Nella lirica scia dell’Avvento
L’Avvento è il tempo liturgico più “sfortunato” che ci sia: vive i suoi pochi giorni già fagocitato dal Natale e dal suo proprio tempo. Non stiamo parlando soltanto del “Natale consumistico” da predicozzo moraleggiante (quello delle pubblicità zuccherose, degli acquisti febbricitanti, delle lucette quasi psichedeliche), né soltanto dei preparativi per il “Natale intimo”, che ciascuno vive tra le luci e le ombre del proprio focolare. No, stiamo parlando del Natale più canonico che ci sia: quello del presepe e della Messa della notte; quello sognato con la neve e in cui si cantano le più tenere ninnananne a Gesù Bambino. Non è vero, infatti, che col tempo d’Avvento (e quando si prepara il presepe, sennò?) si comincia a pregustare quell’atmosfera indescrivibile che proprio questi canti contribuiscono a plasmare?
Eppure il tempo d’Avvento, breve com’è, ha le sue proprie peculiarità, sedimentate in una storia plurisecolare di tradizioni consolidate e usanze passeggere: non è neppure pensabile provare a tracciarne qui un anche solo sommario panorama – e del resto bisognerà prima o poi tornare sul concetto di “liturgia” e di “anno liturgico”, ma non ancora. Quello che vogliamo fare è provare a gustare insieme i sapori di due testi che caratterizzano il movimento dell’Avvento, che si dischiude nel Natale come un bocciolo nel fiore.
Per fare questo, però, abbiamo in effetti bisogno di una piccola, ma necessaria, considerazione sull’anno liturgico: tutti proiettati sul fatto che l’“anno nuovo” lo si festeggerà dopo il Natale (almeno qui in Europa e, diciamo così, in Occidente), quasi nessuno tiene a mente che l’Avvento, tra le altre cose che fa, apre un nuovo anno liturgico. L’anno liturgico, come ogni anno, è una scansione regolare e ciclica del tempo: il fatto che sia ciclica impone che, come in un anello, il punto di giuntura della fascia (che costituisce materialmente l’anello), sia al contempo il principio e la fine. Questo accade anche in quel particolare “anello temporale” che è l’anno liturgico: le ultime domeniche del tempo ordinario guardano al destino della Chiesa e del mondo dalla prospettiva di Cristo, che viene riconosciuto “Re dell’universo”; le prime domeniche dell’Avvento, pure, continuano a guardare in direzione del ritorno del Messia alla fine del tempo, e si dispongono pure a contemplare – ripresentandola – la prima venuta dello stesso Messia. Una delle pagine più belle del Martirologio Romano – nota come “Octavo kalendas Ianuarii”, o anche solo “Kalenda” – legge appunto il solenne proclama della nascita del Redentore dopo una lunga serie di datazioni, calcolate in tutti i computi cronologici conosciuti nel mondo antico (c’è perfino quello delle olimpiadi!). Questo testo verrebbe cantato, per antichissima tradizione e fino a oggi, proprio alla Vigilia di Natale, quando l’attesa del Messia che deve tornare si concentra nella commemorazione viva del Messia che è già venuto e che viene.
L’Avvento, dunque, che a questa ricchezza vuole armonicamente collegarsi, può suddividersi in due parti principali (tralasciando tra gli altri, non senza rammarico, i preziosi spunti dei Lucernarî, della Domenica “Gaudete” e perfino dell’Immacolata): una prima, che convoca il popolo cristiano al raccoglimento e alla revisione di vita, è più marcatamente espressa dall’austero colore viola che barda tutta la liturgia latina; una seconda, che già lascia presentire gli strumenti celesti mentre vengono accordati per il “Gloria” angelico, eccita i cuori dei fedeli allo stupore e alla partecipazione al “magnum mysterium” che si compie.
La “prima parte” ha un inno tipico, di struggente bellezza, il cui testo ha cavalcato le note di musicisti dalle ispirazioni più disparate: dalla composta melodia gregoriana all’evocativo “gocciolare musicale” di Schütz, fino al suggestivo tremolio polifonico di Bartolucci e alla nenia intellettuale della “Genesi” di Battiato (solo per dare un’idea), le parole che andiamo ad assaporare sono quelle del “Rorate, cœli” (vedi link). La “seconda parte” sarà espressa adeguatamente dall’inno che accompagna l’introito di tutta la Novena di Natale (vedi link): di caratteri formali e contenutistici nettamente distinti dal primo, esso porta indifferentemente il nome di “Regem venturum Dominum” (vedi link), o di “Cantico delle profezie” (o ancora, in latino, “Vaticinia”). Sarebbe inutile e ridicolo, in questa sede, provarci a rintracciare tutte le citazioni bibliche, letterali o velate, contenute in questi testi: entrambi (come l’innologia latina in genere) sono degli omogeneizzati della Scrittura, e non c’è neppure una sillaba dei loro versi che non faccia riferimento alla poesia sacra di cui abbiamo già variamente parlato. Dati i limiti dello scritto, ma visti anche i pregî del web, vi abbiamo fornito i testi originali (corredati da traduzioni), e ci limiteremo qui a pizzicare qui solo alcune delle corde di tanto raffinati strumenti, lasciando al silenzio del lettore la responsabilità di alimentare col tempo (merce rara, sì, ma non pare esserci equivalente: ecco perché è preziosa!) le suggestioni che cerchiamo di stuzzicare.
Il responsorio del Rorate cœli è rivolto dal popolo (il quale è l’attore lirico, che canta in prima persona) al cielo, perché rompa finalmente il suo silenzio e conceda – come in uno scroscio, evocato dalle liquide rombanti di “rorate”, o anche nel modesto sgocciolio della vocale stretta di “pluant” – “il Giusto”. Di nient’altro il popolo dice di aver bisogno, anche se non ha neppure accennato ai mali che lo affliggono.
Il resto dell’inno è direttamente rivolto a chi dei Cieli (e del loro silenzio) è il Re; questi, poi, non resterà impassibile alla confessione del suo popolo – anzi la bocca del popolo darà sollievo alla propria sete sotto la doccia delle parole di Dio. La prima stanza dell’inno è tutta un pianto sullo stato corrotto e abbandonato in cui versano le cose umane (anche le “comproprietà” divino-umane!) quando “qualcosa non va”; che cosa, però, “non va”, ancora non si vede – ciò che da principio si deve tuttavia dolorosamente registrare è che c’era un luogo, fisico, spirituale, morale, culturale, in cui «i nostri padri» hanno avuto un contatto con Dio e di cui “ora” non ci rimane molto più che il vago ricordo. Dio stesso non è estraneo a quella vicenda, sebbene non ne abbia la responsabilità: nei proprî peccati il popolo riconosce i passi deliranti per i quali tornava brancolante «in un deserto senza strade», che non è più rischiarato da alcuna colonna ignea. Il ricordo dei privilegî trascorsi risuona amarissimo in quel «noi!» che chiude il primo verso, riecheggiando per un istante indefinito nell’enigmatica immagine della «foglia di tutte le cose». La foglia che ci troviamo ad essere si scopre paurosamente in balia del vento dei proprî sfrenati capricci; qui Dio fa la sua comparsa – comparsa di un silenzio schiacciante, visto che la sua azione non è altro che la riluttante (ma “forse” già presciente) presa d’atto della ribellione del popolo. «Allisisti nos» potrebbe essere tradotto anche con: «Ci hai fatto sbattere i denti» – e questo è il punto più alto della tenera tragicità dell’inno, in cui il popolo riconosce con la franchezza dei “già intimi” la parte di Dio, eppure non perde la lucidità necessaria a stornare dall’amante fedele il sospetto dell’infedeltà.
La terza strofa è tutta supplica accorata: non pensa più alla dignità e alle ragioni, il popolo che ha esperito una volta di più l’amarezza della schiavitù al proprio arbitrio: «Manda colui che stai per mandare» dice insieme la preghiera e l’intima fiducia di essere già stato esaudito (l’imperativo e l’indicativo dello stesso verbo si accordano senza contraddizione, nell’orizzonte di chi “si conosce da sempre”). Qui fanno la loro comparsa i termini più alti con cui l’inno definisce “quello che sta per essere mandato”: «l’Agnello che domina la terra» sembra essere già conosciuto, in un presente storico che è pure da sempre metastorico; altrettanto storici e metastorici sono la roccia del deserto (tra le più audaci immagini cristiche che già Paolo utilizzò, in 1Cor. 10,4) e il colle di Sion – ecco, il popolo riconosce che quello che sta aspettando era già stato lì tra loro in tutti i segni, dal più oscuro al più chiaro e nobile. «Il giogo della prigionia» può essere asportato ancora, e più radicalmente, come già s’era intravisto in passato.
Ecco che il Silenzioso può rispondere, compiaciuto e intenerito dell’amore ritrovato: dall’esperienza del peccato il popolo ha imparato che il dolore può rinnovare «il cuore contrito e umiliato», e che questo Dio non lo disprezza – non c’è più spazio ragionevole per la tristezza, che è il bruciore che nell’uomo lascia la puntura del peccato.
L’attesa del Redentore può quindi sprigionare mano a mano i vapori di una gioia sempre meno facilmente contenibile: i testi delle antichissime e magnifiche “antifone ‘O’” (che dobbiamo qui tralasciare) rappresentano come una graduata ascesa nelle sfumature dell’attesa – un’ascesa che giunge a sfiorare perfino l’impazienza. Il “Regem venturum”, invece, convoglia l’entusiasmo per lo scadere del tempo d’Avvento in una scintillante raccolta di alcuni dei più poetici testi messianici della Scrittura: le immagini prese dalle vicende storiche del popolo d’Israele, come ad esempio quella della rugiada sul vello (Gdc. 6), restano così isolate dal contesto testuale da fondersi armonicamente al panorama “mitologico” del tempo messianico. Così «in quel giorno» «i monti stilleranno dolcezza, e per i colli scorreranno latte e miele»; non per questo la storia e i suoi cruccî sono dimenticati: quella stessa Gerusalemme su di cui si piangeva sarà rinnovata dal «grande profeta». Il ritmo dei versi e la musica dispongono in modo molto enigmatico le parole “Deus” e “homo” nel testo latino, come se si volesse velare ancora per un po’ la dichiarazione della divinità del Messia; i segni della sua regalità, poi, di che natura sono? La “corona del regno” potrebbe intendersi come la corona di spine, ma anche come il coronamento che la gloria di Dio conferisce al Messia: quello che è certo, del suo regno, è che tale potere dev’essere immensamente esteso. Prima di arrivare a dire che «lo adoreranno i re della terra» (troppo facile rifugiarsi nella sola icona dei Magi: qui si parla del Messia come “Re dei re e Signore dei Signori” – Apoc. 19,16), il cantore dell’inno – che questa volta non è il popolo, bensì al popolo si rivolge – rassicura chi lo ascolta circa l’affidabilità della promessa che sta per compiersi. Così, allo stesso tempo, bisognerà attendere, «se [il Messia] facesse ritardo», sapendo comunque per certo che «non darà buca».
Solo le ultime due stanze sono decisive, però, perché il popolo sappia finalmente chi è il Messia: qui si parla di un «piccolo», che «sarà chiamato “Dio forte”» (e nulla di più alto si può dire del figlio di Maria!), e le cui origini sono più antiche della più ancestrale delle notti. Restiamo sbalorditi a sentirci dire che «sarà magnificato al centro di tutta la terra», ma il segno del suo potere, stando sulle sue spalle, è l’indizio che più finemente ci ricorda che la regalità del Cristo – cuore di quest’inno d’Avvento – coincide con la dignità cosmica del Crocifisso.
Ecco dunque il Natale cui il tempo d’Avvento vuole introdurci, sulla scia della sua sbalorditiva potenza lirica: se il Dio-bambino è già il Redentore, vuol dire che già il mistero del Natale conterrà misticamente la Pasqua nella quale riconosciamo nitidamente in Gesù il Cristo.