“Il lavoro non è un’opzione, ma un fatto costituzionale della vita”
"La nostra - ricorda monsignor Valentinetti - è una Repubblica fondata sul lavoro. Ma se il lavoro non c’è o se il lavoro è precario o se il lavoro è bistrattato, o se il lavoro comincia a diventare sempre meno specializzato e sempre più il risultato di una tuttologia di una capacità che si devono acquisire nella vita, chi di dovere possa impegnarsi a costruire la casa comune, la città comune, la nostra realtà nazionale, proprio sulla capacità di mettere a servizio degli altri le proprie energie lavorative"
È stato un importante appello alle coscienze, dei governanti e dei cattolici in genere, quello rivolto ieri sera dall’arcivescovo di Pescara-Penne monsignor Tommaso Valentinetti nella Cattedrale di San Cetteo, presiedendo la Santa messa in occasione del Giubileo dei lavoratori: «Rivolgiamo una grande preghiera – esorta il presule, durante l’omelia – per coloro che ci governano, perché capiscano ed entrino nella logica che il lavoro non è un’opzione facoltativa, ma è essenzialmente un fatto costituzionale della vita dell’uomo».
Non è mancato, quindi, il riferimento all’articolo 1 della Costituzione: «La nostra – ricorda monsignor Valentinetti – è una Repubblica fondata sul lavoro. Ma se il lavoro non c’è o se il lavoro è precario o se il lavoro è bistrattato, o se il lavoro comincia a diventare sempre meno specializzato e sempre più il risultato di una tuttologia di una capacità che si devono acquisire nella vita, chi di dovere possa impegnarsi a costruire la casa comune, la città comune, la nostra realtà nazionale, proprio sulla capacità di mettere a servizio degli altri le proprie energie lavorative».
Un messaggio, quello rivolto dall’arcivescovo di Pescara-Penne, seguito al forte momento introduttivo che ha visto i pochi lavoratori partecipanti attraversare la porta santa della cattedrale pescarese.
Una partecipazione limitata, che deve far riflettere in un momento in cui il tema dell’accesso al lavoro è quanto mai al centro delle polemiche e del dibattito pubblico: «Non voglio rammaricarmi assolutamente – precisa l’arcivescovo Valentinetti – se siamo poche persone, non è la quantità che mi preoccupa, anche perché possiamo pregare per quelli che non ci sono. Ma, forse, questa quantità esigua dimostra che c’è un mondo che probabilmente non conosciamo, c’è un mondo con cui non dialoghiamo. C’è un mondo che ci è estraneo, anche perché sostanzialmente ci obbliga a delle dialettiche, ma il problema è che molto spesso quando si vivono dimensioni ecclesiali o ecclesiastiche, si vive una realtà di pacificazione come se i problemi non dovessero esistere, o non dovessero essere affrontati».
Eppure, all’interno della comunità cristiana, non è stato sempre così: «La comunità cristiana primitiva – ricorda Valentinetti – ha vissuto delle dialettiche molto profonde, su fatti fondamentali che potevano riguardare la fede. Era giusto o non era giusto circoncidersi? Era giusto o non era giusto, prima di seguire il Vangelo di Gesù Cristo, seguire le leggi mosaiche? Qual era la strada? Certamente una strada molto difficile, per quelle persone che dovevano prendere delle decisioni importanti, ma la dialettica non all’interno della comunità cristiana è stata molto serrata».
Una dialettica che oggi, però, ci spaventa: «Molte volte – ammette il presule – noi abbiamo paura del confronto, abbiamo paura anche delle mediazioni quasi come se queste potessero far arrivare ad avere un risultato a ribasso. Ma la mediazione è il risultato di un confronto, fra persone, fra idee, fra esigenze».
Esigenze che, ancora una volta, emergevano all’interno delle prime comunità cristiane: «Dove c’erano degli scribi e dei farisei – ricorda ancora monsignor Tommaso Valentinetti – che si erano convertiti al cristianesimo, ma anche nelle città dell’Asia minore, dove non c’erano ebrei, scribi e farisei, ma dove c’erano dei pagani che pure si sono convertiti a Gesù Cristo».
E allora la dialettica, la mediazione, non può che tornare necessariamente al centro della comunità cristiana contemporanea, chiamata a riflettere sul monito lasciato pochi giorni fa da Papa Francesco alla Conferenza episcopale latino-americana: «Molte volte – sottolinea il Pontefice – siamo caduti nella tentazione di pensare che il laico impegnato sia colui che lavora nelle opere della Chiesa, nelle cose della parrocchia o della diocesi. Abbiamo riflettuto poco su come accompagnare un battezzato nella sua vita pubblica e quotidiana e senza rendercene conto, abbiamo creato una élite laicale credendo che sono laici impegnati solo quelli che lavorano nelle cose dei preti, trascurando il credente il credente che, molte volte, brucia la speranza nella lotta quotidiana per vivere la fede. Sono queste le situazioni che il clericalismo non può vedere, perché più impegnato a dominare spazi che a generare processi. Dobbiamo pertanto riconoscere che il laico, perché immerso nel cuore della vita sociale, pubblica, culturale e politica, ha bisogno di nuove forme di organizzazione e celebrazione della fede. Ciò richiede di immaginare spazi di preghiera e comunicazione con caratteristiche innovative, più attraenti e significative per le popolazioni urbane».
Una riflessione, quella del Santo Padre, su cui intende meditare anche la comunità diocesana pescarese: «Che sia questo – conclude l’arcivescovo Valentinetti – il momento di una preghiera intensa, per chi vive il grande dramma dell’essere senza lavoro, per chi vive il grande dramma di un lavoro precario, per chi non riesce ad avere una stabilità del lavoro. Mi auguro che da questa esperienza possiamo uscire rinvigoriti, con il santo proposito che forse anche a livello diocesano dobbiamo fare di più, e con più attenzione nella realtà sociale, per accostare tanti fratelli e tante sorelle che spendono la loro vita nel mondo del lavoro».