punto Gregorio si rimboccò le maniche, si diede da fare e risultò, per grazia di Dio, uno dei più grandi pontefici della storia.

Conservò tuttavia lo sguardo inquieto di chi faceva una vita per la quale non provava alcuna attrazione, mentre vagheggiava con nostalgia la pace del poco tempo di solitudine che in giovinezza gli era stato concesso. Reagì alle devastazioni comportate dalle invasioni barbariche con delle efficaci riforme del sistema di ridistribuzione del grano, tenne contatti con gran parte dei vescovi del mondo e con i maggiori tra i sovrani del suo tempo, ma nel frattempo sfogava nello scritto la malinconia del trovarsi forzatamente ad essere testimone del tramonto di una cultura.

Da quest’animo nacque probabilmente il nostro inno, che ancora oggi viene cantato nella Liturgia delle Ore alla sera del primo e del terzo lunedì del salterio: come si può vedere dalla tabella che abbiamo approntato, la versione italiana dell’inno conserva a malapena l’odore del testo gregoriano. Intanto perché è composto di sole tre strofe, contro le quattro del testo antico, e poi perché di fatto consiste in una parafrasi (piuttosto libera) di un paio dei temi dell’inno gregoriano. Ciò che il testo italiano invece guadagna, rispetto a quello di Gregorio, è lo spessore cristologico: la cosa può forse sorprendere, in un Papa, ma non è in effetti tanto mirabolante, per chi conosce bene Gregorio.

E questo non perché un cristiano possa o non possa parlare di Dio senza parlare di Cristo (questione effettivamente difficile e su cui non ci si può soffermare adesso), ma perché la meditazione che si riversa nell’inno di Gregorio è radicata in una riflessione cosmologica che si specchia nelle prime pagine della Genesi, ossia quelle dedicate al racconto della creazione. Lo schema della settimana cristiana – quello per cui il lunedì è il secondo giorno della festa eterna promulgata nella Pasqua di Resurrezione – s’intreccia con la settimana della creazione, che non conta ancora il lunedì a partire dal sabato (che non c’è ancora) o dal “primo giorno dopo il sabato” (evidentemente c’è ancor meno), ma semplicemente dal principio. «In principio Dio creò il cielo e la terra» era un versetto che per tutti i Padri andava sempre letto in collegamento con il primo versetto del Vangelo secondo Giovanni – «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio» – ed effettivamente chi l’ha scritto l’ha scritto senz’altro pensando all’inizio del primo libro della Scrittura.

Il secondo giorno, dunque, era in principio quello in cui Dio “separò le acque dalle acque”, e di quest’opera divina primordiale parla la prima parte dell’inno: s’individuano distintamente due sezioni diverse, nel testo di Gregorio, perché due delle quattro strofe sono dedicate a ripercorrere i misteri della creazione, e due (le ultime) a invocare l’aiuto della Grazia divina nelle necessità del tempo presente. Gregorio ha voluto suggellare con l’uguale numero delle strofe il parallelismo che intercorre tra l’opera della creazione e quella della provvidente e quotidiana redenzione, e questo è il motivo per cui neanche l’esplicitazione cristologica della qualità della Grazia divina (che il testo italiano vanta su quello latino) basta a ripagare la riduzione della sezione da due strofe a una.

È opportuno focalizzare una caratteristica delle prime due: se è infatti genericamente chiarissimo l’episodio biblico cui i versi alludono, il senso specifico della seconda quartina è un po’ più oscuro. Che Dio divida “le acque dalle acque” rimanda alla convinzione cosmologica dell’antico Israele, che voleva che la volta celeste celasse sopra di sé una qualche massa di acque (donde anche le piogge e le altre precipitazioni atmosferiche). Chiaramente si tratta di un dettaglio del testo sacro non inerente al patrimonio della fede, per veicolare il quale lo stesso testo esprime: tale distinzione è tuttavia sempre più facile da operarsi in teoria che in pratica, perché di fatto è spesso attraverso un’elaborazione ecclesiale perdurante nei secoli che si giunge a distillare, nella comprensione ecclesiale della Scrittura, l’essenziale della Rivelazione, distinguendolo dagli aspetti accidentali del racconto. Per questo vale la pena riportare, sinteticamente, l’osservazione dell’erudito benedettino che nel volume XVII della Patrologia Latina (dove il testo è conservato, insieme con altri inni ambrosiani e pseudoambrosiani) si sofferma su questo dettaglio: «Tutti i libri riportano il verbo “dissipent” al plurale, e con ciò fanno di “fiamme” il soggetto; il testo sembrerebbe però avere più senso, se del verbo s’ipotizzasse una coniugazione singolare, riferita quindi all’acqua. Il senso sarebbe, in breve, che l’acqua e il fuoco, sotto il sapiente governo di Dio, si equilibrano in modo tale che nessuno dei due può risultare totalmente distruttivo per la creazione». Così le “acque sopra le acque” servirebbero da “liquido di raffreddamento” delle sfere celesti, che altrimenti rischierebbero di andare a fuoco. È chiaro che una simile preoccupazione è data dalla contaminazione di uno schema cosmologico (quello aristotelico-tolemaico) nell’altro (quello semitico-giudaico) e che di per sé è molto discutibile dal punto di vista metodologico – difatti non ha considerazioni di valore né per la filosofia né per la teologia. Questa considerazione, il benedettino la riprende citando le parole di Josse van Clichtove (teologo belga del XVI secolo), che giunge però a ritenere che ciò che tale “liquido di raffreddamento cosmico” dovrebbe salvare sarebbe la superficie del pianeta terra, che altrimenti rischierebbe di essere bruciato dalle orbite infuocate dei pianeti.

Considerazioni fantasiose, ma evidentemente prive di ogni riscontro scientifico e di ogni coerenza epistemologica: Gregorio, che a indagare i sensi della Scrittura ha dedicato l’intera vita, non s’è certo perso in simili vaneggiamenti. Proprio il parallelismo tra le prime due strofe e le ultime due (quello, per intenderci, tanto negletto dal traduttore italiano) è ciò che fonda e motiva l’aver evocato, al principio della settimana lavorativa (ossia alla sera del secondo giorno della festa settimanale), gli eventi mirabili della creazione: è la medesima forza che allora ha disposto in ordine ed equilibrio elementi naturali contrastanti e di precaria stabilità quella di cui gli uomini hanno bisogno, nella loro giornata, per conservare integro il cuore tra le vicende secolari.

E l’ultima strofa (quella, per intenderci, saltata a piè pari dalla traduzione italiana) è appunto quella che enuncia, alla fine di una giornata di lavoro, quale sia il tesoro del cuore: mentre la sera è non solo «della fatal quiete […] l’immago», ma anche del dramma della fede – che comincia nella luce e la luce attende, ma nell’oscurità –, il cuore viene affidato alla Grazia che salva perché possa giungere all’altra sponda del buio, dove la luce torna a brillare. È la mattina, ma è pure la pace e la gioia.

Queste cose cercava Gregorio, e il primo motivo per cui crediamo che le abbia trovate è perché sappiamo in fondo a noi stessi che non si vive se non per cercare queste.

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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