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Parabola di una parabola: forza del diritto. Sradicare.

Il canonista, il pontefice, il teologo: grandi luci per un sentiero oscuro

Si suole attribuire al Padre Jean Daniélou, ma talvolta anche a Henri De Lubac o a Marie-Dominique Chenu (comunque personaggî tutti accomunati da un certo modo di vedere le cose), un motto semiserio che suona più o meno così: «Quand l’Esprit de Dieu s’éteint, le droit canonique prolifère» [«Quando lo Spirito di Dio si estingue il diritto canonico prolifera»]. M’è tornato in mente mentre raccoglievo le idee per raccontarvi quest’ennesima puntata delle vicissitudini passate dalla nostra parabola: è un po’ mettere le mani avanti, perché si sarebbe tentati – a leggere le cose che vi scrivo oggi – di pensare che il diritto e il Vangelo costituiscano due “stili” della Chiesa tra loro inconciliabili. Così non è, e visto che la vecchia diatriba sessantottina “Carisma Vs Istituzione” ha lasciato il tempo che ha trovato dobbiamo provare a considerare le cose altrimenti: perché c’è stato e c’è bisogno di un diritto, nella Chiesa? Perché leggi, tribunali, giudici, condanne e pene nel popolo dei Figli di Dio, liberati da Cristo perché restassero liberi (cf. Gal. 5,1)? Non c’è il rischio di passare da una legge all’altra, da un’ipocrisia all’altra, da una schiavitù all’altra? In realtà, l’anima del diritto è proprio l’esigenza di difendere la causa del povero davanti al prevaricatore, il quale può ben apparire – è il Signore a coniare quest’immagine – come un lupo travestito da agnello (cf. Matth. 7,15). Il tema del nostro “testo-base” è dunque ben presente: il diritto è proprio l’istanza che si costituisce perché l’equità e la giustizia siano conservate nelle comunità, e “carisma e istituzione” hanno nel consesso umano ed ecclesiale un bisogno reciproco analogo a quello di “carne e scheletro” in un corpo.

E con questo torniamo al testo, e soprattutto alla sua storia. Avevamo visto, la volta scorsa (vedi link), come si sia dato a un tratto un cambiamento radicale nel modo di approcciarsi agli eretici, che quasi tutte le letture classiche del testo identificavano con la zizzania; quasi all’inizio di questo nostro percorso avevamo però sottolineato quanto è il “punto di presa” di un testo (vedi link) a influire sull’esegesi. Da dove lo si prende? In questa nostra fase non ci si concentra sull’identità del nemico, né su quella del padrone, ma sul senso del divieto di sradicare e sulla descrizione di quello che avverrà “nel giudizio”. Teniamo a mente questi dati.

Vorrei provare a sintetizzare il delicato passaggio storico cui facciamo riferimento con l’aiuto di tre figure che senz’altro rappresentano i personaggi-chiave del processo per cui si è passati dall’indecidibile tentennamento patristico all’efferata strage di Béziers (1209): il canonista, il pontefice, il teologo.

Anzitutto è bene che chiariamo una cosa cui quasi mai si pensa: la scelta della violenza nella lotta agli eretici non fu né una “scelta obbligata” (chi sa che le cose non sarebbero potute andare diversamente?) né una “finta scelta” (quasi non vi fossero state delle effettive alternative) – è stata piuttosto un complesso prodotto storico, inestricabile groviglio di necessità e di contingenze. Consideriamo anzitutto un certo Vasone (vescovo di Liegi tra il 1042 e il 1048), il quale – rispondendo alle questioni di un altro vescovo sul da farsi con i fuocherelli ereticali che un po’ dappertutto, sui lunghi strascichi del “secolo di ferro” (il X), scoppiettavano – richiama al divieto evangelico di eliminare “prima del tempo” la zizzania, e mette in guardia dalla tentazione di voler anticipare questo misterioso “tempo di Dio” (la dice addirittura una “allucinazione demoniaca”). Vasone scrive dunque, con queste suggestive espressioni: «Cessi dunque il giudizio della polvere, al sentire la frase [ossia il divieto evangelico] del Creatore, e non cerchiamo di sottrarre alla vita mediante la spada del potere secolare costoro, ai quali lo stesso Dio, Creatore e Redentore, vuole mostrare pazienza, secondo il mistero del suo volere […]» (Herigeri et Anselmi gesta episcoporum, 227).

C’era stato un Papa che aveva provato a imbastire le fila di una grande riforma di tutta la Chiesa, ed era stato Gregorio VII (1073-1085): la sua riforma però non sarebbe stata assimilata che in tempi più lunghi di quelli in cui i nostri drammatici secoli si consumarono. Mentre allora imperversavano il disordine e l’anarchia nelle fila del clero (accumulo sfrenato di beni e pubblico concubinato erano i crimini più diffusi), d’altro canto lo spirito evangelico riviveva in molti circoli – diremmo oggi con espressione non del tutto felice – di “laici impegnati”. Il rischio più concreto era che da un lato i santi stessero solo “fuori” dalla Chiesa (visibile), e che dall’altro questi stessi sant’uomini, esasperati dall’invivibilità dell’ambiente ecclesiale, degenerassero davvero in dottrine e pratiche incompatibili col cristianesimo.

Negli anni quaranta del XII secolo (e quindi tra i primi effetti della “riforma gregoriana) era stata compiuta una certosina ricapitolazione dei più significativi documenti canonistici in circolazione a quel tempo – nota, dal nome del suo compilatore (il nostro canonista), come “Decretum Gratiani”. In questo decreto si elaborò con grande finezza filologica la distinzione tra “sradicare” e “scomunicare”: facile capire che gli avversarî della politica repressiva della gerarchia adoperassero il comando evangelico di “non sradicare” in riferimento alla pena canonica della scomunica. La scomunica, però, non comportava l’eliminazione fisica del condannato, e il Decretum pose una distinzione importante.

Il problema derivato dalla scarsa applicazione della riforma di Gregorio VII fu rilevato da quel gigante del papato che fu Innocenzo III (1198-1216, il nostro pontefice, un conte dalla vita di mirabile santità, posto sulla cattedra di Pietro a trentasette anni): uno dei suoi assilli era il terrore che venissero trattati da eretici quelli che, dietro alcune “bizzarrie” (talvolta legate a pauperismo e spiritualismo), conducevano una vita genuinamente ispirata al Vangelo. In taluni luoghi del “mondo” gli eretici erano perseguitati da ogni chierico fervoroso con un drappello di uomini al seguito; altrove neppure i vescovi si degnavano di prendere posizione su eresie manifeste – così i due punti salienti del “programma anti-eretici” di Innocenzo III furono riconoscere tra i cosiddetti “eretici” quelli che potevano essere giustamente “recuperati” nell’ortodossia, evitare che alcuno condannasse chicchessia senza la consulenza della massima autorità ecclesiastica (ossia il papato). Tanto per ricordarci di chi stiamo parlando, Innocenzo fu quel Papa che intuì che quel tale Giovanni di Assisi, che però tutti chiamavano Francesco, poteva avere veramente qualcosa da dire e da dare alla Chiesa. Innocenzo era quel Papa che seppe riconciliare alla Chiesa i valdesi di Durando da Osta e Bernardo Primo. Innocenzo era il papa che ha promulgato la magna charta della tolleranza verso i Giudei (con la Costituzione “Licet perfidia Iudæorum”, del 1199). Nei suoi scritti, tuttavia, l’assillo dei problemi con gli eretici e delle insubordinazioni ecclesiastiche aveva spogliato i cenni alla parabola di ogni riferimento evangelico! Così, la zizzania di cui bisognava avere riguardo indicava soltanto quelli che da molti venivano considerati eretici ma che non lo erano, mentre la soluzione nei confronti degli altri si faceva sempre più netta, grave e irreparabile: nello stesso anno della magna charta della tolleranza verso i Giudei veniva promulgata anche la magna charta del rogo e dell’uccisione fisica degli eretici. Tale documento, chiamato “Vergentis in senium”, equiparava l’eresia al delitto di lesa maestà – crimine la cui pena era la morte. Cosa resta allora della tanto chiara spiegazione della sorte della zizzania? Semplice: l’affastellamento e il rogo venivano non a indicare gli eventi del giudizio divino, quanto le fasi del processo religioso. Avevamo già detto che Innocenzo voleva arginare l’arbitrarietà di vescovi, abati e preti, nel trattare gli eretici, e così ci volle poco e niente perché nella sua lettura “la mietitura” (che Gesù aveva chiaramente essere “la fine del mondo”) divenne il giudizio ecclesiastico! E tuttavia c’era un dramma profondo nel cuore di questo grande pastore d’anime: «Naturalmente, come non deve essere tollerata la malizia degli eretici, così non deve essere sfibrata la religiosità dei puri, perché la nostra tolleranza non rinfocoli audacia agli eretici o l’esasperazione confonda i puri, e nella nostra negligenza prendano una brutta piega e, da puri, diventino eretici» (Lettera 133).

Molto ancora ci sarebbe da dire su Innocenzo, ma è tempo che giungiamo brevemente a Tommaso d’Aquino (1225-1274, il nostro teologo), al quale si deve la rimessa in questione del testo evangelico e dei suoi problemi. Solo che Tommaso è ormai nato in un mondo in cui, da un quarto di secolo, la messa a morte degli eretici è segno di disciplina non meno che di crudeltà. Memore delle lezioni del Crisostomo e di Agostino, Tommaso ha imparato che il vero problema è semplicemente la possibilità di sradicare il grano con la zizzania: «Seppure gli eretici vengano sradicati totalmente nella morte, ciò non è contro il comandamento del Signore [sic!], che è significativo a condizione che la zizzania non possa essere estirpata senza strappar via il grano» (Summa Theologiæ, II-IIæ, Q. 10 A. 3).

Quest’unico passo, sintesi delle sintesi, non rende assolutamente giustizia al genio del Doctor angelicus, che si rendeva ben conto della complessità del caso. Con lui però, possiamo azzardare, “si chiude il cerchio” del ribaltamento del senso della parabola. Per ora.

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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