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Gesù Avatar Cristo

Una grande soluzione a un grande problema! O forse no…?

A giudicare dalla vivacità dei commenti suscitati dallo scorso articolo della Rubrica, in cui abbiamo dato un’occhiata ad alcune essenziali implicazioni ecclesiologiche delle pretese salvifiche di Gesù, pare che in fin dei conti le ragioni che hanno spinto a promulgare un documento dai contenuti “ovvî” come la Dominus Iesus non fossero poi tanto astruse. Probabilmente, anzi, sarà il caso di tornare con calma, nelle prossime settimane, sui contenuti di alcune proposte emerse nel dibattito. Stavolta ci volgiamo, invece, ai contenuti del “cuore” del documento, che in qualche modo consiste nei suoi paragrafi 9-10-11. Si tratta delle parti della dichiarazione che ribadiscono l’unicità e l’universalità salvifiche di Gesù Cristo: ci concentriamo quindi su Gesù e tralasciamo di considerare in sé e per sé il problema della Chiesa.

Ormai nessuno dovrebbe più stupirsi, se dicessi che la Dominus Iesus ha costituito un colpo di mannaia per parte non trascurabile della produzione teologica degli anni ’90 del Novecento: prima di vedere qualche stralcio di questa produzione, che comunque riaffiora, di tanto in tanto, in riviste non specificamente teologiche, sarà il caso che spieghiamo (come si può) quali sono, e quanto sono in fondo immediati e prossimi, i termini che questo aspetto della questione nasconde sotto paroloni dall’apparenza molto tecnica. Per esempio, che vuol dire, oltre che “unicità e universalità salvifica”, “unicità dell’economia del Verbo”? All’apparenza assolutamente niente, quasi un accostamento casuale di parole dall’aria importante. Invece basta pochissimo per capire come arriviamo a certi gomitoli concettuali: non molto tempo fa ho ascoltato lo sfogo (insieme viscerale e intellettuale) di una persona, non più giovanissima, che mi chiedeva come sia possibile ritenere che Gesù sia l’unico rivelatore di Dio in un mondo così pieno di culti, miti, misteri, religioni. «Insomma – mi diceva – viviamo in un mondo in cui non c’è neanche più bisogno di accendere il televisore o di sfogliare enciclopedie per sapere che ci sono persone che nascono, crescono, vivono e muoiono professando fede in Shiva in piena purezza d’intenzione, come tu la professi in Gesù. E sappiamo quanto il condizionamento ambientale influisca su certe posizioni: vale la pena di spendersi per portare le nostre credenze all’altro capo del mondo e imporle a quella gente, quando saremmo ugualmente fanatici di quelle credenze come delle nostre stesse, se solo ci fosse capitato d’essere nati e cresciuti là invece che qua? E poi, in tutto questo, tra le nostre guerre ideologiche, le nostre battaglie teologiche, Dio, il diretto interessato, sembra non farsi affatto vivo a dirimere le faccende – pare dunque lecito chiedersi: è sensato avere una fede? Non è più consequenziale, onesto e in fin dei conti umano tirare avanti col poco che si ha, e ammettere serenamente che tutte le fedi sono uguali, perché nessuna in fin dei conti è più vera dell’altra?».

Un monologo digradante dal turbamento angosciante di istanze vere e ineludibili a un’anestesia del pensiero che, di deduzione in deduzione (e con qualche omissione logica), giunge ad avere non poco di eutanasico: la conclusione – «nessuna fede è più vera dell’altra» – è la versione pubblicamente confessabile di questo asserto: «sono tutte ugualmente false e inutili, se non dannose». Ora, non c’è da scandalizzarsi di niente e con nessuno: questa è la temperie culturale da cui nessuno può dirsi esente, se non con grave ingenuità, e anche i teologi cristiani non possono eludere l’impatto con tale sensibilità. Come tentano di venirne fuori? Ecco il punto, perché mentre è legittimo porre il problema della salvezza dei non cristiani, non sempre le soluzioni proposte dai teologi hanno corrisposto allo spessore del tema.

Il vastissimo Paese indiano ha fornito alla questione i suoi nuovi termini, perché in nessun punto del globo un dilagante pluralismo religioso è tanto pacificamente accettato e accolto, sia nei fatti sia nei principî: gli stessi culti tendenti al monoteismo hanno in talune scuole delle sfumature metafisiche molto sottili che permettono d’individuare in ciascuna delle “immagini divine” nient’altro che un avatar della divinità. In Le dieci parole del Signore, Dietrich Bonhoeffer scrisse, in commento al secondo comandamento della prima tavola, che «la parola “dio” è nulla; il nome “Dio” è tutto. Gli uomini, per lo più, oggi intuiscono bene che Dio non è solo una parola, ma un nome. Perciò cercano di evitare di dire “Dio”; e dicono invece “divinità”, “destino”, “provvidenza”, “natura”, “l’onnipotente”. “Dio” suona quasi come una confessione di fede. E questo non lo vogliono. Vogliono la parola, non il nome. Il nome, infatti, è impegnativo». Il caso è proprio questo, così la parola sanscrita “avatar”, ormai entrata nel vocabolario di tutto l’Occidente tirato su a pellicole holliwoodiane, viene impiegata per giustificare teoreticamente la pluralità fattuale di indirizzi religiosi: il termine sanscrito significa semplicemente “disceso”, e si riferisce alla divinità che in tal guisa – discendendo – si manifesterebbe ora in un modo ora in un altro, nei disparati luoghi e tempi della storia umana, al fine di reintegrare il dharma (l’ordine cosmico) ciclicamente turbato. Altro che Trinità: lo stesso schema concettuale che nel pensiero cristiano era stato presto rigettato come “modalismo”, nel pensiero indù aveva avuto già quattro secoli prima un conio fortunatissimo, destinato a sfidare sostanzialmente inalterati secoli e millennî. Otto, nove o dieci (a seconda delle tradizioni), gli avatar di Viṣṇu sono sostanzialmente la medesima divinità che, di epoca in epoca, discende in forma diversa.

Facilissimo estendere a Gesù l’assioma: «Ehi, e se anche Gesù fosse un avatar dell’unica grande energia cosmica che gli uomini hanno sempre chiamato “dio”?». Il vantaggio di questa spericolata astruseria, certamente, sarebbe nel poter giustificare con un colpo solo la molteplicità delle religioni, il “silenzio” di Dio in merito e soprattutto la salvezza dei non cristiani. Ma a che prezzo?

Stanley J. Samartha ritiene che le definizioni dei primi concilî possano risultare talvolta utili e talaltra d’intralcio alla proposizione del cristianesimo in una società “multiscritturistica” (in cui cioè i testi ritenuti sacri sono molti), e quindi «la caratteristica di Gesù Cristo non consiste nell’affermare che Gesù Cristo è Dio. Questo vorrebbe dire che Gesù Cristo è il dio tribale dei cristiani in paragone con gli dèi di altri popoli» (One Christ Many Religions, 1991, 58). Dov’è, secondo Samartha, l’insidia della teologia cristiana? Facile: in una cristologia «che afferma che Dio si è rivelato per redimere l’umanità solo in Gesù di Nazaret, e che questa attività divina di rivelazione e di redenzione ebbe luogo una volta per sempre nel I secolo» (Ibid., 93). In poche parole, la cristologia dei Concilî ecumenici e dei Catechismi cattolici (fondata direttamente sui testi del Nuovo Testamento) viene bollata come “cristologia elicottero”: piomba dall’alto, fa molto rumore e molta polvere, mentre spaventa e allontana quelli a cui vorrebbe avvicinarsi. È evidente che Samartha fa violenza ai testi scritturistici, e non solo alle definizioni magisteriali, mentre cerca di salvarsi in un improbabile corner: «Dio presente in Gesù è Dio stesso. Nel suo essere, però, Gesù non è identico a Dio presente in lui» (Ibid., 119). Che vuol dire questa cervellotica distinzione? Niente a che fare con le nature e le persone (concetti occidentali, considerati spurî per principio!), ma semplicemente l’insinuazione che quanto Gesù “aveva di misteriosamente trascendente” non era un’entità personale (ovvero la stessa persona del Figlio di Dio), ma una vaga presenza divina che si sarebbe mostrata in Gesù, per il resto nient’altro che un uomo.

Abbiamo visto un teologo indiano (Samartha), ma stupirà vedere che un mitteleuropeo non è da meno nella spericolatezza: Reinhold Bernhardt, da buon tedesco contemporaneo, ha la “nausea da assoluto”, ed escogiterebbe qualsiasi cosa per affermare la presunta uguaglianza di tutte le religioni, le quali però sarebbero distribuite secondo “territorî specifici” – un po’ come per il “cuius regio et eius religio”, che sopì a suo tempo le ostilità politico-religiose. Ognuno sta bene a casa sua, quindi: va da sé come una tale impostazione sembri fatta apposta per segare le gambe alle missioni – tanto Gesù Cristo, sebbene riveli autenticamente il divino, non sembra doverlo necessariamente rivelare in senso esclusivo rispetto agli altri verosimili avatar.

Riprendendo (e semplificando) l’affermazione di Samartha che vedevamo sopra, possiamo generalizzare non troppo ingiustamente in questo modo: per i teologi di quest’orientamento «Gesù è Cristo, ma il Cristo non è semplicemente Gesù», perché “Cristo” (che poi è una persona, una forza, uno spirito?) è pensato in modo tale da poter a priori essere armonizzato con qualsivoglia genio religioso della storia. Così viene dissolto all’istante il colpo di genio dei Logostheologer (“Teologi del Lògos”) dei primi secoli, i quali cercavano di pensare un’entità uguale a Dio e da Dio distinta (il Lògos, appunto) che non ne minasse l’unità e fosse tale da non supporre una distinzione solo apparente nella divinità

Insomma, per farla breve, in “questi Gesù” sono stati sottratti alla figura storica di Gesù di Nazaret proprio quegli elementi (attestati) che lasciavano al Carpentiere di Nazaret la possibilità di essere tenuto per il Cristo. Una volta di più, dunque, s’è visto che rendere Gesù “innocuo” e “inoffensivo” costa esattamente tanto quanto a Gesù più servirebbe per essere considerato il Cristo, il Salvatore. Il quale proprio non ci pensa a passare per avatar.

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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2 Comments on Gesù Avatar Cristo

  1. Ravecca Massimo // 14 Settembre 2013 a 11:44 //

    Il genio si è spesso manifestato nella storia attraverso procedimenti ricorsivi e giochi di specchi. I principali geni in questo senso sono stati Gesù di Nazaret, Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti che oltre ad avere una intelligenza simile hanno anche avuto verso il termine della loro vita un volto simile. La ricorsività è il sigillo del genio. La religione cattolica è ricorsiva nei suoi dogmi principali, a partire dai due misteri principali della fede. Cfr. Ebook(amazon) di Ravecca Massimo. Tre uomini un volto: Gesù, Leonardo e Michelangelo. Grazie.

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