“Da prete operaio ho dato la vita per amore: il più grande dono di Dio”
"Dobbiamo tornare a coniugare vita e fede - sottolinea l'arcivescovo Valentinetti -. dall’interesse per una dimensione sociale e una dimensione democratica di attenzione alla realtà.la democrazia è in crisi in tutto il mondo e se non preserviamo la capacità di vivere uno stato democratico, che si è costruito su una carta costituzionale che ha le sue caratteristiche e viene fuori da un antifascismo e da un antitotalitarismo che sicuramente ci deve aiutare a camminare nel bene. Su questa strada dobbiamo tutti lavorare e dobbiamo impegnarci"
In un oratorio della parrocchia dello Spirito Santo gremito, lo scorso venerdì pomeriggio a Pescara, è stato presentato il libro dal titolo “Nei panni dell’altro. Preti operai, terrorismo e manipolazioni. Il caso Aldo D’Ottavio”, scritto da Alessandro Betta ed edito da Edizioni Tralerighe, che racconta la vicenda sacerdotale e professionale di Padre Aldo D’Ottavio: religioso e sacerdote oblato originario di Pescara, già direttore della Pastorale sociale e del Lavoro dell’Arcidiocesi di Pescara-Penne, che nel 1974 arrivò a Torino e nel 1977 venne assunto come operario allo stabilimento Fiat-Lancia di Chivasso, divenendo poi delegato sindacale della Fim-Cisl. Padre Aldo, indossando la tuta da operaio, non disse di essere un sacerdote per non godere dei privilegi del ruolo. Ma da delegato sindacale divenne un elemento scomodo per l’azienda, tanto che alcune sue parole vennero manipolate fino a far scaturire nei suoi confronti l’infamante accusa di fiancheggiamento al terrorismo che, dopo aver causato profondo dolore all’uomo e al sacerdote, è crollata dimostrandosi del tutto priva di fondamento.
A questa vicenda, inserita nel contesto della Torino degli “anni di piombo”, e al libro che la racconta la Chiesa di Pescara-Penne ha dedicato un incontro-dibattito, moderato dal vice presidente della Fondazione Vera Nocentini di Torino Tommaso Panero, al quale oltre allo stesso Padre Aldo hanno preso parte l’autore del volume Alessandro Betta, l’ex segretario generale della Cgil Abruzzo Gianni Melilla, l’ex segretario generale dei metalmeccanici della Cisl e politologo Marco Bentivogli e l’arcivescovo di Pescara-Penne monsignor Tommaso Valentinetti.
Chiaramente il fulcro dell’incontro è stata la testimonianza del protagonista del libro, Padre Aldo D’Ottavio: «Quella che mi ha riguardato – esordisce il religioso ed ex prete operaio – è un’esperienza vecchia, ma ancora estremamente attuale per gli aspetti che l’hanno contraddistinta. Innanzitutto quanti sono sfruttati per il lavoro, e ci sono ancora oggi. Le persone soffrivano allora e soffrono oggi e c’è chi ne approfitta per star meglio. Chi ha il potere e ha il denaro, utilizza qualunque mezzo per far fuori l’avversario, anche la calunnia più brutta. Un prete che era lì in fabbrica, a motivo di Gesù Cristo, accusato di essere un terrorista. Dove abitavo c’erano i giovani della Gioc (Gioventù operaia cristiana). Il secondo turno rientrava alle 11 di sera e non ero mai sicuro di chi incontravo sulle strade di Torino. E quando ho ricevuto la denuncia, con il licenziamento, avevo la Digos che mi veniva dietro. La mia condizione era di uno che stava al confine… I lavoratori e le organizzazioni dei lavoratori non ci consideravano affidabili, ma anche la Chiesa era prudente ritenendo gli operai tutti comunisti. Io mi trovavo a lavorare in fabbrica in nome di Gesù Cristo e per amore dei fratelli. Ad un certo punto, trovavo costantemente i comunicati stampa delle Br nel mio armadietto o nel mio cassetto. Qualcuno li metteva nel mio cassetto per agevolare il mio licenziamento».
Al tempo, a detta del religioso, anche la Chiesa aveva un atteggiamento freddo nei confronti dei preti-operai: «Mi ha fatto tanto soffrire – ricorda Padre Aldo -, però amo la Chiesa. Nella mia storia la Chiesa ha avuto un comportamento ambiguo da parte di alcuni esponenti, mentre altri hanno fatto la mia stessa scelta, condividendo gli stessi ideali e le stesse cose e ci si dava una mano. Questa è la Chiesa del Signore, però c’è stata una divisione. Ma oggi, io sono a Roma, e non vi racconto cosa dicono i preti – e anche i laici – romani nei confronti di Papa Francesco. Oggi è la stessa cosa. C’è uno schieramento verso una cristianità che si ispira al Vangelo e va all’essenzialità, lascia tutte le superficialità. Ed è normale che andando verso l’essenzialità si perdono le persone, eliminando devozioni varie. Ma grazie a Dio abbiamo riscoperto la Bibbia, il perdere la vita per amore, la povertà della Chiesa, il servizio nella Chiesa per cui ho scelto di fare il prete operaio».
E poi all’epoca gli operai si distinsero per la loro capacità di essere una sola grande voce e un unico grande corpo: «La stessa classe operaia, il sindacato – sottolinea Padre D’Ottavio -. Lì siamo riusciti a fare un fronte unitario, Cgil, Cisl e Uil con alcune differenze legate alla provenienza, ma la cosa grande che è avvenuta con il mio licenziamento è che tutti i 700 operai della verniciatura, per uno come me, fecero 32 ore di sciopero e due ore di manifestazione con mille persone, fuori dai cancelli, uscite dal posto di lavoro. Oggi neanche se muori in fabbrica fanno 32 ore di sciopero! Questo significa che si è fatto un lavoro di coscientizzazione e gli operai sono cresciuti insieme. E quando vedevo operai con la terza media mantenere assemblee enormi, pensavo “Ma qui c’è il Regno di Dio, la risurrezione. Un uomo che è diventato uomo, un uomo che ha alzato la testa. Questa si chiama risurrezione“».
Tutto questo, per l’ex prete-operaio abruzzese, ci riporta alla fede: «Tutto ciò – precisa il religioso oblato – è stato possibile, perché c’è stato uno che è il Figlio di Dio, che ha scelto di stare con noi, di essere come noi, di portare la nostra condizione. E noi, nel momento in cui scegliamo di prendere la condizioni dell’altro, continuiamo a vivere la presenza di Cristo Gesù, nato, incarnato che per sempre sarà con noi. E allora dove vado a trovarlo Cristo Gesù? Certo, nei segni sacramentali, ma il primo ambito dove trovare Cristo Gesù è la nostra umanità, l’umanità degli altri. E allora quando ci dicevano a noi preti operai, pure qualche vescovo ce lo diceva, “Invece di stare nelle chiese state a perdere tempo lì. Quando confessate, quando benedite allora siete veri preti!”. La risposta era molto semplice “Noi vogliamo essere preti sia con la stola, sia con la tuta, sempre”. Non vi nascondo che alcuni sacerdoti e anche qualche vescovo, in queste situazioni scoprivano che forse occorre una religiosità diversa per i nostri cristiani. Oggi le chiese sono vuote, ci lamentiamo, ci spaventiamo. È un grande invito, è una grande fortuna per ripartire dalle cose essenziali, dalle cose che contano. Cosa di essenziale nel mio licenziamento? Perdere la vita per amore. Non c’è nessuno che si impegna, sia religioso che laico, sia credente che non credente, nessuno che si impegna per gli altri e a cui, ad un certo punto, non viene chiesto di pagare un prezzo alto. L’unico momento di verità nel suo impegno. Per me il licenziamento è stato una malattia, mi ha cambiato la vita, però sicuramente è stato il momento di maturazione più grande che il Signore ha donato nella mia vita. Si chiama croce, però è una croce viva. È il seme che muore. Dopo anni passati a Torino a vedere persone che, in quei momenti, hanno riscoperto la gioia di essere cristiani e adesso, come possono, sono impegnati verso gli altri, quello è il dono più grande che Dio può fare a chi dona la propria vita».
Al tal proposito, non è mancato anche un riferimento al contesto locale: «Pescara – osserva Padre Aldo – sembra una “città sugli spalti”. Tutti gli spalti sono pieni, gli spettatori hanno pagato il biglietto, vedono la partita. Se vince il merito è proprio perché hanno tifato; se perdono è perché non hanno capito niente, perché “io faccio l’allenatore”. E questo vale per tutti i cristiani. Se non scendiamo dagli spalti a sporcarci le mani senza attendere il risultato, perché il risultato non c’è perché è vita donata, i fiori verranno anche se non saremo noi a raccoglierli. Proprio come Paolo ricorda alla comunità cristiana. C’è chi li semina, c’è chi li innaffia e c’è anche chi raccoglie. Ma la condizione è non tirarsi indietro, perchè quando ti denunciano di essere fiancheggiatore del terrorismo, non ti arrendi, combatti fino in fondo e la lotta diventa amore».
A chiudere l’incontro è stato l’arcivescovo di Pescara-Penne monsignor Tommaso Valentinetti, il quale ha fornito la sua testimonianza su quello che era il ruolo della Chiesa nell’Italia degli anni ’70, quando il presule si trovava a Roma in qualità di studente dell’Almo Collegio Capranica: «Un luogo – ricorda l’arcivescovo di Pescara-Penne – che era il centro della cristianità e della formazione presbiterale. Avevo degli educatori molto bravi i quali già allora, con la coscienza di una Chiesa in uscita e di un cambiamento d’epoca, ci buttarono nel ’75 a vivere il convegno sui mali di Roma e lì abbiamo fatto esperienza di cosa significava accorgersi di questo mondo. La nostra proposta fu rivoluzionaria. Fummo capofila dell’iniziativa di chiedere ai vari istituti religiosi con sede a Roma di donare il 2% dei redditi derivanti dai rispettivi beni, da devolvere per la costruzione delle case per i baraccati. Fummo contestati. Noi facevano servizio liturgico a Santa Maria Maggiore, dove il monsignore di turno ci disse “Ragazzi, volete regalare i beni della Chiesa, a quegli straccioni?!”. Ma noi rispondemmo “Se forse fa una passeggiata all’Acquedotto Felice, dove facevano servizio le suore di Madre Teresa di Calcutta, forse si renderà conto che la realtà è diversa”. Ma lo scontro col terrorismo fu quando noi avemmo spesso ospite al Collegio Aldo Moro, che fu per noi un maestro di democrazia con la sua capacità di leggere la realtà. E quando Aldo Moro fu rapito, venimmo braccati dalla “Digos”, perché un nostro amico fu il latore delle lettere al Papa per poter arrivare alla liberazione di Moro. E la nostra fatica nel vedere che poi il Papa non disse quello che voleva dire, perché queste lettere avevano fatto un percorso vagliato dalla politica italiana e questo ci rammaricò tantissimo. L’altro polo dello scontro col terrorismo, fu quando il figlio di Vittorio Bachelet (all’epoca vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, ucciso dalla Brigate rosse nel 1980) perdonò i terroristi e il fratello di Bachelet, fece il giro delle carceri italiane per dialogare con i terroristi. Questa cosa ci ha cambiato e ci ha fatto capire che, senza collateralismi, col terrorismo bisognava dialogare, avere il coraggio di stare in mezzo all’agone e impegnarsi in prima persona. Qualcuno di noi andò anche in carcere a dialogare. E questa fu veramente l’intuizione del cambiamento d’epoca, che non comincia adesso, quando il Papa ci ricorda insistentemente che viviamo un cambiamento d’epoca e non un’epoca di cambiamenti».
Partendo da questo presupposto, l’arcivescovo Valentinetti ha rivolto un monito ai credenti: «Se non torniamo a quella sostanza della coniugazione tra vita e fede – avverte il presule -, più che svolazzare per sensazionalismi prodotti dai santoni del momento, o “devozioncelle” che ci mettono in crisi. Io credo che se non ripartiamo da questa base e, soprattutto, dall’interesse per una dimensione sociale e una dimensione democratica di attenzione alla realtà. Perché questo? Io non sono scandalizzato dalla guerra, le guerre ci sono sempre state. Ma adesso mi fa paura la nostra acquiescenza alla guerra. Siamo sugli spalti a vedere quale arma colpisce prima, quale arma colpisce dopo. Siamo foraggiati da una stampa venduta al potere economico multinazionale».
Quindi l’interrogativo che intende scuotere le coscienze dei credenti: «E allora che cosa facciamo noi cristiani? – interroga monsignor Valentinetti – Stiamo seduti ad aspettare che vengano sganciate le prime micro-bombe atomiche? Io credo che su questo dobbiamo lavorare molto e, per quello che potrò, ce la metterò tutta. Stiamo facendo una grossa riforma degli uffici di Curia e quindi vorrei che anche su questo tema dell’impegno sociale e dell’impegno della democrazia. Perché la democrazia è in crisi in tutto il mondo e se non preserviamo la capacità di vivere uno stato democratico, che si è costruito su una carta costituzionale che ha le sue caratteristiche e viene fuori da un antifascismo e da un antitotalitarismo che sicuramente ci deve aiutare a camminare nel bene… C’è un libretto che presenterò, scritto da Mario Campli e da un suo amico (un ex sacerdote della diocesi di Lanciano-Ortona, sociologo, che ha studiato molto, è stato presente nel mondo sindacale per la realtà agricola) intitolato “Democrazia e Concilio. Rileggere il Concilio che dà la sostanza alla dimensione democratica”. Io credo che su questa strada dobbiamo tutti lavorare e dobbiamo impegnarci».