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Filosofia per la vita. Leopardi legge Epitteto

Cosa hanno da insegnare i filosofi al nostro tempo? Cosa significherebbe passare un giorno alla scuola di Atene?

Chiunque insegni filosofia o sia cultore della materia avrà risposto almeno una volta, magari per cortesia, alla domanda: “A cosa serve la filosofia?”. Ultimamente anche la scuola sembra indugiare sulla suddetta domanda, provando a confinare l’insegnamento della filosofia in un numero sempre minore di ore. Al variare dell’interlocutore, gli interrogati risponderanno in maniera più o meno articolata e motivata, magari ricorrendo all’autorevole Protrettico di Aristotele. A voi che leggete vorrei proporre la “risposta” di Jules Evans, filosofo londinese, autore di un libro dall’esauriente titolo Filosofia per la vita e altri momenti difficili (ed. it., Mondadori 2014) e amministratore del sito www.philosophyforlife.org. Jules Evans, senza troppi giri di parole, risponde alla domanda in questione con un’immagine: per capire a cosa serva la filosofia basterebbe mettersi davanti a quel capolavoro che è La scuola di Atene, realizzato da Raffaello Sanzio su commissione di Giulio II, immaginando di passare un giorno o più alla scuola dei filosofi ritratti. Cosa hanno da dire quei filosofi al nostro tempo? Cosa significherebbe di diverso, rispetto all’attuale insegnamento della filosofia nelle scuole e anche nelle università, passare un giorno alla scuola di Atene? Ciò che sappiamo è che i filosofi ritratti propongono idee radicalmente diverse, ma sono accomunati da un unico valore: tutti i filosofi mostrano fiducia nella razionalità umana e nelle capacità della filosofia di migliorare la vita. Non è chiaro se si trovino in un tempio, in un mercato, sotto un porticato, comunque si tratta di un luogo pubblico dove chiunque avrebbe potuto unirsi alla conversazione, perché il fine dei filosofi era insegnare ai discepoli una pratica filosofica che, attraverso l’uso della ragione, migliorasse la vita e aiutasse a sopportare le avversità personali. Come allora, vorremmo presentare il pensiero di alcuni esponenti della filosofia antica, con l’auspicio che dalla lettura si possano ricavare reali tecniche di auto-aiuto per la vita. Iniziamo dal filosofo stoico Epitteto (circa 55 d.C-130 circa), che affermava: «Ciò che turba gli uomini non sono le cose, ma le opinioni che essi hanno delle cose». Pensieri e convinzioni diverse portano a stati emotivi differenti. Praticando la filosofia come stile di vita possiamo modificare emozioni per noi tossiche mutando i nostri pensieri a riguardo, perché le emozioni seguono le idee. Collocandoci con l’immaginazione al cospetto de La scuola di Atene, facciamo la conoscenza di Epitteto. Buon ascolto, e intervenite se volete.

Epitteto, venuto alla luce intorno al 55 d.C. nella città di Ierapoli, oggi nel territorio della Turchia, ebbe per nome un termine (Ἐπίκτητος) che significa “acquistato”. Schiavo, povero, senza famiglia, anche zoppo – secondo alcune fonti – a causa dei maltrattamenti del primo padrone, ebbe la fortuna di trovare in un certo Epafrodito un padrone illuminato che gli permise di studiare con il più grande filosofo stoico del tempo, Gaio Musonio Rufo. Lo stoicismo, che ebbe origine nel III secolo a.C., un secolo dopo la morte di Socrate, trae nome da poikìle stoà, il “portico dipinto” del mercato ateniese dove si radunavano i primi stoici per insegnare la “filosofia di strada” a chiunque volesse: maschio o femmina, libero o schiavo, greco o barbaro che fosse. Gli stoici sostenevano che chi usa la ragione per superare le difficoltà o le avversioni causate dalle condizioni esterne è capace di rimanere imperturbato in qualsiasi circostanza. Liberato da Epafrodito, Epitteto divenne un esponente della filosofia stoica e visse a Roma fino al 92-93 d.C. quando l’editto di Domiziano bandì da Roma tutti i filosofi. Fondò allora a Nicopoli in Epiro una scuola alla quale, tra gli altri, aderì Flavio Arriano, che raccolse diligentemente le lezioni di Epitteto negli otto libri di Diatribe o Dissertazioni da cui furono poi estratte delle massime per il conseguimento della felicità, raccolte nell’Εγχειρίδιον (Enchiridion, “ciò che si tiene in mano”), il Manuale di Epitteto di cui Leopardi fu l’illustre traduttore. Nel Preambolo del volgarizzatore, Leopardi spiega le ragioni che «fanno assai prezioso e caro questo libricciuolo», tanto da averlo indotto a cimentarsi nella traduzione: ha imparato da Epitteto una «pratica filosofica» di un’«utilità incredibile», in grado di sollevarlo dai «molti travagli dell’animo e molte angosce», tanto da voler esortare quanti leggeranno di mettere in esecuzione gli insegnamenti ivi contenuti. Il pensiero di Epitteto, come si legge all’inizio del Manuale, parte da una considerazione evidente sulla quale si fonderebbe la nostra capacità di essere felici o meno, ma alla quale non prestiamo più attenzione: «le cose sono di due maniere; alcune in potere nostro, altre no». Nello specifico, possiamo così distinguere: 1) Sono in nostro potere «i nostri pensieri, le nostre convinzioni, i giudizi, i desideri, avversioni, in breve tutte quelle cose che sono nostri propri atti». Questo è il “regno” nel quale siamo sovrani assoluti e nessuno può spodestarci contro la nostra volontà: abbiamo sempre la possibilità di scegliere in cosa credere e cosa pensare; 2) Non sono in nostro potere «il corpo, gli averi, le opinioni che gli altri hanno di noi, i magistrati, e in breve quelle cose che non sono nostri propri atti». Potremmo aggiungere alla lista, per farla nostra: il lavoro, i colleghi, gli amici, gli amori, la fortuna, il futuro, la salute. Alcune cose della lista, naturalmente, non sono proprio fuori dal nostro controllo ma dobbiamo accettare il fatto di non avere una sovranità assoluta sugli eventi a noi esterni. In sintesi, su tutto quanto accade fuori di noi abbiamo un potere limitato.

Molte delle nostre sofferenze, osserva Epitteto, sono causate da due errori: stimare in nostro potere ciò che non lo è; oppure non stimare in nostro potere ciò che lo è. In entrambi i casi saremo destinati al fallimento e ci sentiremo infelici, arrabbiati, sconfitti, deboli, in ansia, depressi. Ad esempio non esercitiamo un potere sovrano sulle opinioni degli altri, quindi non dobbiamo biasimarci oltremodo se gli altri non ci apprezzano; mentre esercitiamo un potere sovrano sulle nostre idee ed è in nostro potere imparare ad accettarci nonostante le opinioni degli altri, quindi senza biasimare i genitori, l’innamorato, gli amici, la scuola, la politica, il destino. Non si tratta di dire: “È tutta colpa mia”; oppure: “È tutta colpa degli altri”. Entrambe queste risposte sono sbagliate. Attraverso il buon uso della ragione (proairesi) dobbiamo arrivare a discernere (diairesi) ciò che è in nostro potere da ciò che non è in nostro potere. Chi sceglie di vivere rispettando il reale carattere delle cose «sarà virtuoso, vivrà nel bene, godrà di felicità, non incolperà alcuno, non avrà nemico e nessuno gli nuocerà». Il motto di Epitteto, mirabile sintesi dello stoicismo, è «Sopporta e astieniti» (Gellio, Noct. Att., XVII, 19, 6). Bisogna sopportare ciò che non è in nostro potere evitare, mentre bisogna astenersi da tutti i pensieri e le convinzioni che ci recano malessere perchè su di esse abbiamo potere. Epittetto ci mette in guardia tanto dal delirio di onnipotenza che ci fa credere di avere il controllo su ciò che invece non è in nostro potere; tanto dal delirio di impotenza che ci fa disperare di realizzare ciò che è in nostro potere.

Scrive Leopardi, alla fine del preambolo, che il più grande insegnamento di Epitteto e della scuola stoica, consiste nel prescrivere di «non curarsi di essere beato né fuggire di essere infelice», ma di «amare se medesimo con quanto si possa manco di ardore e tenerezza»: dobbiamo ricordare che anche nelle situazioni più difficili abbiamo sempre un certo potere sui nostri pensieri e sulle nostre convinzioni. Infatti, scrive Epitteto, «non sono i fatti in sé che turbano gli uomini, ma i giudizi che formulano gli uomini». Pensiamo ad un evento tragico, come la morte, e consideriamo come le persone reagiscono in modo diverso in base alle rispettive convinzioni e capacità di interpretare l’evento, «perché la morte non è nulla di terribile: ma il giudizio che la vuole terribile è terribile». Quando siamo turbati ed afflitti da cose che non sono in nostro potere, abbiamo sempre il potere di interpretare quelle cose in un modo a noi favorevole. Non curarsi delle cose che non sono in nostro potere e attendere alla cura di noi stessi sopra ogni cosa, per ammissione dello stesso Epitteto, richiede «sforzo e concitazione di animo non mediocre»; un esercizio di discernimento costante, l’arte del controllo di sé, la responsabilità piena dei propri giudizi. La filosofia, in questo, è una palestra utile di auto-aiuto, di allenamento della ragione, di esercizio di responsabilità: «Incolpare gli altri dei propri mali è tipico di chi non ha educazione filosofica; chi l’ha intrapresa incolpa sé stesso; chi l’ha completata non incolpa né gli altri né se stesso». Le emozioni seguono le idee, insegna Epitteto; così, se una “siepe” qualsiasi ostacolasse il nostro migliore “orizzonte”, come Leopardi possiamo sempre pensare: «interminati/ Spazi di là da quella, e sovrumani/Silenzi, e profondissima quiete/ Io nel pensier mi fingo».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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