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La verità rosa

Qualcosa può restare intatto nell’inimmaginabile trasformazione di una delle fiabe più amate dell’evo moderno…

«Voglio una vita che sia mistero, amore e lieto fine», dice enfatica Belle al padre, sul palcoscenico del Brancaccio; ai suoi piedi una platea verosimilmente molto eterogenea, che ascolta, sorride, si commuove. Il Broadway’s Musical The Beauty and the Beast” (di Alan Menken, Howard Ashman e Tim Rice) calca la scena romana dal 22 ottobre dopo aver toccato a Milano il tetto dei trecentomila spettatori: la bella versione di Franco Travaglio poggia testi ben misurati e gradevoli su melodie che generazioni d’italiani hanno impresse in mente dal 1991 – l’anno della produzione cinematografica del meraviglioso film d’animazione Disney.

La ribalta è un tripudio di luci, colori, fiamme, fumi; le scenografie, “faraonicamente fiabesche”, mutano con una radicalità repentina impressionante; il versante drammaturgico, poi, eccelle con un casting di giovani professionisti (tra i quali brilla una brava Arianna), con coreografie letteralmente stupefacenti e ricercate fin nei minimi dettagli, e per finire con belle voci e un’eccellente orchestra (le musiche sono dal vivo). Nessuno va via dalla sala rimpiangendo il prezzo del biglietto, e la spettacolarità è tale che tornando con nostalgia alle consuete scene del film d’animazione si rischia perfino, in linea di massima, di trovarle “sbiadite”. In linea di massima, certo, perché il passaggio di genere dal cartoon al musical non è indolore per i personaggi, che sulla scena si vedrebbero trasformati in “tempi morti” ciò che sui fogli colorati erano “pause meditative”: così la Belle che rifiuta oggi di scendere a cena con la Bestia è addirittura più determinata di quella del 1991, ma molto meno di lei brilla per modestia e compostezza (il personaggio animato, del resto, non doveva ballare che alla fine del film e poco prima, e quando cantava poteva permettersi il lusso di farlo “tra sé e sé”); la Bestia che ordina sommessamente ai suoi domestici di far entrare gli assalitori è oggi molto più rabbiosa e meno rassegnata del suggestivo disegno di due decennî fa… Resta intatto Gaston che, personaggio-limite, non può certo diventare una caricatura della caricatura che già è.

La fiaba è veramente “perfetta”: anche senza ricorrere alle solite funzioni di Propp, chiunque saprebbe dire – come per sicuro intuito – che non manca alcun ingrediente e che tutti sono nelle giuste dosi. Ciononostante, sarebbe certamente di grande interesse risalire diacronicamente lungo la storia di questa fiaba tanto fortunata, che certamente non è stata scritta alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso: la maggior parte di quelli che giudicassero quest’osservazione un’ovvietà resterebbe poi a bocca aperta nello scoprire quante versioni cinematografiche di questa storia hanno già visto la luce delle sale, e quante versioni operistiche ed editoriali, prima ancora, essa ha avuto. Non solo: si resterebbe esterrefatti anche a considerare quanto, dei contenuti della storia, è cambiato dal giorno in cui Jeanne-Marie Le Prince de Beaumont ne scrisse la versione “canonica” (anche lei, del resto, aveva attinto al racconto di Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve, pubblicato una quindicina d’anni prima, nel 1740, e nessuno ci garantisce che possiamo fermare a quest’ultima la ricerca – per ora però dobbiamo). Per esemplificare con un tantino d’efficacia, limitiamoci a dire che le due novellatrici francesi non sapevano che la famosa rosa era incantata, e non avevano la minima idea di chi fosse Gaston: il bellimbusto borioso è un’invenzione che vede la luce ne “La Belle et la Bête” di Jean Cocteau (1946), mentre lo scintillante Lumière e gli altri personaggi che popolano il castello incantato della Bestia sono un’invenzione tutta disneyana.

Ora, cercando di fuggire le nostalgie passatiste e gli scrupoli archeologistici dei filologi, proviamo a dire qualcosa in più riguardo alla versione che il mondo cinematografico globalizzato (e, non dimentichiamolo, la complicità della contemporaneità) ha imposto come quella “canonica”: è tipico della “fiaba disney”, ad esempio, che accanto alla severa asciuttezza della fonte originale (completamente e volutamente intatta nel Prologo) brillino varie trovate atte a rompere l’incanto del mistero con la magia della risata; ovvio che non tutte hanno la stessa valenza, e che gli aspetti “farseschi” vengono ulteriormente accentuati nel già menzionato “passaggio al musical”, ma è straordinario notare come – a dispetto di tutto questo – l’incantesimo della storia permanga intatto.

Anzi, il moltiplicarsi dei personaggi del mondo della Bestia non ha fatto che accentuare fortemente la valenza del racconto, che è più e meno che esemplare, più e meno che allegorica, più e meno che storica – essa è, specialmente in quell’antefatto che nelle versioni più antiche il lettore veniva a conoscere soltanto in un’apodosi molto avanzata, quella di un mito eziologico. Chi è la Bestia? Chi e/o che cosa ha fatto che sia tale? Ci sono vie d’uscita dalla sua penosa condizione? Su queste tre domande va ad appendersi propriamente ciò che non può variare nelle più disparate versioni della storia, finché questa resta essenzialmente ciò che è. Scrisse Cristina Campo (e l’oscurità in cui il suo nome è lasciato per i più dice della seria crisi culturale del nostro Paese) che «come i Vangeli, la fiaba è un ago d’oro, sospeso a un nord oscillante, imponderabile, sempre diversamente inclinato, come l’albero maestro di un vascello su un mare ondoso» (Della fiaba, in Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 1987). L’oscillazione del nord che la Campo evoca tanto suggestivamente è l’area immaginifica soc-chiusa nel triangolo tracciato dalle tre domande che dicevamo.

La luccicante pluralità dei personaggi incantati, poi, richiama il formicolio del pléroma divino nei sistemi delle dottrine gnostiche – così come fa già, e in modo musicalmente altissimo, la Zauberflöte di Mozart-Schikaneder. Ancora più del cartoon, il musical scende a motivare discorsivamente la ragione del coinvolgimento di tutto il castello nel maleficio della Bestia: la “colpa originaria” ha una dimensione collettiva – sociale nel senso che l’egoismo del principe era stato fomentato dalla servitù; esistenziale nel senso che la piaggeria con cui la servitù assecondava il vizio del signore non era qualitativamente diversa dal vizio che essa produceva in lui. Così, collettivo sarà anche l’effetto che un’opera di redenzione potrà apportare, pur in gradazioni diverse riferite alla qualità della corrispondenza dei singoli personaggi – anche questo aspetto (che molto ricorda del Tamino e del Papageno della Zauberflöte) viene enormemente fatto risaltare dal musical. La Bestia, per così dire, viene radicalmente trasformata e redenta, mentre i suoi domestici, pur tornando allo stato umano e professando di “aver imparato la lezione”, conservano pressoché intatti gli impasse dei loro precedenti vizî.

Un delizioso libretto è stato scritto in direzione di una ricerca “analoga e contraria a questa”, dall’acuta penna di Luisa Muraro (Le Rose e la verità, in Ruàh, il femminile di Dio, Millelire, Roma 1994): riferendosi alla versione “originaria”, la Muraro amava illustrare la storia con suggestive digressioni teologico-favolistiche (forse non le dispiacerebbe vederle qualificate così) che vedrebbero proprio nella mostruosa bestia “la volpe divina”, la cui «ingenuità è solo un modo della sua furbizia, quello che rende di più» (p. 6).

La Bestia è dunque il povero buon Dio? Può darsi, ma si fa fatica a immaginarlo sulla base della versione disneyana, la quale piuttosto riecheggia lo schema della redenzione gnostico-massonica più volte accennata. Che si potrebbe fare? Una ricerca da fare ci sarebbe, e senz’altro succulenta: nei miti gnostico-massonici normalmente la parte peccaminosa è quella femminile della coppia protologica (come anche nella Genesi biblica, del resto); qui, ricostruito tutto il panorama mitico-eziologico, la parte femminile è propriamente quella del Redentore (anzi, della “Redentrice”), che “deve” liberamente farsi prigioniera della bruta parte da redimere; in questo anch’essa compie il suo cammino (è una “Redentrice-redenta” per cui vale il «dein Verlieren ist dein Fund» di Taulero) e conduce lui – in forza di un potere sempre altro e mai direttamente visibile – alla redenzione personale e alla restaurazione globale del “mondo decaduto”. Un principe azzurro donna. Solo un “aggiornamento rosa”? O come mai?

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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1 Comment on La verità rosa

  1. Claudia // 18 Novembre 2010 a 10:13 //

    Molto interessante questa recensione! Anch’io ho visto lo spettacolo e mi è piaciuto tanto. E’ la Bestia il redentore? E’ Belle?
    O forse è la fata del ProLogo, che si manifesta sotto le sembianze povere e poco gradevoli di una vecchia, e che con il suo intervento… provvidenziale… (..era davvero una punizione..?), offre ai due l’occasione per ritrovare una dimensione più vera e più vicina alla loro vera identità di Figli amanti e amati..? Chissà… Mi piace pensare a questa terza ipotesi, lasciando alla bella e alla bestia la “dignità” di scegliere liberamente di rinunciare a una parte di sè per scoprirsi meno orgogliosi, più umili e infine redimere l’altro con reciprocità.

    Il link di seguito è di una favola moderna, ma l’ultima frase che si scambiano i due protagonisti esprime quello che in questo momento ho in mente…

    http://www.youtube.com/watch?v=FjeZNDoja20

    Grazie a Giovanni per questo articolo e un saluto ai lettori della Porzione.

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