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Il trono rovente dell’Agnello

Un testo meraviglioso e misterioso per introdursi alla settimana di settimane

Una delle cose che dai calendarî liturgici meno passa nella sensibilità comune è la durata delle feste. Già il lunedì dell’Angelo (altresì detto “pasquetta”) ci si sente dire, incontrando persone: «Buona Pasqua fatta!». Qualcuno, che forse cerca di essere più attento, aspetta martedì, dopo pasquetta, per cominciare a salutare in questo modo. A voler essere onesti, però, l’unico fondamento della pasquetta non è teologico, bensì gastronomico: è principio sacrosanto, cogliere l’occasione della consumazione degli avanzi del grande pranzo di Pasqua per incontrare altri amici, fare scampagnate e così via; d’altro canto però non si vede in cosa il lunedì dell’Angelo sarebbe diverso dal giorno successivo. In complesso, però, è meno distante dal vero la posizione di chi tratta pasquetta un po’ come Pasqua: questi sono imprecisi, anzi, per difetto, perché “pasquetta” – dal punto di vista liturgico – dura un’intera settimana. È facile farci caso: andando a Messa in un qualsiasi giorno della prima settimana di Pasqua ci si ritrova a cantare il Gloria, ed è possibile anche che prima del canto al Vangelo venga cantata o letta la Sequenza pasquale (Victimæ paschali laudes). Per chi recita la Liturgia delle Ore la cosa è ancora più evidente, visto che le ore maggiori (Lodi e Vespri) ripetono per tutta la settimana i salmi del giorno di Pasqua!

Il tempo di Pasqua, a dire le cose per intero, ha un’ampiezza simbolica di portata cosmica, perché è una settimana di settimane (sennò perché durerebbe cinquanta giorni?), e così il primo giorno – la grande domenica di questa settimana cosmica – dura una settimana. Non si tratta di un semplice espediente per avere più tempo a disposizione per chiamare gli amici e i parenti, senza piegarsi alla cacofonica espressione “buona Pasqua fatta”; s’è voluto invece di proposito che le letture della seconda domenica di Pasqua riportassero eventi individuati cronologicamente una settimana dopo gli eventi della mattina di Pasqua – difatti si legge di Tommaso, alla seconda domenica, cui Gesù si manifesta una settimana dopo essersi manifestato agli altri – e la Divina Misericordia, cui questa domenica è dedicata, è quella che per non perdere nessuno raccoglie sette giorni come in un giorno solo.

Il tempo di Pasqua è il più lungo tra i “tempi forti”, e nulla di strano che sia impreziosito da inni di rara bellezza, che si ripetono incessantemente fino alla solennità dell’Ascensione: la scansione quotidiana della preghiera nelle varie ore del giorno aiuta a rispondere a un’altra domanda – quando “avviene” la Pasqua? Intendo, se il Natale “avviene” di notte (e basta), perché della Pasqua si celebrano invece la sera, la notte, il mattino e il giorno? “Pasqua” significa difatti molte cose, e il tempo di Quaresima finisce al mercoledì della settimana santa perché da giovedì si apre il rapido estuario del Triduo Pasquale (composto di sere, di mattine, di notti e di giornate), il quale immette nella grande “settimana di settimane” che chiamiamo “tempo pasquale”.

C’è nel Breviario Romano un inno di formidabile potenza concettuale e di grande forza espressiva, che per sei settimane viene letto tutti i giorni, all’ora del Vespro: l’Ad cenam Agni providi è la splendida composizione poetica che riannoda insieme gli eventi di Pasqua a cominciare dalla sera della prima pasqua ebraica (quella in Egitto!) fino al fulgore di Cristo che si rialza dalla morte. Eventi distanti all’incirca tredici secoli si ricollegano mirabilmente gli uni agli altri in un gioco di allegorie al cui centro sta la convinzione-base che, essendo Cristo la Parola di Dio incarnata, tutta la Scrittura parla di lui, sempre (anche se in modi diversi). L’immensa erudizione confluita nel Repertorium hymnologicum di Ulysse Chevalier c’informa che questo testo è riportato in più di sessanta diverse fonti, perlopiù datate tra il 1444 e il 1866: non c’interessa qui prendere in considerazione le varianti, ma solo notare che esse sono così tante perché il testo è molto antico. La versione che si ritrova sul Breviario Romano è dunque il frutto di una scelta di un gruppo di studiosi (per comodità e per chiarezza, alleghiamo qui una tabella contenente il testo latino del Breviarium Romanum, una sua traduzione spiccatamente letterale e la versione ritmica elaborata per la versione italiana del Breviario Romano).

E quanto è antico, questo testo? Molto, ma è difficile dire di più: c’è una tradizione che lo vorrebbe veder nascere sotto la grande penna di Ambrogio di Milano (però ad Ambrogio è attribuito anche l’inno composto per la morte di Sant’Ambrogio stesso!), ma Chevalier pensa che sia più prudente ritenerlo di due secoli più tardo, ossia del VI secolo. Molto strano, perché anche Ilario di Poitiers, contemporaneo di Ambrogio, cita un inno molto simile, e il testo risuona vivacemente di intuizioni tipiche del Vescovo di Milano. L’unica ipotesi che si può fare è che, se non si tratta di Ambrogio in persona, deve trattarsi di un suo profondo ammiratore e conoscitore: usa perfino il metro preferito di Ambrogio (che è la “strofa archilochea” – come l’ha chiamata Kircher nel XVII secolo – composta di dimetri giambici), il quale avrà del resto una grande fortuna, nel medioevo, dal Vexilla Regis prodeunt di Venanzio Fortunato al Veni Creator Spiritus di Rabano Mauro e oltre.

La versione italiana prodotta per il Breviario Romano è tutt’altro che brutta, ma dichiaratamente si pone più l’intento di fornire un testo utile per il canto in lingua italiana che una traduzione fedele alla lettera del testo latino. Per questa ragione di fondo, non ci si può certo stupire di ogni scelta lessicale (perlopiù obbligate dal metro), ma una cosa che colpisce è che nella versione italiana mancano due intere strofe, e tra le più belle dell’inno: da sette quartine (la dossologia finale, l’ultima, è una strofa mobile che si utilizza per molti inni) la struttura passa a cinque, senza che se ne capisca il motivo preciso.

Un’altra bizzarra anomalia della versione italiana è che non abbiano fatto di tutto per far comparire il nome del Faraone nella terza strofa, laddove nel testo latino il re dal cuore indurito (da sempre ritenuto figura del diavolo) si giustappone e si contrappone all’angelo devastatore, per mano del quale Dio punisce la sua protervia. Forse si sarebbe pure dovuto valorizzare meglio il titolo di “principe” per Cristo, nella prima strofa: “principe della pace” (Is 9,5) è un titolo messianico la cui coloritura politica Paolo trasforma in pasquale-escatologica (Ef 2,14-17). Infine, è certamente un peccato che lo splendido verso “agnus occisus innocens” venga appiattito in “mite agnello immolato”: nel primo l’iperbato di “occisus” fa sì che “innocens” non sia un semplice attributo ma un predicativo dell’oggetto, che difatti chiude perentoriamente il verso; nel secondo “mite” sembra celebrare più la reazione “stoica” del Cristo sotto la passione che la qualità fondamentale del sacerdozio messianico, ovvero il poter espiare i peccati del mondo in quanto innocente di ogni male (cf. Eb).

La prima quartina tende un filo diretto tra l’ultimo (Ap 7,9-17;9,9-18) e il secondo (Es 14,21-15,21) libro dei settantatré che compongono la Scrittura: l’antica traversata del Mar Rosso viene riletta alla luce dell’evento escatologico della cena dell’Agnello, quando il sangue versato dai giusti mostrerà il suo splendore, riflesso da quello dell’Agnello, al punto che «il sole non batterà più su di loro». La terza quartina procederà unicamente sul binario dell’Esodo, confidando che ormai la chiave di lettura cristologica sia saldamente impostata: a riprova di questa fiducia, la quarta strofa si rifà speditamente all’audacia di Paolo, il quale per primo aveva riletto la Passione di Cristo come l’evento che da sempre ha fondato e dato valore alla pasqua ebraica (1Cor 5,7-8).

La rilevanza sacrificale della Pasqua (di passione e morte) di Cristo viene portata al parossismo nella quinta strofa, che offre – in una climax coordinata per triplice asyndotonun elenco essenziale dei frutti del descensus Christi ad Inferos. La quartina successiva si concentra invece sugli effetti del ritorno vittorioso di Cristo “dal baratro”, sulla scorta delle ardite immagini della Lettera ai Colossesi (Col 2,13-15). Considerando l’evidente nesso tra queste due strofe, nonché la sua insuperabile importanza, è ancora più sorprendente (in altri campi si potrebbe dire “sospetto”) che proprio queste, e non altre, siano state espulse dalla versione italiana.

A ben vedere, però, l’espressione più ardita di tutte è conservata nel secondo verso della seconda quartina, laddove commentatori antichi annotavano a margine un moto di devozione quasi incomprensibile per una spiritualità del nostro tempo: il santissimo Corpo di Cristo sarebbe stato «rovente sull’altare della croce» in quanto «arrostito e disseccato sulla croce al fuoco dell’ira di Dio, come Egli stesso ha detto: “La mia forza è riarsa e secca come un coccio”». Si capisce che il Breviario Romano abbia purgato il testo da glosse e interpretazioni più facilmente capaci di riuscire di disturbo che di incremento alla fede e alla devozione. Si cercava l’ennesima allegoria nell’arrostitura dell’agnello pasquale, e così la croce è diventata un gigantesco spiedo sospeso su un braciere siderale – Dio è «fuoco consumante» (Eb 12,29).

Quello che non può non sorprendere è che l’anello mancante tra il testo latino e la versione italiana sembra da individuarsi in un antico inno di Lutero (!): «Ecco qui il vero Agnello di Dio, / del quale Dio ha comandato; / esso è stato arrostito in un torrido amore / all’albero della croce» (Christ lag in Todesbanden). Certamente la categoria di “ira di Dio” non è da cestinarsi, come imprudentemente non pochi si vantano di fare, né va scialbamente tradotta con un “amore di Dio” che – così abusato – rischia di voler significare tutto e niente. Il mysterium iniquitatis che Gesù, Agnello di Dio, si addossa “sull’altare della croce” è sufficientemente oscuro da lasciar presagire un dramma indicibile, tanto che il Figlio prende sulle sue labbra le parole disperanti del Salmo 22: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?».

L’amore di Dio – che è amore vero – comporta necessariamente i due sensi della parola “passione”, e sulla croce, che è trono, ma anche talamo ed altare, brucia un fuoco misterioso, dicendo il quale siamo sospesi tra ira e amore. Lutero ha dato una mano agli estensori della versione italiana dell’Ad cenam Agni providi. Ironia degli inni sacri? O forse dello Spirito, che dà vita nella poesia del Verbo per la gloria del Padre?

 

About Giovanni Marcotullio (156 Articles)
Nato a Pescara il 28 settembre 1984, ha conseguito la maturità classica presso il Liceo Ginnasio "G. D'Annunzio" in Pescara. Ha studiato Filosofia e Teologia a Milano, Chieti e Roma, conseguendo il titolo di Baccelliere in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Prosegue i suoi studi specializzandosi in Teologia e Scienze Patristiche presso l'Institutum Patristicum "Augustinianum" in Roma. Ha svolto attività di articolista e di saggista su testate locali e nazionali (come "Il Centro" e "Avvenire"), nonché sulle pagine della rivista internazionale di filosofia personalista "Prospettiva Persona", per la quale collabora anche in Redazione.
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