“Volevo portare Gesù in fabbrica, ma ho scoperto che c’era già”
"Essendo stato fuori da Pescara tantissimi anni - afferma Padre Aldo, commentando il suo Ciattè d'oro - è un po' ricevere ufficialmente la cittadinanza, insomma la nuova cittadinanza riconosciuta pubblicamente. Questa è una grande cosa, soprattutto tenendo conto del mio passato, delle difficoltà vissute anche con l'istituzione nel passato"
Questa mattina, nella Sala Consiliare del Comune di Pescara, Padre Aldo D’Ottavio, religioso e sacerdote oblato originario di Pescara e già direttore della Pastorale sociale e del Lavoro dell’Arcidiocesi di Pescara-Penne, ha ricevuto il Ciattè d’Oro, l’onorificenza civica che ogni anno viene consegnata ai cittadini pescaresi che si sono distinti per i loro meriti.
La motivazione data dalla commissione dei Saggi è la seguente: “Il carissimo Padre Aldo, nello spirito di radicalità evangelica verso gli ultimi del Concilio Vaticano II, ha dedicato tutto il suo impegno nella pastorale diocesana sociale del lavoro, della salvaguardia del creato e della famiglia, specie verso i giovani, dando difficile e significativa testimonianza, anche come cappellano di fabbrica e prete-operaio. Dal papà pescatore di Borgo Marino a Pescara, Padre Aldo ha poi appreso e praticato fortemente l’amore e la vicinanza attiva alla situazione e ai problemi della marineria cittadina”.

Padre Aldo si trasferì a Torino nel 1974, in pieni “anni di Piombo”, e nel 1977 fu assunto come operaio nello stabilimento Fiat-Lancia di Chivasso, dove ricoprì poi il ruolo di delegato sindacale della Fim-Cisl. Il suo impegno sindacale lo rese però una figura scomoda per l’azienda, tanto che alcune sue dichiarazioni furono manipolate, portando a una grave e infondata accusa di fiancheggiamento al terrorismo. Un’accusa che, pur causando grande sofferenza personale, si rivelò completamente priva di fondamento. Da dieci anni è tornato a Pescara, sua città natale, dove è stato parroco della parrocchia di Sant’Andrea.
Partiamo dal presente, questo è un riconoscimento che arriva per lei dalla città di Pescara e arriva per tutto il suo impegno nel mondo del lavoro e in particolare a Pescara per i pescatori. Con quale sentimento ha accolto la notizia?
“Con grande sorpresa innanzitutto, poi con gratitudine. Essendo stato fuori da Pescara tantissimi anni è un po’ ricevere ufficialmente la cittadinanza, insomma la nuova cittadinanza riconosciuta pubblicamente. Questa è una grande cosa, soprattutto tenendo conto del mio passato, delle difficoltà vissute anche con l’istituzione nel passato”.
Ecco, facciamolo un tuffo nel passato. Come sono stati quegli anni Settanta a Torino, quando lavorava come prete-operaio, nonché rappresentate sindacale, in Fiat?
“È stata una storia meravigliosa, tutta la condivisione, l’essere con e l’essere come gli altri lavoratori. E poi insieme crescere nella coscienza della propria condizione, una lettura del mondo con occhi diversi e un impegno collettivo per promuovere l’uomo, la persona, nella sua dignità e nell’ambiente in cui lui vive. La mia storia in Fiat è stata una storia anche molto sofferta per certi versi, nel senso che all’impegno, per tutte le lotte contrattuali, per tutte le situazioni di disagio, di riaffermazione dei diritti, ho avuto un’esperienza molto faticosa. Eravamo agli anni di Piombo, e per farmi fuori dalla fabbrica, mi hanno accusato di essere a fianco al terrorismo. Abbiamo fatto un anno di processo, il processo ha risolto tutto, è ripreso il cammino, sempre in Fiat ma in un altro settore. Queste sono le esperienze più forti, però da lì è venuta fuori la convinzione che bisognava continuare, non tirarsi indietro, bisognava rinascere, bisognava ripartire e lì ho iniziato di nuovo a fare gruppi di lavoratori, a trovarci insieme, a parlare anche nelle nostre comunità cristiane con la parola di Dio letto con l’occhio di chi lavora, di chi soffre per vivere”.
Come è nata la scelta di diventare prete-operaio?
La prima cosa è quella di recuperare le origini, mio papà era pescatore, per cui per me dopo il seminario che mi preparava ad essere sacerdote, ho sentito la necessità proprio di recuperare le radici. La seconda cosa è proprio l’atteggiamento di sacerdote, di Chiesa, col Concilio Vaticano II, ecco c’è stata la maturazione che la Chiesa è nel mondo: la Chiesa è nel mondo e noi Chiesa, noi sacerdoti dobbiamo essere nel mondo e di qui come fare? Nella società industrializzata si individuava nel lavoratore dipendente, non il più povero, ma colui che sta in una situazione di dipendenza ed è strettamente legato al sistema aziendale che è detto alle sue leggi e allora a quel punto abbiamo scelto – dico abbiamo perché eravamo un bel gruppo di preti-operai – quello come territorio dove vivere la nostra fede, non per evangelizzare, fare scuola agli altri ma per condividere insieme, crescere, per scoprire la presenza dei semi che il Signore pone in tutti. Ecco la sorpresa mia, non solo mia, è stata quella, volevamo portare Gesù nelle fabbriche, abbiamo con grande gioia e sorpresa scoperto che Gesù già c’era”.
Qual era il rapporto che i preti-operai avevano con il mondo ecclesiastico a quell’epoca?
Era un rapporto un po’ dialettico, nel senso che la maggioranza dei vescovi era assolutamente non favorevole a questo tipo di esperienza anche perché leggevano questa esperienza nelle sue origini. È nata in Francia e ha avuto tutta una sua evoluzione con atteggiamenti anche severi del Vaticano, che a un certo punto bloccò l’esperienza. Noi siamo gente di confine, i compagni militanti sindacali ci consideravano bravi però non affidabili perché eravamo preti, per la Chiesa eravamo bravi, preti che andavano al lavoro, ma non eravamo affidabili perché ci pensavano tutti i comunisti (ride), per cui eravamo gente di frontiera.
Lei ha ricordato la sua esperienza nel sindacato, quando lavorava in Fiat, ma com’è nato il bisogno di farsi portavoce dei bisogni dei lavoratori?
“Se entri in un ambiente, in qualunque ambiente entri da uomo, da cristiano, non vai come un estraneo che deve fare una sorta di alleanza con chi ti accoglie. La mia scelta, la nostra scelta, era quella di essere dentro, di essere con, fin in fondo, per cui ero uno di loro, non ero un prete in mezzo a loro, ero uno di loro. È la prima cosa di cui ci si accorge è dei torti che subisci, le situazioni dove i lavoratori soffrivano per determinate condizioni, l’incapacità di ascolto, di risolvere i problemi, per cui si solidarizzava insieme, e insieme possiamo farcela. Ecco, questo mi ha spinto ad aderire al sindacato. Poi c’è stato un passo ulteriore dove i lavoratori, i miei compagni, hanno detto “Tu non solo sei scritto, ma devi diventare il nostro rappresentante”. E allora sono diventato RSA, ma lavoravo, non è che fossi in ufficio, quindi ho fatto tutto il cammino con loro, tutte le lotte, le iniziative, cose belle, cose sbagliate, ma fino in fondo con loro e come loro”.
E poi è tornato a Pescara, e qui c’è stato anche il suo impegno in diocesi, nella Pastorale del Lavoro. Oggi però, da quanto abbiamo capito, si riapre il capitolo e lei presterà nuovamente servizio.
“Sì, io sono tornato a Pescara, una volta raggiunta la pensione, a 65 anni, i miei superiori mi hanno mandato a Pescara e sono stato qui 10 anni. Sin dall’inizio il vescovo, sapendo un po’ la mia storia, mi propose l’ufficio della pastorale del lavoro, ho accettato ben volentieri e abbiamo un po’ impostato la pastorale del lavoro, con due grandi obiettivi, cioè “coscientizzare” nelle nostre comunità ecclesiali, non solo i lavoratori, prendere coscienza che hanno una loro identità, una loro cultura, hanno un percorso da dare alla società come lavoratori e poi, nella Chiesa, una sensibilità maggiore a considerare il mondo del lavoro, non un mondo di missione, ma un mondo da accogliere, da ascoltare, per aiutarli a scorgere la presenza dei segni del Regno di Dio che già ci sono. E solo allora, magari, si inizia il cammino di scoperta di Dio, scoperta di Gesù. A volte a me mi hanno chiesto “Ma 30 anni in fabbrica, quanti ne hai convertiti?” Penso nessuno, però penso che tantissimi si sono messi alla ricerca di risposte ad alcune domande di fondo, ma soprattutto hanno sperimentato che c’è una Chiesa che sta con loro, che è come loro, per cui non è una Chiesa istituzione, ma è una Chiesa che cammina”.



