Silenzio … parlano le idee
Quante volte sarà capitato di entrare in una chiesa di periferia o di nuova costruzione e provare … niente? Quante volte l’aria di modernità, spinta fino al minimalismo esasperato, ostentata dalle chiese ha rimandato la memoria ai comodi ambienti alla moda di una casa qualunque ammirata su di una rivista patinata? Quante volte elementi importanti, come il fonte battesimale, è stato visto collocato nei punti più disparati della chiesa a tal punto da considerarlo un elemento decorativo nelle mani dell’interpretazione personale e creativa dell’architetto del momento? Quante volte durante le funzioni liturgiche si sono ascoltati canti realizzati con basi musicali di note canzoni, casomai ai vertici delle hit parade, sia per la loro orecchiabilità e sia per la capacità di aumentare l’”audience” nelle chiese, soprattutto tra i più giovani?
Gli esempi possono continuare ma tutti convergono verso un’unica direzione: le chiese sono diventate concettuali, sembra che siano le idee a parlare e non le immagini che, oltremodo, sono spesso inesistenti o sono il risultato di riproduzioni, fatte alla meno peggio, di pseudo immaginette sacre.
Le chiese contemporanee che troneggiano nelle nostre città sembra abbiano subito il fascino di un genere di espressione artistica, l’arte concettuale appunto, che pone in una posizione di subordinazione la materiale esecuzione del manufatto rispetto alla ideazione preliminare del progetto.
Giovanni Damasceno, in uno dei suoi tre Discorsi in cui difendeva le immagini sacre dall’iconoclasmo, movimento impegnato a distruggere le immagini cristiane, soleva dire che “l’immagine è un trionfo, una manifestazione ed una proclamazione, sia a ricordo della vittoria di coloro che si sono splendidamente segnalati con il loro valore, sia a vergogna di coloro che sono stati sconfitti e prostrati a terra” (Discorsi II, 11).
L’opera di Giovanni Damasceno contro gli iconoclasti fu molto importante, perché cercò in più modi di rispondere alle accuse di coloro che lo additavano come un adoratore della materia. A costoro egli rispondeva: “Io non venero la materia, ma il Creatore della materia, che è diventato materia a causa mia, nella materia ha accettato di abitare e attraverso la materia ha operato la mia salvezza” (Discorsi I, 16). Per il Damasceno, inoltre, le icone devono essere addirittura accolte ed onorate “come immagini di imitazione e di somiglianza e come libri degli illetterati, ed occorre venerarle, baciarle ed abbracciarle con gli occhi, con le labbra e con il cuore come effigi del Dio incarnato, della madre sua e dei santi, compartecipi delle sofferenze e della gloria del Cristo e vincitori e distruttori del diavolo, dei demoni e del loro inganno“ (Discorsi II, 10).
Da un punto di vista teologico, Giovanni Damasceno porta a supporto del culto delle immagini sacre il tema dell’Incarnazione. A riguardo, infatti, il sol fatto che il Verbo si è fatto carne, consente a Damasceno di fare questa affermazione: “Io guardo l’immagine di Dio come la vide Giacobbe, anche se io in un modo ed egli in altro. Egli vide l’immagine immateriale, che agli occhi immateriali della mente preannunziava ciò che sarebbe avvenuto, io vedo un’ardente esca del ricordo di colui che fu visto nella carne” (Discorsi I, 22).
È appena il caso di ricordare che Damasceno con i Discorsi, intende interrompere un pensiero fortemente radicato nella Chiesa dell’epoca. Fin dall’inizio del III secolo era, infatti, prevalente la convinzione che non si dovesse in alcun modo ricorre alle immagini per accompagnare i momenti di preghiere o le funzioni religiose. Il motivo predominate a supporto di questo indirizzo era proprio il timore, di certo non così remoto, che si potesse innescare una commistione con l’idolatria già alquanto diffusa nel mondo pagano. Del resto, a ben guardare, le stesse leggi contenute nell’Antico Testamento enfatizzavano il divieto di ricorrere ad immagini di ogni genere, proprio per i motivi appena sopra accennati.
Oggi, in molte chiese, le parole di Damasceno: “l’immagine è un trionfo”, rimbalzerebbero come un’espressione senza senso in ambienti “anoressici” che riflettono, inequivocabilmente, la scelta di una Chiesa che ha imboccato la via della modernità. La sensazione che si vive in una chiesa dei nostri giorni, è quella di “vedere” solo delle idee che parlano, concetti teologici più o meno complessi che dovrebbero trasudare dalle pareti di cemento armato, fredde d’inverno e roventi d’estate, spogliate per questo di ogni arredo e predisposte per ostentare, invece, uno stile minimalista.
Il rapporto della Chiesa con la modernità è sempre stato conflittuale, dal momento che l’Una ha cercato di custodire e tutelare la Tradizione, l’altra, dal canto suo, ha sempre trovato nella Chiesa un ostacolo alla sua completa diffusione. Il motivo di questa aberrante opposizione è spessa causata anche dagli stessi cristiani che esasperano il concetto di autonomia del progresso e, come conseguenza, lo oppongono alla fede.
A partire dal Concilio Vaticano II, la Chiesa ha chiarito la sua posizione nei confronti della modernità aprendosi ad essa e stabilendo che qualora “la ricerca metodica di ogni disciplina, se procede in maniera veramente scientifica e secondo le norme morali non sarà mai in reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio”. La Chiesa non è affatto contro la modernità, ne fa proprie tutte le sue espressioni di progresso ed innovazione solo se non provocano turbamenti alla struttura della fede e solo se sono conformi alle norme morali.
Purtroppo dagli anni del Concilio ai nostri giorni, il dialogo tra la Chiesa e la modernità ha visto una Chiesa che si è fatta affascinare oltremodo dalla modernità. L’obiettivo, evidentemente non centrato, doveva essere quello di trovare un punto di incontro su cui discutere casomai nel Cortile dei Gentili, “dove gli uomini possano in qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa”.
E invece? La modernità ha trascinato la Chiesa a diventare “molto pensata, molto insegnata, molto studiata, organizzatissima, capace di una catechesi e una pastorale realizzate secondo le metodologie di tante scienze, ma che però possono farla apparire noiosa, stanca, forse depressa e preoccupata”. A pronunciare queste parole è Rupnik che, oltremodo, è dell’idea che anche la bellezza abbia seriamente risentito di questo cortocircuito tra Chiesa e modernità, a tal punto che siamo stati in grado di traslare nella realizzazione degli edifici sacri quella che è attualmente la nostra idea di “coscienza ecclesiale”. Il risultato?
Ebbene il risultato delle soluzioni artistiche ed architettoniche imboccate da più parti, peccano di un “fraintendimento teologico di fondo”: non sono in grado di trasmettere ai fedeli l’immagine di una Chiesa che, di fatto, è il sacramento del corpo resuscitato di Cristo. In altre parole, il rapporto che dovrebbe esistere tra l’uomo e Dio si esprime attraverso una corporeità che può identificarsi proprio con la Chiesa. La Chiesa diventa per noi uomini l’immagine del corpo glorificato di Gesù Cristo.
Il punto chiave ritengo sia proprio la corporeità con la quale Dio si manifesta. San Paolo, più in particolare, nella Lettera ai Colossesi (2,8-10), definisce Cristo come il sacramento per eccellenza esprimendosi in questi termini: “Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo. È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi avete in lui parte alla sua pienezza, di lui cioè che è il capo di ogni Principato e di ogni Potestà”. A ben vedere, San Paolo ci parla di due dimensioni che sono da una parte Dio, ovvero “la pienezza della divinità”, e dall’altra la dimensione sensibile, ovvero quella corporea, a cui rimanda l’espressione “corporalmente” nel brano paolino.
Ecco allora che la bellezza, non più espressa in gran parte delle nostre chiese, dovrebbe essere la sintesi da un lato di un movimento discendente, che da Dio va verso l’uomo (un Dio che concedendoci la Grazia ci santifica), e dall’altro di un movimento ascendente, che dall’uomo va verso Dio (la glorificazione del Signore per mezzo della confessione, del battesimo, della cresima, ecc.). Dei due movimenti quello che sembra ai nostri giorni prevalere è, alla prova dei fatti, quello discendente: da Dio si pretende la Grazia, la soluzione o l’assoluzione delle nostre deficienze.
L’enfatizzazione della sola dimensione discendente, ovvero il binomio Dio-Grazia, ci induce, inevitabilmente, ad allontanarci oltre che dall’idea di un Dio-Amore, o meglio da Gesù Cristo inteso come sacramento, anche dal mistero insito nella Sua passione, morte e resurrezione.
La bellezza da cui ci stiamo allontanando è allora il corpo glorioso di Cristo resuscitato e che è identificabile con il legame saldo tra noi uomini e Dio.
Per usare ancora un’espressione di Rupnik, nelle pareti delle chiese non si riesce più a veder riflesso “tutto il Corpo mistico di Cristo, nelle diverse articolazioni dei suoi misteri e dogmi. E quando la chiesa era vuota, e il sacrestano veniva al mattino ad aprirla, entrando egli faceva l’esperienza di una chiesa abitata: anche se del tutto vuota, essa è abitata, poiché ci sono il Signore Gesù Cristo, sua Madre e tutti i Santi. Poiché entrare nell’edificio di una chiesa significa entrare nella comunione ecclesiale, cioè ricordarsi che io faccio parte di questa comunione transtemporale e transpaziale”.
Il nuovo iconoclasmo a cui da tempo ci sta abituando l’uomo contemporaneo, è a mio parere l’interpretazione di una bellezza che, applicata soprattutto in ambienti sacri, intende esaltare in modo esasperato complesse astrazioni intellettuali. Questa fascinazione in cui è stato risucchiato non solo il laico, ma quel che peggio anche il prelato, ha prodotto pericolosi moralismi in cui l’incontro con Dio è spesso sostituito dalla presa d’atto che l’uomo può anche solo far affidamento alla sua autonoma capacità non solo di ragionare ma anche di agire di conseguenza.
Le anemiche espressioni estetiche di molte chiese contemporanee mostrano proprio un autentico collasso del rapporto tra fede e ragione che gli insegnamenti sia del primo che del secondo Concilio hanno tanto caldamente esortato.
A riguardo, mirabile è il pensiero di Benedetto XVI che ebbe modo di esporre nell’Università di Regensburg. In quella occasione il Papa disse: “L’ethos della scientificità, del resto, è – […].– volontà di obbedienza alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte delle decisioni essenziali dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell’uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento, e dischiudiamo ad essa nuovamente tutta la sua ampiezza. […].
Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture. […].
L’occidente, da molto tempo, è minacciato da questa avversione contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così potrebbe subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente”.
È plausibile pensare che la libertà con cui un artista può esprimere la sua sensibilità e far vibrare la materia che ispira il suo genio, diventa una esplosione di bellezza, che è anche la legge universale dell’arte, solo se fede e ragione accetteranno senza riserve di dialogare. Il risultato che ne verrebbe fuori sarebbe una sintesi ineffabile del dono che Dio ha deciso di riservarci quando, incarnandosi nella nostra carne, non solo ci ha voluto comunicare se stesso, ma anche farci conoscere il suo amore immenso. L’atto di amore di Dio per noi uomini è stato suggellato attraverso il suo unico Figlio sul legno della croce.
Un Uomo concreto, di carne come noi, concretamente ucciso, in un contesto storico non meno concreto, in un luogo concreto, in un momento della giornata concreto. Tutti elementi finiti nei quali Dio ha voluto comunicarci l’infinito, stringendo con noi un patto di alleanza inscindibile.
L’arte, soprattutto quella sacra, ha la grande responsabilità di comunicare tutto questo: concentrare nel manufatto finito il tutto.
“In tutto ciò che suscita in noi il sentimento puro e autentico del bello c’è come una specie di incarnazione di Dio”. [… ] “quindi tutta l’arte di prim’ordine è per essenza religiosa” in quanto “testimonianza in favore dell’Incarnazione”. Una melodia gregoriana testimonia quanto la morte di un martire”. (S.Weil,Quaderni,III, 120).