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L’imprevedibile lealismo europeista dei Gesuiti

L’audacia eversiva della Compagnia di Gesù nel celebrare il giubileo nazionale italiano in tempi di crisi europea

«E non è un caso se l’“acclimatazione” del messaggio cristiano alle diverse civiltà è da più di quattrocento anni il modo – oserei dire il “marchio di fabbrica” – dei Gesuiti di concepire una mondializzazione nel rispetto delle culture particolari». Così Herman Van Rompuy – attuale Presidente del Consiglio Europeo (meglio conosciuto come “Mr. Euro”, visto che è pure il Presidente provvisorio del Vertice Euro) – sabato 12 novembre nella Pontificia Università Gregoriana.

Sorprendenti, i Gesuiti, ancora una volta: non è certo un unicum, la loro celebrazione dei 150 anni dall’Unità d’Italia – anche altre Università Pontificie si sono curate d’inserire nel calendario accademico un momento di riflessione in merito. Mentre però in Lateranense l’accento è stato posto tutto (o quasi) sulla questione romana – sull’evoluzione dei rapporti stato-chiesa dalle ferite risorgimentali ai Patti Lateranensi e alla revisione del Concordato – l’università fondata da sant’Ignazio ha voluto inquadrare il momento celebrativo in una cornice schiettamente europeista che potesse dis-trarre l’Italia e la Chiesa dal midrash delle reciproche usurpazioni, per richiamarle entrambe alle loro responsabilità nei confronti dell’Europa.

Spregiudicata e perfino eversiva, come scelta, se si considera quante critiche stiano piovendo, nelle ultime settimane, attorno non solo alla moneta unica europea (alle prese con minacciose maree di debito pubblico), ma pure alla stessa unione europea e a ogni alito di retorica europeista. Tant’è che Pierluigi Bersani, nel tentativo di passare per il capo dei “buoni”, s’è fatto riprendere per strada a urlare: «In questo momento, anzitutto l’Italia!» – uno slogan tanto genericamente accettabile da essere pressoché insignificante.

Fosse venuto in Gregoriana, Bersani, avrebbe potuto ascoltare una bella lezione sulla centralità della Costituzione Italiana, inquadrata nella storia del percorso unitario nazionale e nel suo «legame serrato con la prospettiva europea». In effetti Giovanni Maria Flick (Presidente emerito della Corte Costituzionale) aveva già ricordato, citando Enrico de Nicola, che «la Costituzione è poco conosciuta, anche da quelli che ne parlano con saccenza». La valutazione dell’ex Ministro della Giustizia ha individuato nell’ignoranza collettiva della Costituzione (e della sua genesi storica) l’ostacolo per la comprensione di «ciò che significa l’unità italiana e la sua continuità su nuove basi, grazie all’evoluzione del patriottismo durante il passaggio dal primo al secondo Risorgimento».

Non è certo Flick il primo che parla del processo che va dalla resistenza al referendum alla costituzione al “miracolo italiano” come di un “secondo risorgimento”: la lettura unitaria di queste tappe storiche (non escluso il fascismo) era stata già data da Giorgio Napolitano in occasione del Discorso tenuto il 17 marzo scorso in Parlamento: «Mi riferisco a quel grande fatto di rinnovamento dello Stato in senso democratico che ha coronato il riscatto dell’Italia dalla dittatura totalitaria e dal nuovo servaggio in cui la nazione venne ridotta dalla guerra fascista e dalla disfatta che la concluse. Un riscatto reso possibile dall’emergere delle forze tempratesi nell’antifascismo, e dalla mobilitazione partigiana, cui si affiancarono nella Resistenza le schiere dei militari rimasti fedeli al giuramento. Un riscatto che culminò nella eccezionale temperie ideale e culturale e nel forte clima unitario – più forte delle diversità storiche e delle fratture ideologiche – dell’Assemblea Costituente».

In effetti Flick ha ribadito, in Gregoriana, che i valori della Costituzione «sono il frutto di una scelta e di un compromesso di alto livello (non di un baratto) tra le grandi correnti ideologiche che sono state alla base dei partiti di massa e d’élite protagonisti della Resistenza: i cattolici, i social-comunisti e i liberali». Come a dire che per le stesse ragioni per cui non è «proprietà della maggioranza del momento», bensì «patrimonio di tutti», ogni politico responsabile dovrebbe guardarsi bene dal farne un distintivo partitico.

Nessuno avrà battuto ciglio, al sentire che il passaggio tra primo e secondo Risorgimento sarebbe stato caratterizzato dalla focalizzazione valoriale sulla persona (si pensi all’articolo 3 della Costituzione, cui recentemente abbiamo già rimandato) piuttosto che sullo stato, e che questo variava radicalmente l’idea di patria – pur senza distruggerla. Solo chi avesse bene a mente lo spirito gesuitico, invece, poteva compiacersi senza grosse sorprese al sentire che Flick dichiarava serenamente, di fronte all’enorme Cristo di pietra del quadriportico: «Questi valori possono essere efficacemente sintetizzati mediante il principio di uguale dignità sociale e quello di laicità: due principî indivisibili, che non possono esistere l’uno senza l’altro». In effetti, dignità e laicità sono, nella lettura di Flick, l’elemento contenutistico e l’elemento formale del cuore della politica repubblicana italiana: come infatti la dignità è quella che si garantisce quando uguaglianza, diversità e pluralismo sono raccolti insieme mediante la solidarietà, così la laicità è il metodo («la Corte Costituzionale l’ha riconosciuto come principio fondamentale e immutabile dello Stato») col quale lo Stato deve mantenersi equidistante dal laicismo, dal radicalismo, dal fanatismo e dall’intolleranza.

Certo, saranno stati delusi gli eventuali nostalgici del neoguelfismo giobertiano, ma Flick ha collaudato il rasoio d’Occam della laicità anche sul delicatissimo tema della Resistenza: essa «dev’essere vista in modo laico: senza miti e senza revisionismi». Continui echi al Discorso di Napolitano sull’unità, anche in merito al discusso ruolo che la popolazione avrebbe avuto nel primo e nel secondo Risorgimento: come è constatabile il deficit, così è innegabile l’aumento progressivo del coinvolgimento popolare. Allo stesso modo la laicità è l’approccio metodologico insostituibile per trattare le questioni del vivere comune – come pure «i temi della bioetica, della scuola e dell’insegnamento religioso, della presenza dei crocifissi negli edifici pubblici» – «senza che siano sfruttati per delle ragioni politiche, ovvero declamate con enfasi nel quadro di una logica fondamentalista».

È sempre tramite questa lente che il Presidente emerito della Corte Costituzionale ha spostato lo sguardo dall’orizzonte nazionale a quello europeo, ricordando – di nuovo – che l’Europa non è una scelta estemporanea di quella che già Dante ri-chiamava “Donna di province”, bensì l’indole che Cavour e Mazzini – in consonanza con Napolitano, anche Flick ha qui menzionato pure Garibaldi – le vaticinavano, e che anche nei caliginosi legami dell’Asse Roma-Berlino si son visti balenare.

In realtà è dai tempi di Cesare che all’Europa si cerca di dare un’identità unitaria, e «poco importa che l’Europa sia la più piccola delle quattro parti del mondo per estensione territoriale, poiché è la più considerevole di tutte per il suo commercio, le sue navigazioni, per la creatività, i lumi e l’operosità dei suoi popoli, per la conoscenza delle arti, delle scienze, dei mestieri e, ciò che è più importante, per il Cristianesimo, la cui morale caritatevole tende solo al benessere della società». Così Van Rompuy ha dato avvio al proprio intervento (pronunciato a titolo strettamente personale), dichiarando subito dopo all’assemblea sbigottita che il testo citato non veniva dalla penna di Chateaubriand, né da quella di Bossuet, bensì dall’Encyclopédie, e in particolare dalle penne di Diderot e di D’Alembert.

Van Rompuy concordava con Jacques Pirenne sul carattere fondante dell’azione evangelizzatrice della Chiesa altomedievale nei confronti dei “popoli romano-barbarici” (del resto fu Pio II Piccolomini a scrivere, nel 1458, la prima storia e la prima geografia dell’Europa); il Presidente non s’è voluto tuttavia attenere a questa onesta constatazione storica come a un mero programma per l’attività politica odierna, ma ha cercato d’individuare fondamenti ulteriori. «Con la formula del biologo Jean Rostand “Solitario-solidario”» Van Rompuy s’è dichiarato uno schietto personalista, attento all’insorgenza dell’uomo come individuo e come più-che-individuo.

L’identità europea è stata prospettata come un’identità plurale illuminata dal patrimonio di diritti e di civiltà conquistati nella sua storia, nonché dalla memoria viva dei sacrificî cruenti che quel patrimonio è costato. E basta a se stesso, l’uomo, per questo compito? No, Van Rompuy non crede che «i diritti […] dell’uomo possano, domani, da soli, costituire una trascendenza […]. Perché è rinviare l’uomo troppo a se stesso e dunque, inevitabilmente, limitarlo, rinchiuderlo, isolarlo».

Basta un pizzico di sano realismo storico, del resto, a scoraggiare ogni idea di fondare su una qualsivoglia fede questo continente dilaniato da religioni, scismi e sette, nonché dai morsi acri di un laicismo feroce: in Europa «non si impone né un mito europeo fondatore né una trascendenza attorno alla quale riunirsi». La guerra, quella sì. Quella, con gli orrori che ha contenuto, può darsi come punto in cui l’umanità comune è stata ferita così a fondo da ritrovarsi affraternata al di qua e al di sotto di sovrastanti divisioni. Van Rompuy si rifà allora al genio storico di Agostino d’Ippona, «che dichiarava: “Noi siamo [indic.] i tempi. Siamo [cong.] buoni e i tempi saranno buoni”».

I nostri giorni, però, non sono giorni buoni per un europeismo di maniera, retorico o letterario che voglia essere: questi sono i giorni in cui tutta Europa (o almeno un suo enorme sud) si chiede se abbia fatto bene a imbarcarsi nell’avventura di una moneta unica modellata nel conio delle più forti tra le monete confluite in essa. Flick aveva incidentalmente ricordato che non esiste una via giuridica di recessione dal processo monetario unitario, ovvero che – stando ai patti – l’unica alternativa alla moneta unica europea (checché ne dica la Merkel) sarebbe il baratto. Questi sono i giorni in cui alcuni, per salvaguardare formalmente queste clausole, arrivano a prospettare un Euro a due marce. Ecco perché non ha di che confortarsi con mere poesie, Mr. Euro, che ha espressamente dichiarato: «Dunque in mancanza di grandi sogni, impossibili da realizzare, noi proviamo – dico bene “proviamo” – a mantenere politicamente, diplomaticamente ed economicamente l’Europa sulle rotaie […]. […] il nostro destino diviene sempre più dipendente da un sistema finanziario capitalista sfrenato e senza etica. E il sentimento d’impotenza che da questo nasce fa paura. Governare in questo clima è molto più difficile di prima».

Il monito agostiniano sta a significare il richiamo alla dimensione anzitutto individuale (etica ed economica) e quindi globale (sociale ed economica) della crisi, della quale l’aspetto politico è più effetto che causa (si veda il baratro cui, dopo l’Italia e nonostante il suo cambio di Governo, si avvicina anche la Francia…). Anche parlando con Benedetto XVI il Presidente Van Rompuy ha espresso preoccupazioni analoghe.

L’audacia dei Gesuiti, nel voler prendere a mani nude carboni così roventi, s’è notata per slancio e personalità: in effetti, a guardarla bene, questa grande celebrazione del giubileo nazionale italiano in ottica europeistica e “laicamente religiosa” è stata una grande celebrazione del genio gesuitico – il Cardinale Grokolewski, ex-alunno ed ex-docente, non ha mancato di chiamare la Gregoriana “alma mater”; Giovanni Maria Flick non ha omesso di ricordare suo zio, il grande dommatico gesuita Maurizio Flick; lo stesso Van Rompuy ha dichiarato, di fronte al Padre Generale Adolfo Nicolas, di essere «divenuto europeo grazie ai Gesuiti».

Una buona replica, in fondo, a quanto s’era visto a Bruxelles tre giorni prima: un ispirato (sebbene azzoppato) Roberto Benigni era stato invitato al Parlamento Europeo a tenere un discorso sul contributo dell’Italia al “progetto europeo”. «Il passaggio da una comunità dell’appartenenza (che può risolversi nell’esclusione) a una comunità della partecipazione (che punta sull’inclusione)» non può dirsi smentito né contraddetto da Benigni che, parlando dei meriti dell’Italia nei confronti dell’Europa ha ricordato il 7 ottobre 1571, quando furono gli Italiani, a Lepanto, a difendere l’Europa.

Paradossalmente, no: non lo smentisce. Anzi…

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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